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“In nome della legge” è stato il primo film sulla mafia: girato nell’estate del 1948 a Sciacca. Pietro Germi erano affiancato da due all’epoca giovani registi, Federico Fellini e Mario Monicelli, che ne firmarono la sceneggiatura. La pellicola era tratta dal romanzo “Piccola pretura” di Giuseppe Guido Lo Schiavo, un ex magistrato che aveva raccontato la sua esperienza di pretore a Barrafranca, nell’ennese. Con le case basse e bianche, la campagna luminosa, le masserie di pietra, Sciacca dava l’idea del luogo tipico della mafia rurale che, col suo codice d’onore e le sue leggi non scritte, si sostituiva allo Stato. Ma un giorno lo Stato arrivò: il settentrionale Guido Schiavi, un Massimo Girotti all’inizio della carriera, scopre i legami fra i ricchi proprietari terrieri e la mafia capeggiata da Turi Passalacqua (Charles Vanel), attirandosi l’ostilità dei notabili del luogo.

Nel 1949 Pietro Germi gira In nome della legge, tratto dal romanzo Piccola pretura, scritto da Giuseppe Guido Lo Schiavo[1]. In nome della legge segue gli sforzi del pretore Guido Schiavi (Massimo Girotti) per dare una svolta alla situazione di abbandono secolare in cui versa Capodarso, paese dell’entroterra siciliano dove è stato destinato, in un momento storico in cui la pretura mandamentale era l’avamposto giudiziario dello Stato sul territorio[2].

Una stazione sperduta è testimone del passaggio di consegne tra il pretore Schiavi e il suo predecessore, sopraffatto dal clima di soprusi e risentimenti (“Sei ancora in tempo, vieni via con me: mi ringrazierai quando saprai la mia storia”); tra di loro, un solitario binario ferroviario, una coltellata tirata dal cielo per separare due dimensioni vitali e temporali ostinatamente contrapposte. E così, nel suo intento per far luce sui crimini che stanno tingendo di sangue Capodarso, il nuovo pretore si imbatte in una terra di frontiera dove il concetto di legge assomiglia alle sabbie mobili, la giustizia è prerogativa della mafia e lo Stato non può o non vuole arrivare.

In paese egli è accolto con diffidenza e con ostilità: l’unico a dimostrargli simpatia è un giovanotto di nome Paolino. Il giorno successivo al suo arrivo il pretore deve occuparsi di un omicidio; ma l’inchiesta è difficile, perché nessuno vuol parlare. Una parte della popolazione è disoccupata, in seguito alla chiusura di una zolfara. Il pretore cerca di risolvere il problema, inducendo il barone Lo Verso, che amministra la zolfara, a riaprirla. Il barone, legato a filo doppio con la mafia, cerca di corrompere il pretore e, non riuscendovi, gli fa tendere un agguato. Il pretore resta soltanto ferito, ma il Procuratore Generale, accennando alla presunta ostilità della popolazione, gli consiglia di chiedere un trasferimento. Avvilito, decide di andarsene; ma quando apprende che Paolino, vittima innocente, è stato ucciso dalla mafia, ritorna in paese e convocati sulla piazza gli abitanti, annuncia che resterà al suo posto, deciso a ristabilire ad ogni costo il rispetto della legge[3].

Prima con la riapertura della miniera, poi con la dispersione dei solfatari che l’avevano occupata, Schiavi si metterà contro Lo Vasto e Passalacqua, provando sulla propria pelle il loro potere di vita e di morte, e persino contro tutto Capodarso, nell’intento disperato di squarciare il velo di paura, omertà e diffidenza che asfissia il paese: Massaro, c’è una sola cosa che io devo e voglio fare a qualunque costo: amministrare giustizia a beneficio di tutti e, se occorre, contro tutti, secondo la legge” / Quale legge, pretore?”, chiede massaro Turi. “La sola legge che ci permette di vivere vicini”, risponde Schiavi“senza scannarci come bestie feroci”.

Girato a Sciacca, luogo dell’“omicidio eccellente” di mafia del sindacalista Accursio Miraglia, lo stesso che servì da spunto a Sciascia per la stesura de Il giorno della civetta, il film raccoglie la dialettica sociale e condivisa alla radice della produzione artistica di Germi. Quando tutto sembra perso e sta per prendere la strada del suo predecessore, il pretore riceve una scossa brutale (la morte di Paolino per mano mafiosa) che lo convince a non mollare. Il discorso finale davanti al paese diventa un vero e proprio processo, un atto di accusa implacabile, non soltanto nei confronti della mafia, ma anche della mentalità mafiosa che permea una parte del tessuto socile, ugualmente colpevole, anche se non preme il grilletto: “Voi, che invece di aiutarmi a svolgere il mio compito, mi avete considerato un nemico della vostra pigrizia. Voi, che avete creato mille ostacoli al mio lavoro, che mi avete osteggiato come e quando avete potuto, che mi avete disprezzato e ignorato, denunciandomi come un perturbatore della vostra comoda quiete. Voi tutti, uomini e donne, che vi siete lasciati avvilire dalla paura anche quando si trattava di scoprire e punire gli assassini dei vostri figli, che avete tentato di sopraffare la legge persino quando difendeva i vostri interessi.

La situazione che il giovane pretore trova al suo arrivo in paese è quella di una mafia si è alleata al signorotto del luogo e questi può, a suo piacimento, compiere speculazioni chiudendo una miniera da cui traevano lavoro e sostentamento gran parte della popolazione. Carabinieri e magistratura, indeboliti dal prevalere dei “mafiosi”, non possono nemmeno frenare il banditismo che dilaga nelle campagne contro il volere della stessa mafia: gli assassinii si susseguono, i furti sono all’ordine del giorno. Il pretore non si perde d’animo: parla chiaro con tutti e rifiuta persino l’alleanza con il capo-mafia, cui fa comprendere di ritenere volgare omicidio la sua cosiddetta “opera di giustizia”.

In poco tempo il paese intero è contro di lui – a cominciare dal signorotto che s’è visto intralciato nelle proprie speculazioni – e anche i suoi superiori, a Palermo, gli lasciano intuire di disapprovare uno zelo che non sarebbe servito a mutare una situazione vecchia. Stanco, sfiduciato, il pretore rinuncia, ma proprio mentre sta per lasciare l’incarico a un successore più acquiescente, i banditi gli uccidono l’unica persona che in quell’ambiente ostile gli si era accostata con amicizia, un ragazzetto coinvolto in una vendetta privata. Il pretore torna indietro, fa suonare le campane a martello, ai cittadini accorsi rinfaccia i loro torti, alla mafia sopraggiunta a cavallo dimostra il suo errore di volersi sostituire all’autorità legittima, e finalmente il capomafia comprende: i suoi uomini, dietro suo ordine, circondano l’assassino del ragazzo e lo consegnano al Pretore. Questi, arrestandolo, può così pronunciare la formula solenne che da anni non risuonava più in quei luoghi: “In nome della legge”.

Daniele Onori


[1] Magistrato esperto in diritto del lavoro, criminologia e procedura penale, ha scritto pure testi di narrativa. Interessandosi della mafia, ne ha dato una rappresentazione ambigua, di società criminale portatrice di virtù sociali, sia nelle opere letterarie sia in alcuni testi giuridici. Il suo esordio artistico è rappresentato proprio da questo romanzo autobiografico Piccola pretura (1948), ispirato all’esperienza di pretore che lui stesso compì a Barrafranca.

[2] Il pretore mandamentale era al tempo stesso pubblico ministero per i reati puniti meno gravemente, giudice dei reati medesimi, e svolgeva anche funzioni civili e di volontaria giurisdizione entro un certo limite di competenza. Questa figura è stata abolita con l’entrata in vigore del codice di procedura penale del 1989.

[3] Vedi https://www.cinematografo.it/cinedatabase/film/in-nome-della-legge/4413/

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