In un saggio di qualche decennio fa[1], lo storico tedesco Ernst Hartwig Kantorowicz narra che «Giuliano, prefetto dell’Egitto sotto Giustiniano I, dedicò una delle sue poesie a Tatiano, un alto funzionario dell’impero che aveva rifiutato l’incarico di governatore di alcune aree arretrate, offertogli dall’imperatore. Il poeta, volendo lodare tale rinuncia, scriveva che l’unico grande desiderio di Tatiano era gioire della sua sorte incrementandola in modo retto, giacché “la Giustizia, che con te condivide il trono (σύνθρονος οίδε Δίκη), sa che tu disprezzi servirti della ricchezza sottratta a coloro che governi”». L’Autore spiega che l’epigramma appartiene a quel genere di composizioni dedicate ai governatori della provincia romana, in cui viene celebrata l’equità del funzionario in carica.
1. L’idea della condivisione del trono con Dike nasce nella mitologia greca: Dike e Temi, figlie di Zeus, condividevano il trono con il padre degli dei e degli uomini. Con il tempo le due dee divennero le compagne naturali del trono dei re, quando i filosofi politici dell’età ellenistica iniziarono a concepire il sovrano come μιμητής del dio supremo.
Spiega ancora Kantorowicz che con il passare del tempo gli attributi dei re divennero una caratteristica propria anche dei governatori, soprattutto quando – con Diocleziano – questi divennero giudici, o meglio «qui iustitiam vestram (sc. imperatoris) iudices aemulantur».
Nel presentare questa nuova rubrica, incentrata sulla deontologia nelle professioni forensi, ci è sembrato appropriato il richiamo all’immagine kantorowicziana della Giustizia che siede in trono, perché esso raccoglie in sé l’idea che l’operatore del diritto possa veramente condividere il trono di Dike solo a condizione che ne ricerchi l’autentica realizzazione, improntando la propria condotta a un generale principio di rettitudine, che sono proprio i canoni deontologici a definire, con il fine di orientare in concreto l’azione del giurista nell’attività di tutti i giorni.
2. Pur con le necessarie distinzioni, l’idea della deontologia come guida e limite nell’esercizio della professione accomuna peraltro il magistrato all’avvocato, in quanto entrambi compartecipi di un processo nel quale l’uno non può fare a meno dell’altro; non è un caso se sul sito istituzionale del Consiglio Nazionale Forense, nel presentare il codice deontologico, si ribadisce che è anche tramite il rispetto delle norme di comportamento ivi contenute che «l’avvocato contribuisce all’attuazione dell’ordinamento giuridico per i fini della giustizia»[2].
Il richiamo alla deontologia è, d’altronde, anche il richiamo a quel professionista modello che immaginava Rosario Livatino: come ha ricordato l’allora Ministro della Giustizia, Andrea Orlando, Livatino intendeva «la professione di magistrato secondo il senso che la parola conserva ancora in tedesco: Beruf, che significa “professione”, ma è insieme anche “vocazione”. E’ la libera fiducia che nel compimento del proprio dovere sia coinvolta anche una più grande missione, alla quale votarsi con tenacia, passione e completa abnegazione»[3].
3. Muovendo da queste premesse non è azzardato allora sostenere che la locuzione Σύνθρονος δίκη ben sintetizza l’aspirazione che dovrebbe muovere tutti coloro che partecipano dell’amministrazione della giustizia, la tensione verso quell’equilibrio nel giudicare (o nel partecipare a una funzione che si conclude con un giudizio), che implica la consapevolezza di condividere il trono di Dike, riconoscendone le prerogative e interpretandone il verbo. La tensione verso la buona amministrazione della giustizia è la tensione verso una azione ordinata e non caotica, secondo un ordine che è dato agli operatori dalle norme di deontologia, e dunque un ordine laico e positivo, che per alcuni è anche vivificato dalla fede. E’, in fondo, lo stesso messaggio che – in chiave più specificamente cristiana – possiamo decriptare in quel sub tutela Dei, che resta la firma più autentica sugli scritti di Rosario Livatino[4].
Già nella primavera del 2021, durante la seconda fase della pandemia da covid19, il Centro Studi Livatino aveva trattato il tema deontologico con alcuni webinar destinati agli iscritti under 35, nel corso dei quali si era aperto un focus – seppur in termini generali – sul plesso di norme deontologiche che sovrintendono all’azione del magistrato e dell’avvocato nel contesto del processo penale, civile e nella specifica materia del diritto di famiglia.
4. La rubrica che inizia oggi intende riprendere le fila del discorso iniziato l’anno scorso, entrando ancor più nel dettaglio di aspetti e profili che meritano un approfondimento, senza peraltro trascurare un necessario inquadramento generale, a partire dalla collocazione delle norme di deontologia nel sistema delle fonti, con gli opportuni parallelismi e le dovute distinzioni tra magistratura e avvocatura, e da una analisi della struttura dei rispettivi giudizi disciplinari.
Con gli interventi che si susseguiranno tenteremo di esplicare principi, canoni ed enunciazioni attraverso l’esame della casistica, in modo tale da fornire agli operatori una bussola che sia per loro anche un ausilio teso a ben orientare il proprio impegno quotidiano.
Un lavoro che allo stesso tempo si preannuncia faticoso e stimolante. D’altro canto, come membri di questo Centro Studi «avendo davanti la figura del giudice Livatino, ci sentiamo impegnati perché Rosario costituisca l’esempio professionale e umano di un magistrato consapevole della grandezza e dei limiti della sua funzione»[5].
Angelo Salvi
[1] ΣΎΝΘΡΟΝΟΣ ΔΊΚΗΙ (la Giustizia che siede in trono), pubblicato per la prima volta in “American Journal of Archaeology”, LVII (1953, 65-70) e successivamente raccolto in E.H. Kantorowicz, I Misteri dello Stato, a cura di Gianluca Solla, 2005, Casa Editrice Marietti S.p.A., 153-163.
[2] V., in proposito: https://www.consiglionazionaleforense.it/web/cnf/deontologia.
[3] Intervento al convegno “25 anni dopo Rosario Livatino: diritto, etica, fede”, organizzato dal Centro Studi Livatino e tenutosi in data 18 settembre 2015 presso l’Aula dei Gruppo parlamentari della Camera dei deputati.
[4] D’altronde, dice ancora Kantorowicz, «il termine σύνθρονοσ, relativamente raro nella Grecia classica, appare molto più spesso nell’età ellenistica, in quella tardo romana e nell’epoca cristiana. La condivisione del trono degli dei con altri loro simili o semidei, sovrani, eroi o filosofi non era solo una prerogativa pagana, Cristo nelle sembianze di Uomo divenne σύνθρονοσ del Padre e lo Spirito Santo quello del Padre e del Figlio; Adamo era creato σύνθρονοσ di Dio; gli apostoli condividevano il trono del Redentore e si pensava che un giorno i redenti avrebbero anch’essi condiviso con Cristo il Trono dell’Eternità».
[5] A. Mantovano, Le riforme necessarie e possibili, in In vece del popolo italiano, a cura di A. Mantovano, Ed. Cantagalli, 2019, p. 93.