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Fra i generi letterari dell’antichità, la favola era il più “umile”, non preso tanto sul serio dai letterati e dagli uomini colti, che lo consideravano al più un intrattenimento. Ma è stato un genere che, a partire da Esopo, conobbe una diffusione vastissima: di esso restano testimonianze scritte relativamente recenti, probabilmente risalenti alla più tarda età ellenistica.

1. «La favola – spiegava Elio Teone, retore del I-II secolo d.C. – è una storia fittizia che rappresenta una verità»[1]. Questa definizione – la più nota e la migliore possibile, secondo Milmalm Perry (1902-1935), uno dei maggiori studiosi della tradizione esopica – suggerisce la difficoltà di inquadrare con precisione un genere che si colloca al confine con il proverbio, il mito, la fiaba, la novella e altri tipi di narrazione. La favola ha sempre oscillato tra la sua originaria dimensione retorica e una dignità letteraria raggiunta a fatica. Essa si presenta come un breve e semplice racconto, che ha l’obiettivo di affermare una morale, per lo più esplicita.

Le sue caratteristiche appaiono non rigorosamente definite, soggette a mutamenti nel corso della storia, sulla base del contesto nel quale, di volta in volta, è calata. I personaggi sono privi di una psicologia individuale e di una puntuale caratterizzazione, in quanto assumono quella tipica della categoria a cui appartengono, mentre l’ambientazione e la dimensione cronologica restano generiche e imprecisate. Anche la capacità di dilettare il pubblico rappresenta un elemento distintivo del genere esopico, al punto da essere concepito come un modo efficace per impartire insegnamenti filosofici piacevoli e divertenti: così si esprimerà, nel II secolo d.C., Aulo Gellio (2,29) a proposito di Esopo.

2. In Grecia la favola fu antichissima, anteriore a Esopo: ne troviamo esempi da parte di poeti vissuti nell’VIII secolo a.C., come quella dell’usignolo e dello sparviero, nella quale Esiodo esprime angoscia per una grave ingiustizia patita, nel contesto di un’opera in cui egli manifesta la convinzione che un giorno la giustizia prevarrà sulla violenza, e in poeti del VII secolo come Archiloco e Stesicoro.

Se Esopo dunque non fu l’inventore della favola, è certo però che egli la fece assurgere al rango di genere letterario, con notevoli apporti originali, e con la sistemazione di un preesistente materiale narrativo, così come aveva fatto, se è consentito parvis componere magna, Omero rielaborando e vivificando con arte mirabile una ricca produzione epico-lirica antecedente nei suoi grandiosi poemi dell’Iliade e dell’Odissea. A Esopo dunque, considerato il padre di tale genere letterario, è attribuita una raccolta di oltre quattrocento favole, che comprende materiale eterogeneo e che, essendo scritta nella cosiddetta koiné, la lingua comune a fondo attico parlata dalle popolazioni ellenizzate dopo le conquiste di Alessandro Magno, non è quella originaria.

Si ritiene peraltro che Esopo non abbia neppure scritto, ma affidato alla trasmissione orale, le sue favole; da ciò l’impossibilità di conoscere direttamente gli archetipi delle favole esopiche e il loro valore letterario. Dalla tradizione successiva si ricava, comunque, che tali favole, nelle quali agivano prevalentemente gli animali, ma talora anche gli uomini e, in misura minore, le divinità e le piante, avevano come caratteristiche la brevità, l’arguzia e l’utilità morale; la lingua era semplice, lo stile umile.

3. Esopo, oltre che padre della favolistica, ne è personaggio e spesso narratore interno. Al di là, infatti, della ricostruzione biografica[2], si registra la sua presenza già nella letteratura greca del V secolo. Aristofane fa riferimento a spunti favolistici e li riconduce esplicitamente a Esopo: si è supposta anche l’esistenza di un libro dedicato alle sue favole, sulla base di un passo degli Uccelli (vv. 471 ss.). Esopo entra in scena anche come protagonista di aneddoti, per es. la battuta rivolta a una cagna ubriaca (Vespe 1401 ss.). In Platone (Fedone 60c,61b), Socrate, mentre si trova in carcere, riflette sul rapporto tra dolore e piacere, sottolineando che Esopo ne avrebbe potuto trarre una favola. Anche Aristotele descrive Esopo impegnato a narrare una favola (la volpe e il riccio) ai cittadini di Samo (Retorica 1393b-1394a).

Questo personaggio rimane, anche nei secoli successivi, una figura presente nella letteratura extrafavolistica e spesso viene accostato ai Sette Savi, come in Plutarco, che comunque lo rappresenta in una condizione di inferiorità rispetto a essi, seduto su un modesto sgabello; lo stesso Plutarco inserisce Esopo come narratore di favole in varie opere dei Moralia.

4. Tanto il mondo delle fiabe e delle narrazioni fantastiche in genere, quanto quello del diritto, una volta che quest’ultimo sia vissuto e interpretato oltre le frustranti pastoie di un’ermeneutica esclusivamente legata al binomio norma => sanzione, hanno alla base una comune idea dei rapporti umani. Esattamente come la dimensione fiabica, anche quella giuridica in senso ampio, per il sostrato educativo e morale che indubbiamente connota entrambe, si basa sul riconoscimento del proprio prossimo.

Le raccolte di Esopo e di Fedro sono state letteralmente sviscerate, favola per favola, individuandovi filoni interi di diritto privato, di diritto commerciale, di aziendalistica, addirittura interpretando alcune storiche sentenze delle più prestigiose corti americane alla luce degli insegnamenti in esse contenuti. Gli animali antropomorfi delle novelle, insomma, sono stati sovente visti come abili organizzatori di cose di legge, o comunque come soggetti dalle cui condotte trarre spunto, nel bene e nel male, per interpretare al meglio normative ed istituti comuni della tradizione giuridica diffusa. È sicuro che i favolisti del passato classico avessero ben presente come la loro letteratura gnomico-pedagogica si prestasse a fruttuose incursioni nel campo del diritto, alcune memorabilmente passate alla storia.

È il caso della così detta società leonina[3], divenuta espressione denotativa di una ben precisa situazione di diritto commerciale che, conosciuta anche in diritto romano, deve tuttavia la propria denominazione a un’intuizione favolistica di cui vi è traccia in Esopo, esternazione in Fedro, e cenni anche nel loro epigono francese seicentesco Jean de La Fontaine (1621-1695).

5. Da Esopo, Il regno del leone.

Un leone non collerico, né malvagio, né violento, ma mite e giusto come un uomo, divenne re. Sotto il suo regno si tenne un’assemblea di tutti gli animali, perché dessero e ricevessero giustizia reciprocamente: il lupo con la pecora, la pantera con la capra selvatica, la tigre con il cervo, il cane con la lepre. La timida lepre allora disse: «Io mi sono vivamente augurata di vedere questo giorno, in cui i deboli potessero apparire temibili per i potenti”[4].

Con la favola Esopo profila un nuovo mondo, un orizzonte diverso: una nuova fisionomia di uomo si va faticosamente delineando attraverso l’elaborazione dell’idea del giusto che implica il non giusto: il bene si va configurando in opposizione al male, l’innocenza in opposizione alla colpa e la vita dell’uomo diventa luogo di scontro tra bene e male in cui si attua si identifica la scelta tormentosa ma inevitabile fra ciò che corrisponde a giustizia (modo di uomini) e ciò che è violenza e sopruso (modo di animali e di fiere).

Trascendente e allo stesso tempo reale, la giustizia viene radicata nell’uomo stesso, e precisamente nella sua capacità di sentire, fondamento in cui riposa lo stesso concetto di attenzione come architrave del discorso etico e di quello gnoseologico. D’altra parte, se una definizione di giustizia è possibile, essa è ricavabile in senso negativo: essa è il contrario della forza, e trova pertanto il suo fondamento nella nozione di ‘limite’. La giustizia della città è generata dalla giustizia dei cittadini, come aveva simbolicamente espresso la cultura greca facendo nascere Dike, la dea della giustizia della polis, dalla madre Themis, la dea di quella Giustizia che viene prima di ogni sistema giuridico storico e concreto, e che rende giusto chi la segue.

Nessuna invocazione della giustizia è giusta se proviene da cittadini ingiusti che usano la giustizia-Dike contro la Giustizia-Themis, magari per opprimere i poveri e i giusti, e sempre a loro vantaggio. Se infatti mancano cittadini amanti e praticanti della virtù della giustizia, le leggi che essi produrranno non potranno che essere ingiuste, e tanto più ingiuste quanto più democratica è la forma di governo. E anche se la giustizia-Dike è chiamata a dare contenuto e limite al ‘proprio’ di ciascuno, è ancor più vero che l’indeterminatezza della virtù della giustizia è espressione del suo essere un rapporto tra persone.

6. L’antica Grecia, diversamente da Roma, non concepì il diritto come una funzione sociale autonoma, pienamente distinta dalla politica, dall’etica e dalla religione; né conobbe un ceto di giuristi in grado di elaborarne scientificamente una compiuta e distinta teoria. La disciplina dell’assetto pubblico e della repressione penale, come pure dei rapporti che noi diremmo privati, non era affidata a specialisti, ma si identificava col comando proveniente da chi avesse il potere (kratos) sulla comunità cittadina (polis). Sostanzialmente, fuori dello spazio domestico (oikos) non si dava dimensione comune (koinós) che non fosse politica. Mancava quindi la stessa percezione di una sfera del sociale, per la cui regolamentazione fosse pensabile uscire dall’area del politikón. E la presenza di una cerchia di tecnici che possedessero, essi soli, le chiavi di accesso a quella disciplina, doveva apparire un’intollerabile menomazione: un’espropriazione di quanto, per eccellenza, era comune e doveva dunque rimanere saldamente “in mezzo” alla cittadinanza.

La favola diventa funzionale a tale esigenza. Volpi astute, scimmie sciocche, lupi spietati, piante vanitose, pastori beffati: il variegato universo della favola è popolato di personaggi umili, e i suoi protagonisti, animali, piante o esseri umani che siano, mettono in scena i motivi del conflitto e dei rapporti di forza, della rinuncia e dell’immutabilità del destino individuale, in un’esortazione continua al pragmatismo e alla scoperta della verità nascosta sotto le apparenze. La fiaba, esattamente come la narrazione giuridica, non è soltanto un’organizzazione di contenuti, bensì il modo in cui ciascun individuo è capace di porsi come protagonista della propria vita e della propria storia, anche a costo di rilevarne il carattere rivoluzionario rispetto alle convenzioni narrative del tempo, dello spazio, della comune logica degli accadimenti.

Il ricorso ad una comunicativa semplice e lineare, adeguata alla vitalità dei rapporti umani e scevra di sterili formalismi, può costituire il rimedio utile a riavvicinare il mondo del diritto al pubblico dei suoi destinatari e far così capire che la norma sia sentita coma propria dai componenti di una comunità.

Daniele Onori


[1] Esercizi preparatori 1, p. 57 Spengel II [=1, p. 1 Patillon]; 3, p. 72 Spengel II [=4, p. 30 Patillon]; esistono comunque differenti interpretazioni: invece di «verità», alcuni traducono «realtà». Cf. Van Dijk 1997, 48 n. 59.

[2] La figura di Esopo tende a sfumare nella leggenda. Anche se alcuni riscontri sembrano attestarne la realtà storica, nel tempo gli sono state attribuite vicende e caratteristiche infondate o addirittura inverosimili, che lo hanno sostanzialmente reso un simbolo non più esattamente collegabile con il favolista di cui ci parlano le fonti più antiche. In analogia e in contrapposizione a Omero, emblema della poesia epica, Giambattista Vico interpretava la sua figura come il simbolo della saggezza plebea: non «un particolar uomo in natura, ma un genere fantastico». La testimonianza più antica è quella dello storico Erodoto (2,134), che lo indica come compagno di schiavitù di Rodopi, amante del fratello di Saffo: entrambi appartenevano a tale Idmone e vissero nel VI secolo a Samo. Aristotele, nella Costituzione dei Sami (fr. 573 Rose), aggiunge che Esopo in precedenza era stato schiavo di Xanto, un altro cittadino di Samo. Alcune fonti (tra queste, Euagon, storico di Samo del V secolo, Aristotele, Eraclide Pontico) ne suggeriscono un’origine tracia, altre ne indicano un’origine frigia (fra questi, Fedro, Dione Crisostomo, Luciano, Aulo Gellio), ma non mancano ulteriori ipotesi (l’origine lidia è suggerita da Callimaco). Anche la morte è avvolta nel mistero: sarebbe avvenuta a Delfi, dove Esopo sarebbe stato precipitato dalla rupe Iampea. Ancora Erodoto spiega che i Delfi, in conseguenza di un oracolo, avevano invitato a presentarsi nella loro città chi volesse riscuotere l’ammenda pecuniaria per l’uccisione di Esopo: si presentò Idmone, figlio dell’omonimo padrone del favolista. Da alcune fonti (la cronaca di Eusebio e il Chronicon Romanum) si tende a individuare nel 564/663 la data dell’uccisione. Non è chiaro il motivo: forse si sarebbe rifiutato di consegnare ai cittadini di Delfi l’oro affidatogli da Creso, considerandoli parassiti che vivevano alle spalle del dio Apollo; e, quindi, sarebbe stato falsamente accusato di furto sacrilego. Da questo episodio, sarebbe scaturita l’ira del dio nei confronti dei cittadini, che avevano ucciso un innocente (Aristotele, fr. 487 Rose). Successivamente, fu realizzato, ai piedi della rupe dove fu ucciso Esopo, un piccolo memoriale con un altare, dove gli veniva tributato omaggio. Ma perché Esopo andò a Delfi? Confrontando alcune fonti, si può ipotizzare questa ricostruzione: Esopo riesce a liberare Samo dalle minacce del re Creso grazie alla sua sapienza; affrancato, lascia Samo e va a Sardi dal sovrano lidio, che lo invia in missione a Delfi. Non manca nemmeno una sosta alla corte di Periandro, tiranno di Corinto, che intrattiene stretti rapporti con i sacerdoti di Delfi. Dopo la morte, Esopo diventa un personaggio autorevole, dai contorni leggendari; forse le sue favole sono messe per iscritto da subito, tanto che, come ricaviamo da Aristofane e da Platone, pare citato e apprezzato ad Atene. Si è molto discusso anche circa l’esistenza di un Volksbuch, che sarebbe circolato ad Atene nel V secolo a.C., con il personaggio Esopo nella duplice veste di protagonista di peripezie e di narratore di favole.

[3] Recependosi l’insegnamento favolistico, in diritto, già a partire dalla elaborazione romanistica si è sempre usata, per tratteggiare una situazione societaria ove uno o più soci siano aprioristicamente esclusi dai guadagni o dalle perdite, la locuzione di societas leonina.

[4] Il testo delle Favole di Esopo (Fabulae Aesopicae) è conservato in diverse raccolte in prosa, contenute in vari codici, tra le quali la più ampia, scritta con semplicità di moduli linguistici e narrativi è la Collectio Augustana (dalla città di Augusta in Germania, dove si trovava il codice del XIII-XIV secolo che la conteneva, ma nella quale è confluito anche il più antico manoscritto (Cryptoferratensis 397 del X secolo). Tale collectio, che è la più antica, risalirebbe ai primi secoli dell’era volgare. Ricordiamo anche la Collectio Vindoboriensis (Vienna, Vindobona), più recente, dal VI secolo in poi, che comprende un minor numero di favole, scritte peraltro in forma più prolissa e la Collectio Accursiana che risale ai secoli successivi (VIII-IX) e presenta maggiore concisione stilistica e movenze narrative meno farraginose della precedente. Dopo l’edizione di C. Halm, sono state realizzate in questo secolo due buone edizioni critiche di Esopo, la prima ad opera di E. Chambiy (Paris, Les Belles Lettres, 1927), l’altra a cura di A. Hausrath (Biblioteca Teubneriana, I, 1957, Lipsia; II, 1959, Lipsia, con revisione di H. Hunger)

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