Il film racconta due storie parallele. Judah, interpretato da Martin Landau, è un noto oculista di New York: da anni tradisce la moglie che lo adora con un’altra donna, l’hostess Dolores, che minaccia di rivelare la loro storia, mettendo a rischio la stabilità della sua tranquilla vita familiare. Cliff Stern, interpretato dallo stesso Woody Allen è un documentarista che colleziona insuccessi professionali e sentimentali: per finanziarsi e ultimare il documentario sul filosofo Louis Levy, dirige un film sul miliardario fratello della moglie, Lester (Alan Alda). In questa occasione conosce Halley (Mia Farrow), di cui si innamora perdutamente. È un film che sviluppa con intelligenza temi di importanza universale: il bene e il male; la responsabilità di davanti alle proprie colpe; il castigo; la presenza di Dio che tutto vede; la coscienza, che rappresenta la voce di Dio; la necessità dell’amore; la solitudine. Ma insieme con essi è sparsa ironia sul mondo dello spettacolo: il successo arride a coloro che pensano solo a far soldi con lavori commerciali, non a quei registi con aspirazioni intellettuali, ma senza incassi. Dal film emerge che senza una Presenza superiore nulla ha senso, perciò, se è vero che non sempre i colpevoli vengono scoperti e puniti dalla giustizia umana, nessuno potrà sfuggire a quella divina.
1. Le storie parallele del film si svolgono nell’ambiente intellettuale ebraico di New York. Judah Rosenthal, allontanatosi dalla religione, nonostante gli insegnamenti ricevuti nell’adolescenza dal padre rabbino, è un maturo e ricco oculista, con una bella famiglia e una brillante carriera, però è assillato dalla nevrotica amante Dolores Paley, che non accetta di troncare il loro legame, ma pretende invece di vederlo consolidato, e perciò desidera incontrare Miriam, la moglie del partner.
Ma Judah sa che Miriam non gli perdonerebbe mai l’adulterio, e perciò si difende con sotterfugi e bugie. Quando Dolores minaccia anche di rivelare alcune operazioni economiche irregolari, compiute da lui tempo addietro, egli si vede perduto, e accetta la proposta del fratello Jack, legato alla malavita, che gli offre di far eliminare Dolores da un killer, senza correre rischi. La donna viene uccisa, e l’assassinio attribuito a un rapinatore pluriomicida: Judah può godersi di nuovo famiglia e successo, e sembra dimenticare il delitto, ma la coscienza glielo ricorda, insieme con le parole del padre sulla impossibilità di sottrarsi allo sguardo onnipotente di Dio.
2. Cliff Stern, timido intellettuale e modesto regista di documentari, al presente senza lavoro, avvilito anche a causa del matrimonio fallito, prova un senso d’inferiorità verso il cognato Lester, un produttore arricchitosi con lavori commerciali.
Mentre Cliff porta stentatamente avanti un film per lui importante su un grande psicologo e pensatore, l’anziano professor Louis Levy, del quale ammira le lezioni di vita, Lester lo incarica di girare un documentario che lo presenti al pubblico in modo lusinghiero. Sul set Cliff conosce Halley Reed, una giovane produttrice appena divorziata, della quale si innamora profondamente, ma dopo molte speranze costei si fidanza con l’odioso cognato. Quando poi Levy si suicida, perché solo e privo di amori, Cliff è preso da sconforto. Egli e Judah si conoscono alle nozze della figlia del saggio rabbino Ben, ormai quasi cieco. In preda a cupi pensieri, i due si mettono a parlare insieme, e Judah racconta all’altro la storia del proprio delitto, come se fosse immaginaria. Dopo varie considerazioni, Cliff resta solo, più triste e pensieroso di prima.
3. Il dilemma morale di Judah, se cioè una persona possa continuare a vivere come nulla fosse con la consapevolezza di aver compiuto un omicidio, rimanda all’idea principale di Delitto e castigo di Fëdor Dostoevskij (1866), sebbene proponga una soluzione finale opposta a quella del romanzo. In questo dramma Allen si interroga sul rapporto tra dimensione religiosa, esperienza morale e universo giuridico.
Alla fine la narrazione sottolinea quanto spesso gli esseri umani siano fragili, attratti dal successo e dominati dalla vanità, pronti a perdonarsi anche dopo i peggiori crimini. Persino una tra le azioni più terribili – uccidere una persona, per di più la donna che si è amata – finisce per essere oggetto di una autogiustifìcazione che produce una sorta di autoassoluzione, perché siamo portati a leggere ogni nostro gesto come influenzato, se non addirittura determinato, da una complessa rete di situazioni e circostanze.
La visione di Allen è pessimista, e somiglia molto a quella della ebrea sindacalista che compare durante la cena visionaria alla quale assiste Judah nei suoi vaneggiamenti afflittivi. La donna – di contro al rabbino, padre di Judah – sostiene che se si commette un omicidio, non si viene scoperti e si riesce a superare il senso di colpa, la si fa franca e si può continuare una vita senza conseguenze. Una visione amorale, cioè priva di moralità, che scaturirebbe solo dal timor divino e non da una genetica, intrinseca propensione naturale dell’uomo.
4. Siamo esseri imperfetti e, come dice l’altro rabbino, amico e paziente di Judah, senza un’idea di Dio mancherebbe la bussola per orientarsi durante la nostra esistenza. In sostanza, chi può dire cosa sia bene e che cosa sia male senza una guida trascendente a indicarci la via? Per Judah queste riflessioni occupano uno spazio contingente: una volta trascorso un tempo sufficiente, tutto viene spazzato via e la quotidianità riprende il suo splendore spensierato. Per il ‘lieto’ fine – il colpevole che confessa, schiacciato dai sensi di colpa – ci vuole un film hollywoodiano, come afferma beffardamente Landau a un titubante Allen, quando sul finire del film i due si incontrano in un fugace ma significativo dialogo.
Il documentarista accetta ogni tipo di compromesso, lotta meschinamente nelle retrovie per strappare qualche soddisfazione, sia in ambito amoroso che professionale, ma finisce con un pugno di mosche, uno sconfitto su tutta la, un relitto umano che fa molta simpatia ma non ha alcuna possibilità di felicità, quasi un predestinato al naufragio, esattamente come – in modo opposto e contrario – Judah nonostante tutto risulta un predestinato al successo.
Ma cosa succederebbe in un mondo in cui il colpevole non avesse invece remore religiose e morali? La risposta è condensata in una battuta di Mark Twain in Seguendo l’Equatore (1897): «Il senso morale ci insegna a percepire la moralità e a evitarla, il senso immorale a percepire l’immoralità e a godercela». Detto altrimenti, la moralità non evita il male, che tutti commettono, ma l’immoralità evita il rimorso, che non tutti provano.
5. Crimini e misfatti ripropone dunque il sillogismo che «in un mondo senza Dio tutto è permesso», ma non lo considera affatto una dimostrazione per assurdo della validità dell’etica religiosa. Al contrario, lo propone come un’espressione della modernità, nella discussione a pranzo tra il padre ortodosso e la zia atea dell’assassino.
Il padre sostiene che, poiché Dio punisce i cattivi, chi commette un crimine prima o poi pagherà. La zia ribatte che se invece la fa franca, e non si lascia prendere dai rimorsi, allora è completamente libero: la morale c’è solo per chi la vuole. Ma il padre conclude che chi crede vive comunque una vita migliore di chi dubita, anche nell’ipotesi che la fede sia sbagliata.
Dice ancora qualcosa la morte di Dio agli uomini di oggi? Secondo Allen, poco o nulla. L’annuncio che “Dio è morto” è destinato a cadere nel vuoto. Magari tutti ripetono la frase a proposito di questo o di quello (secolarizzazione, scristianizzazione, pensiero unico, e così via). Ma come se fosse un’ovvietà, una cosa scontata, di cui prendere atto per poi archiviarla senza farsi troppi problemi. Un po’ come dire: siamo moderni, emancipati, la fede in Dio appartiene al passato.
6. Che la morte di Dio appaia come un evento ormai alle nostre spalle e che ci lascia sostanzialmente indifferenti non è ateismo. È nichilismo. L’ateismo a suo modo tiene ferma l’idea di Dio. Non fosse che per distruggere e negare quest’idea, liquidando al tempo stesso ogni forma di trascendenza: sia la trascendenza della legge morale, sia la trascendenza del senso ultimo della vita. Ma anche più importante di quel che il nichilismo dice, è quel che il nichilismo non dice.
Per realizzare il suo progetto di riconciliazione con la mortalità e la finitezza, il nichilismo deve tacere su un punto decisivo: lo scandalo del male. Precisamente lo scandalo che l’ateismo aveva fatto valere contro Dio, in questo dimostrandosi consapevole del fatto che il male sta e cade con Dio. È di fronte a Dio che il male appare scandaloso. Cancellato del tutto Dio, persino come idea, il male continua a far male, ma rientra nell’ordine naturale delle cose. Ed ecco la parola d’ordine del nichilismo: tranquilli, non è il caso di far tragedie.
Daniele Onori