fbpx

Se il diritto ha ragione di essere in quanto comunichi e promuova valori condivisi o largamente condivisibili, le fiabe di Fedro sono dense ricca di contenuto etico, la cui ripetibilità nel tempo e nello spazio diventa regola giuridica. La narrazione immaginifica fedriana può contenere più sostanza di giustizia di quanta pandette, codici e rituali procedurali non siano capaci di esprimere.

1. Il mondo degli animali è sempre stato adoperato per raffigurare quello degli uomini: la tradizione delle favole aventi come protagonisti gli animali è l’indicatore più diretto di questa tendenza. La più antica favola attestata a Roma risale al 495 a.C. ed è ricordata, secoli dopo, da storico Tito Livio (2,32,8-12): è l’apologo che narra, «nel primitivo e rozzo modo di parlare di quel tempo», la ribellione delle membra contro lo stomaco. Con questo apologo Menenio Agrippa risultò tanto persuasivo che risolse la secessione della plebe, ritiratasi sul Monte Sacro. La narrazione ha origine egizia, e, sia pure con qualche variazione, ha fortuna anche nella tradizione esopica. Dionigi di Alicarnasso, nelle Antichità romane (6,48-49), sottolinea proprio che fu raccontata da Menenio Agrippa «alla maniera di Esopo».

Al di là di questo episodio, la favola a Roma trova spazio in due generi letterari: la commedia e la satira. I riferimenti sono spesso brevi, in forma di proverbio, e dimostrano una conoscenza diffusa del patrimonio esopico in tutti gli strati sociali. In Plauto si segnala la favola del bue e dell’asino (Aulularia 226 ss.), sintetizzabile nel proverbio «Passare dagli asini ai buoi», ossia da una classe sociale umile a una elevata, con tutti i rischi del caso. Al di là di alcune allusioni alla sfera mitologica (come in Rudens 13 ss.: il motivo proverbiale, e quindi anche favolistico di Giove giudice), i riferimenti più ricorrenti sono quelli che riguardano il lupo: tende insidie al gregge custodito dal cane (Trinummus 169 ss.), viene lasciato paradossalmente a custodia delle pecore (Pseudolus 139 ss.), viene rapinato (lui, predone per eccellenza) dal leone (Poenulus 776). Queste immagini servono per lo più a descrivere il comportamento dei personaggi della commedia, al punto che «Lupo» diventa un nome parlante di un personaggio (il lenone Lycus nel Poenulus).

2. La vera svolta per la favola latina si ha con Fedro[1]: sua è la prima raccolta favolistica in versi (senari giambici) del mondo classico. Le favole con struttura giudiziaria che si prendono in considerazione sono otto, di cui quattro con personaggi animali e quattro con personaggi umani[2]. Le quattro favole con animali sono: Lupus et vulpis iudice simio (I 10), Ovis, cervus et lupus (I 16), Ovis, canis et lupus (I 17), Apes et fuci vespa iudice (III 13). .

La favola de Il lupo e la volpe con la scimmia giudice è incentrata su una questione di proprietà e la struttura processuale è fedelmente seguita. Ci sono due contendenti; il lupo accusa la volpe di furto, e quest’ultima afferma di non saperne nulla (Lupus arguebat vulpem furti crimine, negabat illa se esse culpae proximam); la questione finisce davanti ad un giudice – la scimmia – e, dopo le arringhe dei due (uterque causam cum perorassent suam), la scimmia pronuncia la sua sententia.

Si tratta di quello che, nel diritto romano, viene definito furtum nec manifestum, che «prevede la citazione in ius del presunto ladro e l’inizio di un processo dichiarativo per ottenerne la condanna». Sennonché la sentenza del giudice-scimmia è una non-sentenza: «Non penso che tu abbia effettivamente perduto quello che pretendi – recita infatti rivolta al lupo –; credo però che tu – rivolta alla volpe – abbia rubato ciò che bellamente neghi di aver rubato».

La morale, collocata nel promizio, è che «quando qualcuno è diventato famoso per un turpe imbroglio, non è creduto anche se dice il vero»; e «questo è ciò che attesta una breve favola di Esopo».

2. La favola de La pecora, il cervo e il lupo fa riferimento alla questione legale della sponsio, la più antica forma del contratto, che «nel diritto pubblico veniva usata per concludere paci ed alleanze, nel diritto familiare per promettere una figlia in matrimonio»; a garantire la sponsio c’erano dei «mallevadori, gli sponsores, quelli che nel corpus giustinianeo saranno i fideiussores». Nella favola, «con singolare precisione», «si trovano riferimenti allo sponsum, all’affidabilità degli sponsores, alla scadenza del contratto (cum dies advenerit), evidentemente impiegati in stretto senso tecnico»[3].

Abbiamo il cervo che chiede alla pecora un moggio di grano, portando con sé il lupo quale garante (sponsor); temendo un inganno, la pecora, rivolgendosi prima al lupo e poi al cervo, dice: «Il lupo è da sempre abituato a rubare e scappare; tu con un balzo veloce sparisci dalla vista. E io dove vi trovo quando verrà il giorno stabilito?» . Recita il promizio: «Quando un truffatore (fraudator) convoca per garanzia (ad sponsum) dei disonesti (improbos), non aspira a concludere un affare ma a tramare un danno»

Ancora un esempio di processo falsato ci è offerto dalla favola de La pecora, il cane e il lupo, dove incontriamo un cane calumniator, che reclama da una pecora il pane che pretende di averle lasciato in deposito (commendasse); come testis viene citato un lupo, il quale dichiara che la pecora è debitrice non di uno ma di dieci pani. Alla fine la pecora, a causa di questa falsa testimonianza (falso testimonio), è condannata a pagare. Fin qui il processo. Sennonché questa favola si caratterizza per una peculiarità: è forse l’unica in cui, pur se “fuori scena”, la menzogna viene punita. «Pochi giorni dopo – si legge infatti – la pecora vede il lupo accucciato in una trappola, e gli dice: ‘Questa è la ricompensa degli dei per la tua menzogna’». La morale, presente nel promizio, è che «Solitamente i mentitori pagano la loro colpa».

L’ultima favola racconta di un processo per una questione di proprietà: protagonisti sono infatti le api e i fuchi che rivendicano entrambi la proprietà dei favi; visto che il dubbio gli appare legittimo, la vespa-giudice propone ai contendenti una prova, che dimostri chi sia l’autentico proprietario, e invita entrambi a costruire dei favi in sua presenza; le api accettano, i fuchi no: e proprio dal loro rifiuto scaturisce la sentenza a favore delle api. «Questa favola – conclude l’autore – io l’avrei taciuta, se i fuchi avessero osservato i patti».

3. A proposito delle quattro favole con personaggi umani, la prima, Poeta de credere et non credere (III 10), narra di un processo per un fatto di sangue; nella seconda, Poeta (IV 5), abbiamo un testamento enigmatico, dalle disposizioni apparentemente contraddittorie; nella terza, Scurra et rusticus (V 5), assistiamo a un pubblico processo, con giudizio finale sui giudici che mal giudicano; la quarta, infine, Pompeius magnus et eius miles (App. 8), è basata sull’errore di giudizio che scaturisce quando si bada troppo all’apparenza.

Non si può, in altre parole, non riconoscere una dimensione giuridica alla base della forma folklorica o letteraria della tradizione fiabistica che, come il diritto, conosce anch’essa le sue leggi fondamentali, il suo nomos, i suoi canoni e le sue procedure, tutti esternativi di quella dimensione comunicativa e simbolico-figurativa che per più versi accomuna i due distinti ambiti. Una fiaba, assai spesso, si snoda attraverso gli stessi paradigmi esplicativi di una comune narrazione giudiziaria di una qualsiasi aula di tribunale.

Daniele Onori


[1] La fonte per ricostruire la vita di questo poeta è quasi esclusivamente la sua stessa opera. Si ipotizza che sia nato in Tracia (qualcuno, interpretando letteralmente il prologo al III libro, suggerisce invece la Macedonia come terra d’origine) intorno al 20 a.C. e che, dopo una rivolta repressa da Lucio Calpurnio Pisone Frugi, sia stato portato a Roma come prigioniero. Ricevette una buona educazione: come si rileva nell’epilogo del III libro (vv. 33 ss.), da ragazzo studiò Ennio. Inserito fra gli schiavi al servizio di Augusto, ottenne la libertà, probabilmente per meriti culturali. La condizione di liberto non gli garantì una vita tranquilla, tanto che subì, al tempo di Tiberio, un processo con un’accusa infamante, forse relativa a un reato comune, che Fedro non rivela nella sua opera, mentre si lamenta dei metodi iniqui usati in questa circostanza da Seiano, onnipotente ministro di Tiberio, che si era probabilmente ritenuto bersaglio di favole irridenti del I e del II libro. Questa calamitas finisce per condizionare negativamente l’esistenza di Fedro. Dopo che nel 31 d.C. Seiano fu giustiziato, il poeta compose il III libro delle sue favole. Cercò a lungo un protettore, soprattutto tra quei liberti che avevano assunto una posizione di potere: Eutico, il dedicatario del III libro; Particolone, uomo di cultura a cui viene rivolto il IV libro; Fileto, forse, considerato il tono più confidenziale, non un protettore ma un amico, identificabile, secondo alcuni studiosi, con un omonimo liberto di Claudio. Emerge così il profilo di un poeta emarginato, il quale, invecchiando, sembra cercare un riconoscimento che tarda ad arrivare e oltretutto si trova spesso a fare i conti con la malignità di alcuni detrattori. Ci sono diverse ipotesi circa la data della sua morte, ma non è dimostrato che egli sia vissuto fino al periodo di Nerone o addirittura di Vespasiano.

[2] G. Moretti, Lessico giuridico e modello giudiziario nella favola Fedriana, Maia 1982

[3] Ibid. 228

Share