Il processo a Socrate ha segnato la storia del pensiero occidentale, causando divisioni difficili da ricostituire. Nel 399 a.C. egli fu accusato di non riconoscere gli dei di Atene e di corrompere i giovani: l’Apologia di Platone espone l’autodifesa del Maestro, che aveva rifiutato di accettare che altri ne assumesse il patrocinio nel processo. Pur potendo salvarsi dalla condanna richiesta (la pena di morte) dichiarandosi colpevole, rimase coerente fino alla fine. Esempio fra i più luminosi di quello che è e può essere la filosofia, il suo sacrificio fa chiedere quale sia il valore di un sapere che non riesce a farsi comprendere dagli altri. In questa prospettiva la vicenda del processo – e non solo del processo, perché tutta la vita del filosofo Socrate fu oggetto di quel giudizio – è la storia di un doppio fallimento: il fallimento di una democrazia intorpidita, e forse anche il fallimento del filosofo, incapace di trovare parole adeguate per articolare le sue ragioni.
1. Non c’è epoca della storia che non abbia messo a morte un grande uomo: un profeta, uno scienziato, un pensatore. Il più famoso dei filosofi, il leggendario Socrate, fu condannato a bere un potente veleno, la cicuta, in seguito all’accusa di corrompere i giovani e di non credere negli dèi. Il misfatto avvenne nel 399 a.C., e Platone lo ricorda in un dialogo ricco di pathos, il Fedone. In esso mette in scena un Socrate indifferente di fronte alla morte, che non desidera banchettare o, com’era usanza dell’epoca, godersi i piaceri dell’amore per l’ultima volta, ma vuole discutere sul destino dell’anima. Quel dialogo è stato più volte messo in scena, e di recente il compianto Carlo Rivolta ne ha offerto una interpretazione superba, difficilmente comparabile.
Preso congedo dai familiari e dai discepoli più fedeli, Socrate ingurgita poi d’un fiato la pozione letale, seguendo le istruzioni prescritte da chi gliel’ha portata. Appare S più tranquillo dei suoi accompagnatori, descritti da Platone in preda al pianto. Prima di esalare l’ultimo respiro, si ricorda persino d’aver promesso il sacrificio di un gallo al dio Asclepio. Dunque, secondo la testimonianza platonica, Socrate, condannato dal l’assemblea di Atene, bevve la cicuta e in pochi minuti fu ucciso dall’erba velenosa. Platone non tralascia di avvertire che Socrate avrebbe avuto la possibilità di salvarsi evadendo dal carcere. Ma non si va contro la legge se si crede nella legge. Gloria a Socrate, vergogna per la democrazia di Atene.
2. Quando Socrate si accinge a difendersi davanti al tribunale dell’Eliea – i giudici per comune consenso sono 501 – hanno già parlato Meleto, Licone, Anito, che, con la loro deposizione hanno sconcertato Socrate stesso. Egli comunque non dirà che la verità, senza fronzoli o abbellimenti, contro le due specie di accusatori, quelli più antichi, temibilissimi, perché anonimi e perché da tempo hanno sparso veleno sul suo conto, e quelli più recenti.
Trattando delle accuse a lui mosse, quale quella di empietà, perché si occupa di studi naturali tendenti a scardinare ogni principio costituito e ogni credenza negli dei della città, Socrate ha buon gioco a negare, anche se così, molti anni prima, lo aveva dipinto il poeta comico Aristofane. Su questo punto non ci sono prove contro di lui, né taluno può affermare che egli impartisca ammaestramenti alla gioventù per trarne guadagno: questa Arte è dei sofisti, che a lui non appare indegna anche se non la conosce. Voci e dicerie contro di lui erano sorte da quando l’oracolo di Delfi aveva confermato a un certo Cherefonte che Socrate era il più sapiente tra tutti gli uomini.
Socrate, tuttavia, non accetta passivamente il responso, non comprendendo perché debba considerarsi il più sapiente di tutti e sottopone al vaglio e alla prova il detto del dio. Interroga uomini politici, poeti e artisti alla ricerca di qualcuno o di tanti più sapienti di lui.
Eppure questi uomini, tolti dalla loro angolatura particolare, per la quale nutrono tanta superbia, si rivelano ignoranti e presuntuosi, meno sapienti di Socrate, dunque, che sa di non sapere. Ma questa ricerca ha procurato a Socrate odi tenaci, tanto più che alcuni giovani da lui hanno acquisito l’abitudine di smentire i falsi sapienti che, punti sul vivo, hanno cominciato ad accusare Socrate di corrompere la gioventù.
3. Quanto alle accuse più recenti, quali la corruzione della gioventù e l’introduzione di nuove divinità, Socrate incalza con fitte interrogazioni Meleto, che gliele aveva mosse, e lo conduce al punto di affermare che solo lui corrompe i giovani, mentre poco prima aveva ammesso che sono pochi quelli che guidano al bene e molti invece (i più) quelli che conducono al male. Ben scarsa dunque la competenza di Meleto in fatto di educazione: né Socrate può aver corrotto i giovani a bella posta, sapendo bene il male che gliene potrebbe venire.
Meleto dunque avrebbe dovuto consigliare e ammonire Socrate in privato, non denunciarlo, tanto più che i giovani non da Socrate apprendono l’ateismo o a non credere nelle divinità del Sole e della Luna, perché di tali affermazioni sono pieni i libri di Anassagora. Meleto poi si contraddice ancora sull’ateismo di Socrate che, credendo a demoni e a cose demoniache, non può non credere all’esistenza degli dèi. La rovina di Socrate comunque non può venire da Meleto, né da Anito: saranno i pregiudizi e l’odio della gente a determinare la sua condanna.
Egli continua il suo cammino, senza badare al pericolo per la vita, come non vi badarono gli eroi che combatterono a Troia. Ogni cittadino, per modesto che sia, deve curarsi unicamente di agire rettamente per il bene della città: per questo Socrate non abbandonerà il ‘posto’ (τάξις) che il dio gli ha assegnato. Del resto, perché temere la morte, quando non si sa se essa è un bene o un male per l’uomo? La condanna a morte recherà danno non a Socrate, ma agli Ateniesi, che non troveranno più chi voglia spingerli al bene. Pur essendo costretto a vivere in povertà, Socrate non ha mai atteso alle attività politiche, ne è sempre stato distolto da una voce interiore che glielo impediva.
Col suo modo di comportarsi sarebbe perito: e ben due volte ha rischiato la pena capitale quando si è opposto alla condanna dei dieci strateghi della battaglia delle Arginuse, e quando ha rifiutato di partecipare all’arresto di Leonte di Salamina. L’attività politica, ribadisce, lo avrebbe tratto a morte: ma egli non è sceso a compromessi con nessuno a danno del giusto. Neppure con quelli che lo hanno seguito e ascoltato, dai quali egli non ha riscosso, né preteso danaro, perché non era maestro per nessuno, e tutti potevano ascoltarlo gratuitamente. E se da lui fossero stati corrotti, il processo sarebbe il momento delle accuse: invece quelli che lo hanno ascoltato, e sono parecchi, sono tutti in tribunale pronti alla sua difesa.
4. Per la propria difesa Socrate non ricorre alle suppliche o ai pianti dei congiunti, come di solito avviene nei tribunali: sono cose indegne di lui e della città. Se vi ricorresse, dimostrerebbe la propria empietà, tentando di staccare i giudici dai giuramenti prestati alle leggi: emettano pure il loro verdetto secondo giustizia. Alla sentenza di condanna Socrate non si sente né indignato, né sorpreso, perché tutto questo non gli giunge inatteso. Sorprendente invece è l’esigua differenza numerica fra chi lo condanna e chi lo assolve. Per poco Meleto corre il rischio di pagare lui una multa, anziché ottenere la condanna di Socrate.
A questa pena, che comunque gli è inflitta ad opera di Meleto, Socrate oppone, a termini di legge, la sua controproposta: un premio, degno di un uomo povero, perché benefattore della città, di un uomo che ha chiesto soltanto l’agio di educare e migliorare i propri concittadini. Un premio adeguato, come il mantenimento a spese pubbliche nel Pritaneo, che si addice più a lui che a chi con cavallo, biga o quadriga ha ottenuto la vittoria in Olimpia: «perché costui fa solo in modo che voi sembriate felici, io invece che lo siate»[1].
Non è l’orgoglio a spingere Socrate a questa richiesta, ma il sentimento della giustizia. Prigionia, multa, esilio non gli si confanno, perché egli non ha mai fatto male a nessuno. Meglio la morte quindi, che potrebbe essere anche un bene. Se chiedesse l’esilio egli sa che continuerebbe ovunque la sua missione, mal tollerato però, come male lo tollerarono gli Ateniesi. E che multa può richiedere per sé chi non ha denaro? Al massimo una mina: tanto Socrate può pagare; oppure trenta mine per accontentare gli amici che gli fanno malleveria. Ai giudici che lo condannano Socrate dice che saranno gli Ateniesi a riportare la vergogna di avere punito un uomo saggio; egli, invece, per non incorrere nel male, non si è sottratto alla morte.
Eppure, se chi lo ha condannato avesse aspettato un po’ di tempo, tutto si sarebbe svolto nel modo più naturale. Ma non saranno liberi dalla molestia del suo dire quelli che lo hanno condannato: altri ne sorgeranno sulla sua scia, tanto più incresciosi a sopportarsi, quanto più giovani. Inutile fatica reprimere chi avanza delle riserve: unico mezzo per evitarle è migliorare se stessi. Ai giudici che non hanno votato per la sua condanna Socrate dice che quanto è accaduto non può non essere un bene. La stessa morte può essere un bene, significa o la fine di tutto o la trasmigrazione in un altro mondo, nel quale regnano la giustizia, la libertà, e dove si vive a contatto con le anime dei grandi che ci hanno preceduto.
5. Socrate non nutre sentimenti di rancore verso chi lo ha condannato, pur con l’intenzione di fargli del male. Nessun bene o male può capitare all’uomo giusto senza l’intervento degli dei. Riprendano pure i cittadini e angustino i suoi figli, se si allontaneranno dal bene, come egli ha ripreso e angustiato gli uomini di Atene: nell’ora del distacco, Socrate afferma che soltanto al dio è noto se la soluzione migliore sarà riservata a lui, che si appresta a morire, o a tutti gli altri che continuano a vivere.
Rivendicando la coerenza della sua battaglia per la verità, Socrate riesce a far finire sul banco degli imputati Atene, la città che non aveva saputo accettare la sua sfida, e per questo aveva scelto di ripiegarsi su sé stessa e sui propri pregiudizi. Condannato dal tribunale di Atene, Socrate è stato assolto e premiato da quello della storia: la sua condanna fu una decisione profondamente sbagliata, che macchiò l’onore della città. Rimane però difficile sottrarsi a una sensazione d’amarezza di fronte al conflitto che ha opposto il filosofo e la sua città, tra una città che non ha saputo ascoltare e un filosofo che forse non ha trovato le parole giuste per farsi ascoltare. Forse che le ragioni della filosofia e quelle della città non sono compatibili? È questa la domanda che il processo di Socrate ci ha lasciato in eredità.
Davvero i luoghi in cui si esercita il potere della democrazia – le assemblee, i tribunali – sono impermeabili ai ragionamenti della filosofia? Quando è fatta bene, la filosofia è una pratica che aiuta a liberarsi dei pregiudizi che impediscono di comprendere la realtà nella sua complessità; è una disciplina che insegna ad affrontare i problemi con la forza della propria intelligenza. Per questo anche oggi è così importante rileggere gli “atti” del processo di Socrate.
Daniele Onori
[1] Platone, Opere, vol. I, Laterza, Bari, 1967, pagg. 182-185