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“San Babila ore 20: un delitto inutile” è un film ispirato dalla cronaca, cioè dalla morte di Alberto Brasili, ucciso da cinque neofascisti a Milano il 25 maggio 1975. Reduci dal funerale di un vecchio gerarca del “ventennio”, quattro giovani neofascisti (Fabrizio, Franco e Micky, d’estrazione borghese, e Alfredo, commesso d’origine meridionale) compiono una bravata contro i “rossi” del liceo Beccaria.
Più tardi, dopo una sosta in un bar di Piazza San Babila (il loro “covo”) “rimorchiano” una ragazza, Lalla, che Marco, impotente, violenta con un manganello; picchiano, dopo il passaggio di un corteo di scioperanti, un “rosso” rimasto indietro. Decidono, quindi, di compiere un attentato dinamitardo in una sede sindacale di Sesto Marelli, ma la bomba non esplode (a Marco è mancato il coraggio di accenderne la miccia).
Tornati a Milano, si abbandonano a una provocazione goliardica per cui finiscono in questura accusati, ma subito rilasciati, di atti osceni in pubblico. A San Babila, infine, adocchiata una coppia di fidanzati comunisti, la uccidono a coltellate.
Ma stavolta, grazie alla testimonianza di Lalla (cui Fabrizio ha dato il suo coltello, perché se ne sbarazzasse), per i quattro delinquenti non ci sarà scampo.

Milano aveva paura, testimone di azioni violente tra opposti estremismi, giovani contro altri giovani, storie di vite spezzate da entrambe le parti, raccontate nella cronaca. Nel 1976, Carlo Lizzani porta sul grande schermo: “San Babila ore 20:00: un delitto inutile”, pellicola considerata ancora oggi un valido documento utile per comprendere meglio l’epoca storica degli avvenimenti narrati, ispirata ad un fatto di cronaca realmente accaduto a Milano, la sera di domenica 25 maggio 1975, alle ore 22:30: l’uccisione di Alberto Brasili, uno studente di sinistra, in via Mascagni, poco lontano da Piazza San Babila, ad opera di un gruppo di giovani neofascisti.

Nella geografia politica delle piazze italiane, San Babila è, per la sinistra, un luogo di passaggio: i cortei percorrono corso Venezia e la attraversano, diretti al Duomo. Per i fascisti milanesi, negli anni ‘70, era un luogo di sosta dal quale presero il nome, un po‘ come a Roma i «pariolini».

Il film diretto da Carlo Lizzani e prodotto da Carlo Maietto, ci presenta la storia di quattro giovani, provenienti da diversi livelli sociali, che durante una singola giornata uccidono un ragazzo e feriscono una ragazza gravemente accoltellandola. I giovani estremisti passano la giornata a danneggiare e rubare motorini, dipingere svastiche su un negozio ebreo, e lanciare biglie di ferro con la fionda ai passanti. Sono armati di coltelli e pistole e cercano di far scoppiare una bomba in un centro amministrativo della sinistra. Il film illustra la loro ignoranza, immaturità e fanatismo, ma anche la loro rabbia e vulnerabilità e voglia di vendicarsi con spietati atti di violenza.

La fine del film è spettacolare e cattiva. Durante la caccia per catturare una giovane il film diventa un horror: le vittime corrono disperate senza poter trovare una via d’uscita per salvarsi fino al macabro delitto. La lotta sul pavimento dove l’innocente ragazzo riceve tanti colpi di coltello da varie direzioni fino alla morte è mostrata in modo molto realistico. Con la testimonianza di Lalla, la polizia accerchia finalmente i tre responsabili all’uscita di una sala da gioco alla fine del film.

Lizzani non si occupa solo della polarizzazione, ma prova anche a indagare fattori personali per spiegare la violenza dei tre. Michele, detto ‘Miki’, proviene da una famiglia ricchissima dove il rapporto fra i genitori è pessimo. Il padre, un cattivo capitalista, minaccia Michele con un coltello per costringerlo a sottomettersi, fino al momento in cui anche Michele tira fuori un coltello.

Dietro all’arrogante superbia di Miki troviamo dunque una famiglia dominata da ostili e accaniti scontri. Non c’è dubbio da chi Miki abbia imparato ad armarsi con il coltello. Franco, dominato da una madre invadente, è sessualmente incompetente, debole e soffre di complessi d’inferiorità. Alfredo, immigrato dal Sud, ha un passato di detenzione a causa di violenza sessuale, “riparata” attraverso il matrimonio con la vittima. Anche lui è un giovane con limitate risorse.

Diventa ovvio che le “ragioni” politiche dei delinquenti non sono che veli che servono a nascondere i veri motivi delle loro crudeltà, che provengono da tutt’altri radici che quelle politiche.

Era il tempo in cui i ragazzi di sinistra canticchiavano, in modo persino incosciente, uno dei motivetti più trucidi degli anni ‘70, sull’aria del Carosello del Bitter Sanpellegrino: «Se vuoi bere un prodotto genuino / bevi sangue di sanbabilino».

In quegli anni sembra di intravedere una similitudine tra militanza a destra e a sinistra, nella prima metà degli anni Settanta: la presenza, nelle varie attività politiche, di formazioni extraparlamentari che causarono un inasprimento della già delicata situazione di quegli anni. La radicalizzazione del confronto politico, che divenne scontro e financo guerriglia urbana, non è spiegabile rimanendo all’interno della militanza regolare. La specificità del periodo di tempo considerato risiede nella contiguità non tanto con elementi stragisti o terroristi, da qualsiasi parte dello schieramento, ma con i gruppi estremisti che contribuirono sensibilmente ad infuocare il clima. È chiaro che rimangono le responsabilità personali e delle organizzazioni di riferimento, le quali, nel caso in questione, furono costrette a correre ai ripari ex post, per provare a limitare i danni già fatti.

La storica Barbara Armani ha evidenziato la peculiarità del decennio sostenendo che il “lungo Sessantotto” produsse due conseguenze: la prima fu la “politicizzazione estrema del confronto sociale”; la seconda consistette nella diminuzione della forza istituzionale dei partiti sul comportamento dei soggetti sociali, orbitanti attorno ad essi, per via del “disincantamento” (così lo definisce l’autrice) seguito al fallimento del periodo riformista[1].

In aggiunta, negli anni Settanta il sistema politico in crisi e la metamorfosi strutturale degli assetti sociali e produttivi causarono una mobilitazione politica e sociale dalle “forme e ritmi inattesi seguendo un andamento carsico”, tale da rendere oscura la lettura delle trasformazioni in atto e parcellizzare i movimenti, “pronti a mobilitarsi nelle aree di crisi del sistema, a convergere su alcuni obiettivi e in alcuni luoghi nei momenti di picco della tensione sociale, nei punti di conflitto aperto con le istituzioni”[2].

Il focus del lavoro di Armani erano i movimenti di sinistra, eppure l’elaborazione tiene anche per la destra. Ha scritto: “In molte aree urbane gli adolescenti degli anni settanta hanno vissuto una precoce socializzazione alla violenza, e in particolare alla violenza di segno politico. Praticata nelle scuole e nelle piazze come una guerra per bande, una modalità del confronto politico e un’adesione, più o meno meccanica, a un costume diffuso tra i «compagni» adulti”[3] .

I giovani furono una componente essenziale della piazza di destra e di sinistra e il loro utilizzo strumentale fece di loro degli attori inconsapevoli. Tutto questo non solleva dalle responsabilità personali per i crimini commessi, pur se compiuti in ambiente politico; però restituisce un’immagine diversa dalla classica raffigurazione del giovane neofascista. La violenza è un dato normalizzato nella politica degli anni Settanta (in particolare tra i giovani) ma non esaurisce la destra italiana, né nessun’altra parte politica.

Ora piazza San Babila non fa più paura a nessuno. Suscita solo brutti ricordi. L’importante è non rimuoverli, per non doverli rivivere.

Daniele Onori


[1] B. Armani, Italia anni settanta. Movimenti, violenza politica e lotta armata tra memoria e rappresentazione storiografica, in “Storica”, f. 32 vol. 11 anno 2005, pp. 41-82

[2] B. Armani, op. cit. p.66

[3] B. Armani, op. cit. p. 78

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