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La tradizione giuridica romana non è circoscritta ai soli ‘tecnici’ del diritto ma si estende perfino ai poeti, fra i più insigni dei quali vi è Catullo: in lui lo ius appare un mezzo di comunicazione strumentale alla modalità espressiva, e offre una indiretta testimonianza della disciplina del matrimonio nell’Urbe.

1. Catullo nacque a Verona da una famiglia agiata, con svariate proprietà, tra le quali una villa a Sirmione, nella quale sembra che sia stato ospite più di una volta Giulio Cesare.

A Catullo fu data un’educazione severa e rigorosa, come in uso nelle buone famiglie del tempo. Nel 60 a.C. egli si trasferì a Roma per terminare gli studi, giungendovi in un momento particolare: la Repubblica stava per finire e la città era in tumulto, dominata da lotte politiche e da un forte individualismo, sia in ambito culturale e letterario che in ambito politico. Catullo entrò a far parte di un circolo letterario detto dei neoteroi o poetae novi, nel quale ci si ispirava alla poesia greca di Callimaco: strinse amicizia con uomini prestigiosi come Cornelio Nepote, famoso oratore, e Quinto Ortensio Ortalo. Pur se interessato alle vicende politiche, preferì abbandonarsi alla vita di città e ai piaceri che essa offriva: proprio a Roma conobbe Clodia, che sarebbe stata al tempo stesso il grande amore della sua vita, e in egual maniera il suo tormento. Ella era la sorella del tribuno Clodio Pulcro, e la moglie del proconsole per il territorio cisalpino Metello Celere.

È a Clodia che Catullo canta il suo amore, attribuendole il poetico nome di Lesbia, con un implicito paragone con la poetessa Saffo: lei è raffinata ed elegante, ma è anche più grande di lui di dieci anni, e pur amandolo non gli risparmiò una serie di dolorosi tradimenti fino alla rottura. Catullo cerca la pace nella sua Sirmione, dove si rifugia negli ultimi due anni di vita, a partire dal 56 a.C., offuscati da un “mal sottile”, che consuma il poeta nella mente e nel fisico, fino a farlo morire a soli 30 anni di età. La data della morte non è nota, ma si stima attorno al 54 a.C. a Roma.

2. Su 2291 versi catulliani, ben 702 sono dedicati alle nozze[1]. Nei carmi 61e 62[2], da un lato, sono rievocate la raptio, la conventio in manum, la deductio e la dos[3], e cioè sono presenti gli elementi fondamentali del rito matrimoniale, dall’altro, è esaltato il valore delle nozze, della famiglia e della prosecuzione della stirpe, tema ripreso nel carme 64[4]. Pur se l’autore ha utilizzato i modelli greci sia nella tecnica poetica che negli espedienti retorici, il contesto è scandito da motivi tipicamente romani, quali istituti giuridici e mores maiorum[5].

In carm. 61.1 ss. Collis o Heliconii / cultor, Uraniae genus, qui rapis teneram ad virum / virginem il qui rapis in riferimento alla virgo ricorda l’antica forma del matrimonio per ratto. Di seguito, ai versi 61.56 ss Tu fero iuveni in manus / floridam ipse puellulam / dedis a gremio suae / matris, si allude alla conventio in manum – con la quale la donna perdeva ogni rapporto di agnazione con la famiglia di provenienza ed entrava a far parte della familia del marito – e ancora una volta alla raptio. Nel testo catulliano, Imene, protettrice delle nozze, consegna nella mani del giovane sposo la fiorente fanciulla, strappandola dal grembo di sua madre. Seguono i versi dedicati all’esaltazione dei valori dei mores maiorum.

I romani si univano in matrimonio per garantire una discendenza, e le nozze erano decise dai parenti per motivi di prestigio o economici, soprattutto in età repubblicana. La storia antica dello stato romano, nel periodo monarchico e repubblicano, ci narra che era costume promettere in sposa o fidanzare le ragazze molto presto (sponsalia), verso gli otto anni, anche contro la propria volontà; era questo un impegno, vincolante per la donna, a una fedeltà prematrimoniale nei confronti del futuro sposo, perseguibile in caso di inadempimento.

Per sugellare il fidanzamento il ragazzo consegnava alla ragazza un anello che lei indossava all’anulare della mano sinistra. Il matrimonio poi, riconosciuto perché legato al diritto e a tutta una serie di leggi ad hoc, si perfezionava verso i dodici-quattordici anni; il marito acquisiva la manus maritalis e avveniva il trasferimento della donna dalla famiglia paterna a quella del marito loco filiae. La sposa perdeva ogni rapporto con la famiglia di origine e ogni diritto sull’eredità (conventio in manum); se la sposa era sui iuris, cioè non sottoposta alla tutela del padre, conferiva al marito il suo patrimonio. Lo ius connubi, ossia la idoneità a contrarre matrimonio, era inizialmente destinato solo a persone della stessa classe sociale.

3. La Lex Canuleia, del 445 a.C., aveva però permesso il matrimonio fra classi sociali diverse, patrizi e plebei. In 61.98 ss. Non tuus levis in mala / deditus vir adultera, / probra turpia persequens il poeta elogia la fedeltà del marito, condannando l’adulterio e la ricerca dei piaceri turpi. In carm. 61.204 ss. Ludite ut lubet, et brevi / liberos date. Non decet / tam vetus sine liberis/ nomen esse, sed indidem / semper ingenerari, egli prosegue invitando gli sposi a generare figli il prima possibile (brevi liberos date).

Questo tema si ripete anche in carm. 64.373 s.: accipiat coniunx felici foedere divam, / dedatur cupido iam dudum nupta marito, ove il poeta sollecita nuovamente la donna ad offrirsi subito al desiderio di suo marito. La procreazione è dunque posta da Catullo a suggello del matrimonio.

In carm. 62.1 ss. Vesper adest, iuvenes, consurgite: Vesper Olympo / expectata diu vix tandem lumina tollit. / Surgere iam tempus, iam pinguis linquere mansas, iam venit virgo, iam dicetur Hymenaeus, Catullo, nel cantare l’abbandono della vergine della propria casa verso quella dello sposo, sembra rievocare la deductio in domum mariti, cioè il solenne ingresso della sposa nella casa del marito, inteso quale momento iniziale del rapporto di coniugio. Segue, nuovamente, l’evocazione della conventio in manum.

In carm. 62.21 ss. qui natam possis complexu avellere matris / comlexu matris retinentem avellere natam, / et iuveni ardenti castam donare puellam la sposa, nuovamente presentata come vergine (casta puella), al momento reticente, è donata allo sposo. In questo caso  l’espressione donare puellam è utilizzata in luogo della conventio in manum[6].

Thomson[7] chiarisce che il passo rievoca il rito descritto da Sesto Pompeo Festo[8] circa il raptus simulatus[9].  In carm. 62.26 ss. Hespere, quis caelo lucet iucundior ignis? / Qui desponsa tua firmes conubia flamma, / quae pepigere viri, pepigerunt ante parentes, / nec iunxere prius quam setuus extulit ardor, Catullo rievoca l’istituto degli sponsalia e chiama – non casualmente – la donna desponsa. Il poeta narra che Vespero ha suggellato il matrimonio (conubium) già pattuito con la sponsio in cui il padre[10] della sposa e il futuro sposo si erano impegnati l’uno a concedere la figlia, l’altro ad unirsi in matrimonio con lei[11].

4. A Roma le nozze erano solitamente precedute dagli sponsalia, cerimonia solenne con la quale si compiva la promessa di matrimonio. Come rivela lo stesso nome, almeno in età arcaica gli sponsalia si effettuavano attraverso la sponsio, un impegno formale per mezzo del quale il pater familias prometteva al fidanzato la propria figlia in moglie. Questa cerimonia era dunque un atto solenne, fondato sulla tradizione patriarcale, e caratterizzato da un preciso apparato giuridico che lo rendeva impegnativo quasi quanto il matrimonio.

Gli sponsalia si svolgevano alla presenza degli aruspici e di tutti gli amici delle due famiglie che svolgevano la funzione di testimoni dell’impegno matrimoniale. Quest’ultimo era preso secondo le forme della stipulatio, in base alla quale sia il pater della donna sia il fidanzato s’impegnavano a garantire il compimento delle nozze. Presi gli accordi giuridici, c’era la consuetudine – ma non era un atto necessario – che i due fidanzati si scambiassero un bacio casto, che non offendeva le antiche tradizioni. In tal caso la cerimonia degli sponsalia era definita osculo interveniente.

Seguiva, quindi, lo scambio dei doni – solitamente arredi e abbigliamento – che costituivano il “pegno” delle future nozze, dopodiché l’uomo regalava alla fidanzata un anello, l’anulus pronubus, sul quale vi sono diverse testimonianze. Quest’anello non era un regalo come tanti altri, poiché svolgeva una funzione simbolica: era una sorta di “catena” attraverso cui lo sposo legava a sé la sposa, rivendicandone il possesso. Una volta infilato l’anulus al dito, la ragazza manifestava concretamente l’impegno a rispettare il patto di fedeltà nei confronti del fidanzato. Non è un caso l’anulus appunto all’anularius, da cui si credeva partisse una vena che giungeva dritta al cuore. Inizialmente, come ricorda Plinio il Vecchio, l’anulus doveva essere un semplice cerchietto di ferro, e solo in seguito fu realizzato in oro.

5. Dopo aver firmato il contratto nuziale, nel quale erano stabiliti la natura e l’ammontare della dote della sposa, e dopo aver fissato la data delle nozze, la cerimonia degli sponsalia giungeva al termine. Seguiva quindi un banchetto, cui partecipavano i presenti.

Seguono i versi 59 ss.: et tu ne pugna cum tali coniuge, virgo / Non aequom est pugnare, pater cui tradidit ipse, / ipse pater cum matre, quibus parere necesse est . / Virginitas non tota tua est, ex parte parentum est, / tertia pars patrist, pars est data tertia matri, / tertia sola tua est: noli pugnare duobus, / qui genero sua iura simul cum dote dederunt. S’invita la sposa a non ribellarsi contro i genitori e, in secondo luogo, si sottolinea che questi ultimi hanno ceduto i diritti (sua iura) al genero insieme alla dote.

L’allusione è chiaramente all’istituto della dote che accompagna il matrimonio, e che pone la sposa sotto la potestà della famiglia maritale. È significativo il legame sottolineato in questo passo dal poeta fra matrimonio e regime patrimoniale: dalla lettura dei passi evidenziati emerge una singolare conoscenza da parte di Catullo del rito matrimoniale e dei motivi tipicamente romani ad esso connessi (da un lato, l’istituto della dote, dall’altro, la valorizzazione del mos maiorum).

Tra i risvolti patrimoniali, già in età tardo-antica si rinvengono delle attribuzioni patrimoniali, a vario titolo, nei rapporti antecedenti e concomitanti il matrimonio: donazioni obnuziali e dote. Le attribuzioni con causa individuabile nel matrimonio consistevano in elargizioni reciproche di beni tra i nubendi, condizionate all’evento nozze e finalizzate a sostenerne i pesi. Sollevarono già in periodo post-classico problemi in ordine alla loro restituzione dopo lo scioglimento del matrimonio.

6. Problema ulteriore si poneva circa la liceità delle donazioni in costanza di matrimonio che, a partire dal consolidamento del matrimonium sine manu, divennero certamente illecite; come argomenta Giuffrè[12], la soggezione ai poteri relativi alla manus comportava per la donna una netta recisione dei legami, in particolare giuridici, con la famiglia d’origine: da un lato il pater familias della donna perdeva i poteri di porre direttive e castighi alla stessa, in favore del marito o del nuovo pater familias; dall’altro lato, la donna non poteva più vantare diritti successori alla morte del padre.

Col mutamento delle condizioni economiche e sociali, si avvertì l’esigenza da parte della donna di conservare le pretese ereditarie, si evitò di far uscire la mulier dalla patria potestas, in modo che essa potesse partecipare alla successione ab intestato al padre, pertanto si escogitarono stratagemmi che consentissero alla stessa di prendere parte alla spartizione dei beni della famiglia d’origine. Si costituiva così il nuovo nucleo familiare evitando l’apposizione della manus da parte del marito, per mezzo di un’interruzione della coabitazione per tre notti consecutive all’anno – in un secondo momento anche solo per apparenza, come testimoniano Gaio e Quinto Mucio [13] con riferimento alle XII tavole, Gellio[14] -, tale da aggirare l’usus e da far divenire desuete le forme della coemptio e della confarreatio. L’escamotage divenne talmente diffuso da assurgere a prassi, tanto che la fictio iuris della fuga si considerò superflua, essendo pacifico che la coabitazione non comportasse usucapione della moglie.

Da questo momento si definisce una forma di matrimonium sine manu, in cui i poteri della manus maritalis non scompaiono, ma si attenuano in una “potestà maritale”, come conseguenza di una palese conquista di posizione della donna – almeno una volta divenuta sui iuris alla morte del pater – circa la possibilità di mantenere la propria coscienza e volontà (suitas), rendendo così rilevante anche la propria intenzione nella formazione della nuova familia.

Nemmeno a un istituto antico come il matrimonio è dunque ammesso di sottrarsi allo scorrere del tempo; è un’evoluzione, quella che lo coinvolge, che lo attraversa senza corromperne l’essenza: dal mondo romano a quello moderno il matrimonio resta, e si afferma, punto cardine della vita sociale, portando con sé tradizioni, usanze e costumi che, riformulati nei secoli, restano chiave interpretativa dell’unità familiare.

Daniele Onori


[1] cfr.A. Agnesini, Il carme 62 di Catullo, Cesena 2007, p. 485

[2] I carmi 61 e 62 sono epitalami, cioè inni nuziali con cui si festeggiavano gli sposi la sera del matrimonio. Il carme 61 è scritto per le nozze di Manlio Torquato, un amico di Catullo, con Vinia Aurunculea; e vuole essere cantato da un coro di giovinetti e di fanciulle durante la “deductio”, cioè quando il corteo solenne accompagna la sposa dalla casa paterna a quella maritale. La poesia si apre con l’inno a Imeneo, dio delle nozze; seguono l’invito alla sposa a uscire dalla casa paterna e, finalmente, quando il corteo è giunto alla nuova casa, il saluto agli sposi e il congedo. Nel secondo epitalamio, sulla stella Espero, la prima a sorgere dopo il tramonto, si basa un allegro contrasto tra un gioioso coro di giovani, in favore dello sposo, e un coro di lamento di vergini, che paragonano la sposa a una rosa che sfiorisce se viene colta, mentre i giovani la paragonano alla vite che prospera se si appoggia al robusto olmo.

[3] Sul matrimonio: P. Giunti, Consors vitae: matrimonio e ripudio in Roma antica, Milano 2004, passim; C. Fayer, La «familia» romana: aspetti giuridici e antiquari. «Sponsalia», matrimonio, dote, II, Roma 2005, 327ss.; T. Spagnuolo Vigorita, Casta domus. Un seminario sulla legislazione matrimoniale augustea, Napoli 2010, 10 ss

[4] Il secondo (carme 64) canta della nave Argo che solca il mare verso la Colchide per la conquista del Vello d’Oro. Le Nereidi emergono a quella vista e uno degli Argonauti, il re tessalico Peleo, si innamora della ninfa del mare Teti; durante il banchetto delle loro festose nozze le Parche inneggiano all’eroe Achille (figlio di Teti e Peleo) e piangono la sua prematura morte.

[5] Non a caso A. Agnesini, Il carme 62 cit. 418, a proposito del carme 62, sostiene che Catullo intreccia perfettamente la tradizione letteraria greca della poesia nuziale al rito matrimoniale romano. In altri termini, per lo studioso la forma letteraria del carme sarebbe di derivazione greca, il suo contenuto, viceversa, tipicamente romano.

[6] A. Agnesini, Il carme 62 cit., 233 (commento a v. 62.23) e 443 s. Lo studioso chiarisce che espressioni analoghe a donare puellam non compaiono in contesti matrimoniali, ma riguardano il dono di schiave o persone che appartenevano a mercanti di schiavi, come in Tert. Eun. 108 s. e Prob. Verg. georg. 4.246.

[7] D. Thomson (cur.), Catullus, Toronto 1997, 182

[8] Grammatico latino probabilmente del 2º sec. d. C., autore di un compendio alfabetico, in 20 libri, dell’opera di Verrio Flacco De verborum significatione. L’epitome di F., a sua volta riassunta da Paolo Diacono (8º sec.), ci è giunta con gravi lacune, ma è comunque preziosa fonte di notizie linguistiche e antiquarie.

[9]  Fest. p. 364 L. raptus simulatus: rapi simulatur virgo ex gremio matris, aut, si ea non est ex proxima necessitudine, cum ad virum traditur, quod videlicet ea res feliciter Romulo cessit. Sulla raptio  A. Agnesini (Il carme 62 cit., 411) sottolinea che i romani sentivano come proprio questo istituto. Ciò non solo sulla base del suddetto passo festino ma anche alla luce della testimonianza di Prop. el. 4.4.57 dove Tarpeia ricorda il ratto delle Sabine. È il segno – prosegue lo studioso – «dell’esito felice delle nozze seguenti il rapimento». Sul passo catulliano in esame vd. Fayer, La familia romana: aspetti giuridici e antiquari. «Sponsalia» cit., 513 nt. 713, la quale indica fonti analoghe al passo catulliano in esame (Apul. met. 4.26; Serv. Aen. 10.79; Macr. Sat. 1.15.21).

[10] Sull’impiego di parentes in Catull. carm. 62.28 vd., da ultimo, Agnesini, Il carme 62 cit., 413 s. e letteratura ivi citata.

[11] Sul passo in esame vd. Fayer, La familia romana: aspetti giuridici e antiquari. «Sponsalia» cit., 43 nt. 84, la quale afferma che in carm. 62.26 ss. Catullo evoca gli accordi che precedevano l’atto del fidanzamento.

[12] V. Giuffrè: Il diritto dei privati nell’esperienza romana. I principali gangli. Jovene, Napoli (2010).

[13] Gajus: Insituzioni, Commentari IV. Libreria Minerva, Verona (1857).

[14] Aulo Gellio: Noctes Atticae. Cornelium Boutesteyn & Johannem Du Vivié, Lugduni Batavorum (1706).

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