Tratto dal romanzo di Dennis Lehane, “Mystic river” di Clint Eastwood ci offre un ritratto amaro e disilluso di un’America violenta e cinica, popolata di esseri legati al passato dalle catene della colpa. Il regista ha modo di rileggere, in chiave moderna, alcuni dei topoi della tragedia elisabettiana (la colpa, l’idea scespiriana che ciò che è fatto non può essere disfatto), calandoli in un contesto sociale degradato e violento. Quest’opera è segnata da un tema centrale: quello della perdita nelle sue varie forme. Alla perdita di una persona cara e al tema dell’elaborazione del lutto si affianca così quello della perdita dell’innocenza, quello della responsabilità individuale e delle metamorfosi dell’animo umano segnato dagli accidenti della vita.
La narrazione dei fatti parte dal 1975 e l’ambientazione è quella di East Buckingham, un quartiere di una periferia come tanti, in cui tutti conoscono tutti. La gente che vive lì non è mai andata via, se non si contano i giovani partiti per la guerra e mai più tornati alle proprie case. Per chi cresce in un posto del genere non ci sono molte prospettive e questo vale anche per i protagonisti della storia, tre semplici ragazzini che si divertono a giocare tra le strade del quartiere.
Un giorno, però, mentre Sean, Jimmy e Dave stanno facendo a botte in mezzo alla strada, vengono avvicinati da una macchina con a bordo due presunti agenti della polizia. Uno dei due uomini, dopo aver fatto una ramanzina ai tre, intima a uno di loro, Dave, di salire in macchina. Dave obbedisce ma da quel momento per quattro, terribili giorni, scompare e il suo sguardo colmo di terrore rimarrà impresso per sempre nella mente degli altri due.
Quando Dave fa ritorno al suo quartiere, sfuggito alle grinfie dei suoi due aguzzini, gli sguardi che si posano su di lui non sono compassionevoli, ma carichi d’odio e disprezzo. Dave è tornato completamente sconvolto da quell’esperienza, ma viene deriso dai compagni e finisce per isolarsi sempre di più.
Venticinque anni dopo, molto è cambiato nella vita dei protagonisti: Jimmy si è lasciato un passato criminale alle spalle, gestisce un negozio di alimentari ben avviato nel quartiere e non ha più nessuna intenzione di tornare in galera. Dopo la morte della prima moglie si è risposato con Annabeth, con la quale convive insieme all’amata figlia Katie, avuta dal precedente matrimonio, e le altre due figlie. Sean è diventato un detective della omicidi ed è ossessionato dal ricordo della moglie che lo ha lasciato da poco. Dave invece è sposato e ha un figlio.
Katie, la figlia di Jimmy, viene trovata brutalmente assassinata in un parco. Le indagini sull’omicidio vengono assegnate proprio a Sean, mentre i comportamenti sospetti di Dave lo inquadrano come uno dei possibili colpevoli. Mentre Sean cerca di ricostruire i fatti, Celeste, moglie di Dave, si convince della colpevolezza del marito e, disperata, lo riferisce a Jimmy. Costui, uomo dai modi energici e malavitosi, mette alle strette Dave, lo fa confessare e poi lo uccide con un coltello. Più tardi Sean capisce che si é trattato di un fatale errore. Gli assassini sono altri due ragazzi. Jimmy resta in libertà ma il rimorso di aver sbagliato resta dentro come un incubo.
Il destino sembra aver riunito di nuovo i tre amici in un momento tragico, ma adesso per loro è giunto il momento di fare i conti con un passato che ha segnato per sempre le loro anime.
Qualunque sia il significato specifico col quale compare il termine mistico nel titolo, esso indica il prevalere incontrastato di un’unica realtà, alla quale è dunque necessario e inevitabile sottomettersi senza opporre resistenza. La violenza è il principio che totalizza e compiutamente esprime l’universo descritto nel film di Clint Eastwood. Una violenza rappresentata dallo squallore sempre uguale della periferia, fino al tragico passatempo dei due adolescenti assassini e a un epilogo letteralmente intriso di sangue. Questa violenza non è accidentale, e non è neppure la conseguenza – come tale, isolata e comunque razionalmente spiegabile – dell’atto di originaria violenza commesso sul piccolo Dave. Come esplicitamente afferma Sean, in un passaggio decisivo del film, sulla macchina scura che aveva condotto via colui che dei tre era sembrato il più debole e remissivo, erano in realtà saliti anche i suoi due compagni. Nessuno può sfuggire al destino di violenza che incombe sull’umanità in quanto tale, e non soltanto su alcuni emarginati. Come è confermato anche da alcuni dettagli (la riproposizione del nome Ray per il padre ucciso e per il figlio assassino), a nessuno è concesso di sottrarsi alla perpetuazione di un principio contro il quale è impossibile lottare.
Nel film di Eastwood nessuna legittimazione, nessuna seppur remota parvenza di razionalità è concessa alla violenza. Essa compare, piuttosto, nella sua radicale e ineliminabile insensatezza, nella sua intrinseca impossibilità di funzionare come strumento di riequilibrio di un ordine che sia stato turbato. Semplicemente, la violenza chiama altra violenza, si riproduce in forma allargata, si perpetua di generazione in generazione. Il sangue non è lavacro che purifichi, ma resta piuttosto come macchia indelebile e funesta. Tutti i diversi tentativi, compiuti nel film, di “fare giustizia”, col ricorso alla vendetta privata, si convertono in una ulteriore iniquità, o nella sterile immolazione di altre vittime innocenti. Così è per l’omicidio di Dave, selvaggiamente assassinato come un capro espiatorio, dalla cui morte tuttavia non scaturisce alcuna universale redenzione. Così è per il brutale massacro della giovane Katie, sulla quale si scarica il furore vendicativo di Ray junior, incarnazione di quella muta violenza che compare già ai primordi della cultura occidentale, nella silenziosa presenza di Bia (il termine greco per indicare la violenza, appunto) nella prima scena del Prometeo incatenato di Eschilo.
A qualunque scopo possa essere rivolta, qualsiasi sia la motivazione che ne è all’origine, nulla potrà conferire razionalità a una condotta che resta invece irriducibilmente insensata e ingiustificabile. Come è detto da Jimmy, nella scena che costituisce in ogni senso il baricentro del film, sul corpo agonizzante di Dave spietatamente sgozzato, la pretesa che le acque di quel fiume – del “fiume mistico” – possano servire per lavare le atrocità compiute, per purificare dalla violenza subita e da quella commessa, si rivela totalmente illusoria, oltre che sacrilega.
Nessun sacrum-facere, nessun omicidio rituale, potrà riscattare dal suo destino di violenza una umanità originariamente segnata nella carne dalla tara dell’impulso all’uso sfrenato della forza. Come quella di Ray senior, come quella del pedofilo, anche la morte di Dave non è la premessa di alcuna universale salvezza. Essa resta invece consegnata alla sua intrinseca irrazionalità, alla sterilità di un gesto che sopprime e cancella una vita, senza generare nulla, senza creare alcun nuovo ordine. Mentre conficca il coltello nel ventre di Dave, Jimmy si identifica davvero con la definizione kierkegaardiana del mistico, è davvero “colui che sceglie se stesso in un isolamento completo”[1].
Il ‘non uccidere’ aleggia sullo svolgersi dei fatti nel contrasto quasi primordiale ma centrale tra la coscienza della legge impersonata da Sean e l’istinto del malavitoso impersonato da Jimmy. Dave, in mezzo, è quello che ha subito la violenza da piccolo e ora si rassegna a subirne una da adulto. Il passato trascolora nel presente, il perdono si arrende di fronte alle difficoltà del comunicare, la famiglia non basta a coprire i vuoti del dolore profondo. Così è per la giustizia, intesa come legge regolatrice della società, giacché arriva quando ormai è troppo tardi, quando la cattiva coscienza ha prevalso sul desiderio di pietà
Accompagnato dall’empia convinzione di essere chiamato a fare giustizia, assistito da coloro che di tale rito barbaro sono con lui i ministri, Jimmy non è soltanto “il duro del gruppo” (come lo chiama, con tono sarcastico, il sequestratore di Dave nell’antefatto della vicenda), non è soltanto lui il colpevole della violenza di cui la vicenda è letteralmente imbevuta. Con lui, prima e dopo di lui, colpevoli si dichiarano anche Dave e lo stesso Sean. Come non uno solo di essi, ma tutti e tre, hanno subito nell’adolescenza la distruttiva esperienza dell’abuso sessuale, allo stesso modo in età adulta non soltanto uno, ma tutti e tre sono in modi diversi responsabili dell’esplosione della violenza descritta nel film. [2]
La costruzione in parallelo del finale del film, dove il processo di scoperta dei veri assassini è intercalato dalle immagini del giudizio sommario a cui è assoggettato l’incolpevole Dave, quasi a suggerire la virtuale intercambiabilità fra le due situazioni, conferma che, in ogni caso e in qualunque circostanza, non è possibile uscire dalla spirale angosciosa della violenza, e che comunque nessuna autentica giustizia è davvero possibile. Il fiume mistico dell’odio e della violenza, dell’illegalità e della sopraffazione, rappresentato già nelle primissime immagini con le quali si apre il film, a sottolineare, fin dall’inizio, quale ne sia l’autentico protagonista, può solo testimoniare, nel suo corso sempre uguale e immodificabile, l’inalterabilità del cupo destino riservato al genere umano. Il totale affidamento alla violenza, come strumento di una possibile palingenesi, il misticismo dell’odio e della forza, non sono all’origine di alcuna possibile redenzione. Generano lutti, accrescono le iniquità, riproducono in forme esponenziali il dolore del mondo.
Non salvano e non riscattano. Semplicemente, ribadiscono la condanna che grava su tutta l’umanità. Assomigliano alla parata con la quale si chiude il film. Apparentemente dinamica, in realtà immobile. Inutilmente solenne, immotivatamente enfatica, fragorosa e sterile, orgogliosa della propria nullità, fiera di esibire il vuoto. Un andare non si sa dove e non si sa perché, con irresponsabile baldanza, con tronfia vacuità. Proprio come accade, su questa terra irredimibile, indelebilmente segnata dal marchio della violenza, a ciascuno di noi.
In un frammento presumibilmente appartenente a un’opera in parte perduta di Aristotele,[3] pervenutoci attraverso l’omonima opera di Giamblico[4] e alcune pagine di Agostino,[5] l’impossibilità per l’uomo di essere «felice e beato» (eudáimon kai makários) [6] viene fatta discendere dal fatto che «siamo stati subito costituiti per natura [próton euthýs phýsei]», come se «fossimo tutti destinati a una punizione [epí timoría]».[7]
L’infelicità umana non è dunque, per Aristotele, un dato accidentale, né una condizione suscettibile di un cambiamento a cui si possa ragionevolmente aspirare. Al contrario, ciascuno di noi è per natura (vale a dire conformemente a ciò che si è per nascita ed euthýs, «fin dall’inizio») costituito in modo tale da essere destinato a una punizione. Impossibile, dunque, essere felici – non solo di quella compiuta felicità di cui dice la makaría, ma neppure di quella che consiste nello «star bene col proprio demone», esemplificata nella eudaimonía – perché vi è qualcosa che segna indelebilmente fin dalla nascita il nostro stato, avviandoci a una punizione ineludibile.
Per chi conosce la produzione cinematografica di Clint Eastwood, non può non venire alla mente, quanto al tema della violenza e della sopraffazione, un altro straordinario film del regista statunitense, “Gran Torino” (al quale, prossimamente, dedicheremo una specifica riflessione). In questa pellicola del 2008 ritorna il tema della violenza e della rassegnazione ad un destino già scritto, ma un anziano ed ammalato reduce della guerra coreana, lasciato solo dalla sua famiglia oramai senza valori, consente, con il suo sacrificio, al giovane protagonista di ribellarsi e di dirigersi verso un futuro diverso. A bordo della fiammante Gran Torino, un tempo appartenuta al vecchio Walt.
Daniele Onori
[1] S. Kierkegaard. Aut-Aut, Mondadori 2016 pp 244-245
[2] U.Curi, Film che pensano, MImesis 2020, pp. 188-191
[3] Si tratta del Protreptico, o esortazione alla filosofia. Il titolo dell’opera «figura in tutti gli antichi cataloghi delle opere di Aristotele … e dovette godere di grande notorietà almeno fino al tempo di Cicerone, il quale sembra essersi ispirato ad esso nella redazione del suo Hortensius, dialogo purtroppo andato anch’esso perduto. Esso appartiene al gruppo delle opere pubblicate dallo stesso Aristotele e che pertanto ebbero notevole diffusione nei secoli immediatamente successivi alla morte dell’autore (322 a.C.), quando non erano ancora stati pubblicati i trattati da lui composti per la sua scuola» (Enrico Berti, Introduzione, in Aristotele, Protreptico. Esortazione alla filosofia, a cura di Enrico Berti, UTET, Torino 2000, p. VII).
[4] Cfr. Giamblico, Protrepticus, o esortazione alla filosofia, a cura di Ermenegildo Pistelli, Teubner, Lipsiae 1888, 8, 21-48, p. 47.
[5] Cfr. Agostino, Contra Julianum Pelagianum, IV, 15, 78.
[6] Aristotele, Protreptico, o esortazione alla filosofia cit., fr. 106, p. 63.
[7] Aristotele, Opere, IX: Costituzione degli Ateniesi – Frammenti, trad. it. di Gabriele Giannantoni e Renato Laurenti, Laterza, Bari 1973, p. 746