Dal racconto di Stephen King “Rita Hayworth and the Shawshank Redemption”, “Le ali della libertà”, il cui titolo originale è “The Shawshank Redemption”, è un film sulla vita nelle carceri; una storia di redenzione, di speranza, di fiducia nell’uomo e nei propri mezzi, primo dei quali: l’anima. Non importa quanto profondo può essere l’inferno, in cui si viene cacciati: il coraggio e la nobiltà possono rendere l’uomo libero.
Dirigente bancario, Andy Dufresne, condannato – malgrado la sua innocenza – all’ergastolo nella prigione di Stato di Shawshank per l’assassinio della moglie e del suo amante, affronta il carcere con coraggio e pazienza: la speranza e la riflessione lo assistono sempre. Sottoposto subito al rito iniziatico delle violenze sessuali, Dufresne fa amicizia con il nero Red, ergastolano ed abilissimo nell’arte del sopravvivere in un ambiente più che duro, dominato dal boss Heywood; si adopera per ricostruire ex novo la polverosa biblioteca gestita dall’anziano Brooks Hatlen (ottenendo infine dal Ministero della Giustizia dollari, libri e dischi), ma soprattutto si fa apprezzare sfruttando le proprie qualità professionali dal rigido direttore Warden Norton, che fa di Andy il consigliere per i suoi loschi affari. Dufresne diventerà, infatti, il complice del direttore, aiutandolo a ripulire i proventi della corruzione.
Intanto, due eventi sconvolgono la vita di Andy. Il suicidio per impiccagione del vecchio detenuto Brooks, atterrito dalla libertà dopo 50 anni di carcere e l’assassinio del giovane detenuto Tommy, fatto uccidere dal direttore perché intenzionato a rivelare l’innocenza di Dufresne, con la probabile scarcerazione di quest’ultimo e la conseguente perdita del prezioso consigliere per Norton.
Il pensiero di Andy, a quel punto, è solo per la libertà. E così, dopo esser riuscito, durante un ventennio, con un martelletto da minerali procuratogli da Red a scavare un cunicolo nella parete della cella, riesce ad evadere; spacciandosi come il titolare del conto bancario creato per ripulire gli illeciti profitti di Norton (che, denunciato, intanto si è sparato al momento dell’arresto), si procura il denaro per poter andare a vivere tranquillo e ricco su di una spiaggia messicana. E’ là che, finalmente beneficiando di una riduzione di pena per buona condotta, lo raggiunge Red.
Il protagonista, interpretato da Tim Robbins, esprime – in termini attoriali – il pensiero di Seneca[1], una libertà intesa in senso interiore e non tanto come libertà sociale. Per Seneca, come del resto per gli Stoici, il concetto di libertà si identifica con il concetto di liberazione da tutte le forme di schiavitù che opprimono l’interiorità dell’uomo. La libertà della persona, a partire da Epitteto e Marco Aurelio, diviene un dogma: occorre insegnare, dunque, come conservare tale libertà, uno dei beni fondamentali della vita. “La libertà è preferibile alla stessa vita”, perché senza libertà l’uomo perde quell’elemento che caratterizza meglio la sua felicità e serenità: l’uomo, solo se mantiene e integra la sua libertà può essere al sicuro da tutti quei danni che ogni intervento esterno gli provoca. Per raggiungere tale stato è necessario crearsi un criterio di giudizio e di distinzione tra bene e male, senza lasciarsi influenzare dall’ambiente circostante. La sua libertà va oltre l’apparenza perché poggia su radici ben profonde. Così per Andy Dufresne: il suo stato di uomo libero, radicato nel profondo della sua anima, in qualche modo immune dall’ambiente, gli consentirà di sopravvivere a quell’inferno di prigione. Al termine del film si percepisce come lo status di uomo libero è una conseguenza di un passaggio fondamentale: da uomo a uomo migliore. Percezione non presente negli altri prigionieri, ormai istituzionalizzati. Una condizione abitudinaria che fa percepire loro la vita all’interno del carcere come decisamente migliore rispetto a quella da uomo libero. Non sanno più vivere al di fuori. Sembra quasi essere un peso insostenibile. E mentre Andy non si fa governare dalla rassegnazione, gli altri sono ormai alla sua mercé. Un esempio significativo può rinvenirsi nella vicenda dell’anziano bibliotecario, il quale, collocato in libertà vigilata dopo decenni di detenzione, sentendosi disadattato all’interno della società che lo vede come reietto, decide di farla finita impiccandosi.
Il film si svolge per tutta la sua durata, salvo la scena finale, all’interno di una prigione nella quale i suoi detenuti sono spesso maltrattati, oggetto di violenza, tra i detenuti stessi ma anche e soprattutto ad opera di coloro che in realtà dovrebbero far rispettare la legge. E qui viene in rilievo il tema della pena.
Alla pena il filosofo Platone dedica notevole attenzione, e nel suo Protagora troviamo l’esposizione più celebre e più chiara delle possibili ragioni per le quali uno Stato può infliggere ai propri cittadini un male, qual è ovviamente la pena in tutte le sue possibili forme e gradazioni. Nel dialogo, Protagora, uno dei primi e più celebri sofisti, discute con Socrate sviluppando il seguente tema: “Può la virtù essere insegnata?”. Per Protagora la risposta è positiva, e la prova sta, appunto, nella pena: “E se vorrai considerare, Socrate, ciò a cui mira il punire chi commette ingiustizia, questo ti dimostrerà, di per sé, che veramente gli uomini sono convinti che la virtù si possa acquistare. Nessuno infatti punisce coloro che commettono ingiustizie in considerazione e a motivo del fatto che commisero ingiustizia: chiunque, almeno, non si abbandoni a irrazionale vendetta come una belva [corsivo mio]. Ma chi cerca di punire secondo ragione, non punisce a motivo del delitto trascorso – infatti non potrebbe certo ottenere che ciò che è stato fatto non sia avvenuto –, ma in considerazione del futuro, affinché non commetta nuovamente ingiustizia quello stesso che viene punito, né altri che vedano costui punito” (324 a-b). La giustizia, insomma, è “prospettiva”, non “retrospettiva”. [2]
La pena non è retribuzione. Nelle parole del Protagora platonico si trova la prima critica alla teoria retributiva, che a distanza di secoli ritroveremo in autori come Cesare Beccaria o Jeremy Bentham.
Non è facile parlare del carcere, del carcere come tale, senza avvertire tutta la contraddizione ch’esso introduce nel più venerato tra i principi dell’attuale nostro vivere civile. Che vi sia un rapporto di derivazione diretta tra struttura sociale e sistema delle pene è una verità che, dal celebre studio di Michel Foucault,25 non può essere messa in dubbio. Parlando del carcere non parliamo solo dei carcerati: parliamo in primo luogo di noi stessi. Non ce ne si rende conto facilmente. Di solito si ragiona come se ci fossimo noi e loro, distanti gli uni dagli altri. È facile cedere all’illusione e al preconcetto.
È possibile una soluzione che liberi dalla spirale della vendetta, comunque civilizzata o modernizzata, e che ci permetta di ripetere la formula benaugurante con la quale Eschilo saluta l’instaurazione della giustizia mediante il nuovo tribunale? È cioè possibile (per citare il drammaturgo ateniese) una giustizia «insensibile alle lusinghe del denaro, degna di rispetto, di animo severo, e che agisca come vigile baluardo per la cittadinanza» (Eumenidi, vv. 704- 06)?
Per argomentare in margine a questi interrogativi, può essere utile riferirsi a una fra le numerose immagini della giustizia che ritornano con molta frequenza nella tradizione iconografica, già a partire dal tardo Medioevo e dal Rinascimento. Secondo questa ricca e ininterrotta tradizione, la giustizia è rappresentata come una donna accompagnata sempre da tre simboli: la bilancia, la spada e la benda. Ebbene, la giustizia riparativa può funzionare solo a patto di un’immagine totalmente rinnovata di giustizia, rinunciando contemporaneamente ai tre simboli con i quali è abitualmente proposta l’immagine tradizionale.[3]
Il presupposto fondamentale su cui si basa qualsiasi tentativo di superamento dei modelli retributivi e rieducativi è la consapevolezza dell’impossibilità di pervenire a una prospettiva onniesplicativa, pienamente soddisfacente sul piano teorico e risolutiva sul piano della prassi giudiziaria.
Sia il modello retributivo sia quello rieducativo convergono nell’essere espressione di concezioni filosofiche generali, addirittura di visioni cosmologiche complessive, secondo le quali la giustizia come relazione fra gli uomini è un riflesso delle relazioni che governano il cosmo – la legge positiva è in una certa misura il riflesso di una legalità che appartiene al funzionamento dell’universo.
Daniele Onori
[1] Seneca, Epistola 47 ad Lucilium
[2] Sul Protagora, e più in generale sulle teorie greche della pena, cfr. da ultimo D. Cohen, Theories of Punishment, in The Cambridge Companion to Greek Law, a cura di M. Gagarin e D. Cohen, Cambridge 2005, pp. 170-190. Specificamente dedicati al diritto penale in Platone, M.M. Mackenzie, Plato on Punishment, Berkeley 1981; T.J. Saunders, Plato and the Athenian law of theft, in Nomos. Essays in Athenian law, politics and society, a cura di P. Cartledge, P. Millet e S. Todd, Cambridge 1990, pp. 63-82, e quindi, dello stesso autore, Plato’s Penal Code. Tradition, Controversy, and Reform in Greek Penology, Oxford 1991.
[3] Per la proposta di eliminare la spada, come simbolo di una giustizia esercitata tramite la violenza, cfr. Grazia Mannozzi, La giustizia senza spada. Uno studio comparato su giustizia riparativa e mediazione penale, Giuffrè, Milano 2003.