Nei suoi componimenti si rinvengono tracce della giovanile formazione giuridica, poiché la famiglia intendeva avviarlo alla carriera forense, e in particolare ai reati del veneficio e della proditio.
1. Poeta elegiaco, Properzio interpreta al meglio, insieme con Catullo, la poesia amorosa della latinità classica. Nato in Umbria, probabilmente ad Assisi, fra 50 a.C., da famiglia benestante di rango equestre caduta in disgrazia a seguito della repressione della rivolta italica del 41-40 attuata da Augusto (guerra di Perugia), si trasferì a Roma per tentare la carriera forense. L’attitudine poetica lo fece invece frequentare i circoli mondano-letterari e, dopo il riconoscimento ottenuto con la pubblicazione nel 28 a.C. del suo primo libro di elegie (Monòbiblos), fu accolto persino nel circolo di Mecenate ove strinse amicizia con alcuni dei massimi poeti del tempo vicini alla corte imperiale, da Virgilio a Ovidio. Le pubblicazioni del II e del III libro delle elegie avvennero nel 25 a.C. e nel 22 a.C., mentre risale attorno al 16 a.C. quella del IV ed ultimo libro, probabile anno anche della morte del poeta.
L’intensa storia d’amore vissuta con una donna, Cinzia, quasi sicuramente un nome fittizio, impronta interamente i primi due libri dell’opera di Properzio: egli, rifiutando i temi civili, si rifugia qui nell’otium del servizio amoroso, idealizzato e filtrato attraverso il mondo dei miti. Il terzo libro, ove compaiono temi diversi, è legato solo in parte a Cinzia, il difficile rapporto con la quale si chiude alla fine della medesima raccolta con un addio. Il quarto libro (le cosiddette Elegie romane), volto a cantare le origini dei nomi, dei miti e dei culti di Roma, vede l’abbandono dell’elegia d’amore e la comparsa dell’impegno civile; non mancano tuttavia alcuni componimenti di elogio dell’eros coniugale e di esaltazione degli affetti familiari.
Nell’opera poetica di Properzio si rivengono tracce della sua formazione giuridica, e in particolare alcuni aspetti del diritto penale della Roma repubblicana, gli illeciti costituiti dal veneficio e dalla prodito, che vengono richiamati nell’opera elegiaca del poeta latino.
2. Veneficio. Nell’81 a.C. la lex Cornelia de sicariis et veneficiis, fatta votare da Silla, introdusse, o più probabilmente riorganizzò, una quaestio capitale avente per oggetto la persecuzione di diverse forme di attentato all’altrui vita: omicidio doloso, porto d’armi a scopo di omicidio o di furto, incendio doloso, fabbricazione, somministrazione o vendita di sostanze venefiche al fine di uccidere. La legge deferì al giudizio della quaestio, tra le altre fattispecie, anche il veneficio. Un rapido cenno al veneficio si rinviene in Properzio 2.32.27: non tua deprenso damnata est fama veneno. In tale passo il poeta, nel parlare della sua amata Cinzia, dedita ad una vita moralmente corrotta, afferma, tuttavia, che la medesima tra i vari peccati commessi non può certo essere accusata di veneficio. Properzio si serve dunque di una grave fattispecie giuridica – l’omicidio causato dal veleno – per mostrare ironicamente che la donna che ama, ancorché dai facili costumi, non è giunta mai a tanto.
A partire dall’età repubblicana nel sistema giuridico-religioso romano si distinguono due ordini di fatti illeciti, i crimina e i delicta; sono entrambi illeciti penali, nel senso che ambedue danno origine a una sanzione punitiva per il reo, ma sono distinti quanto alla forma di persecuzione processuale, che nel caso dei crimina si attua con le forme della repressione pubblica, mentre nei delicta con le forme del processo privato[1]. In questa fase il diritto penale sostanziale – riferito d’ora in poi ai crimina – non riceve nuovi impulsi fino all’emanazione della lex Cornelia de sicariis et veneficis.
Nuovo e decisivo impulso al diritto penale romano, nell’ottica dell’elemento soggettivo, viene conferito dalla lex Cornelia de sicariis et veneficis[2]. Questa legge, che unifica due distinte quaestiones operanti in tema di omicidio in epoca presillana, deferisce ad apposito tribunale gli omicidi commessi con uso di armi o di sostanze venefiche (non esistendo armi da fuoco, il veleno era il mezzo più usato): accanto all’omicidio sono punite tutta una serie di altre condotte (dal portare armi in luogo pubblico allo scopo di compiere assassini o saccheggi, all’incendio doloso e alle attività intese a ottenere, in un processo capitale, la pronuncia di una condanna ingiusta) che possono sì portare alla morte di altri uomini (e in questo senso sono atti preparatori), ma che vengono punite per sé stesse e non quali atti di tentativo.
Per la dottrina penalistica tedesca di fine XIX secolo – non solo Löffler, ma anche Klee, von Bar e Binding – questa legge rappresenta un punto di svolta nella considerazione dell’elemento soggettivo. La volontà malvagia (böse Wille), che nella precedente legislazione non rilevava, assume un ruolo preminente. Per il diritto romano classico vale da ora il principio che il fondamento della responsabilità penale risiede nella volontà[3]. Si sostiene addirittura che questa trasformazione della concezione di responsabilità, operata dalla lex Cornelia e dalla successiva giurisprudenza, rappresenta uno degli snodi più importanti della storia del diritto.
I motivi di questa trasformazione della concezione di responsabilità vengono ravvisati nella nuova struttura statale e nell’influsso della filosofia greca[4]. Riguardo all’influsso della filosofia greca, nel complesso la Schuldlehre del diritto penale romano è ritenuta una ben riuscita trasmissione nel campo giuridico dei principi dell’etica di Aristotele.
3. Proditio. Nella quarta elegia dell’ultimo libro, Properzio richiama il tradimento della patria (nel caso specifico, la proditio) , con riferimento al mito di Tarpea[5], legato a un crimine antichissimo, previsto in una non meglio precisata legge regia (esplicitamente definita nomos)[6], attribuita da Dionigi di Alicarnasso al regno di Tullo Ostilio.
Nei suoi versi, composti fra il 23 e il 16 a.C., Properzio arricchisce il mito di dettagli: lo colloca cronologicamente nella notte che precede il giorno dei Parilia, la festa che celebra la nascita di Roma il 21 aprile, e soprattutto, come già Varrone, rappresenta Tarpea come una sacerdotessa vestale, innamoratasi di Tito Tazio. Sicché il tradimento del popolo romano, se da un lato è aggravato dalla violazione dei precetti di verginità connessi al sacerdozio della dea Vesta, dall’altro risulta sensibilmente attenuato dalla passione che travolge la vergine per il re sabino.
Fra le pieghe properziane resta comunque la tradizione che rimonta alla prima annalistica: Tarpea tradisce Roma (v. 87: Prodiderat portaeque fidem patriamque iacentem), i Sabini ne approfittano ma disdegnano la traditrice (v. 89: neque enim sceleri dedit hostis honorem) e la condannano a una morte violenta, che passa attraverso la sepoltura sotto gli scudi. Una morte che, commenta lo stesso Properzio facendosi portatore di un biasimo che doveva essere di percezione comune in Roma, è la giusta ricompensa dei servigi resi da Tarpea (v. 92: Haec, virgo, officiis dos erat apta tuis). Ancora più interessante è l’ultimo distico del componimento properziano (vv. 93-94: A duce Tarpeia mons est cognomen adeptus. / O vigil, iniustae praemia sortis habes), in cui retributive della condotta infame di Tarpea non sono soltanto la morte e il turpe sepulcrum citato al v. 1, ma anche il fatto che il colle abbia preso il nome di lei.[7]
Qui Properzio riflette, nel suo poetare che si fa sfumato, la plurivalenza – nella società romana del proprio tempo – del mito di Tarpea; il sintagma iniusta sors può infatti alludere al trattamento sleale riservato alla donna da Tito Tazio, e dunque al tradimento che è ripagato con il tradimento, come pure alla casualità che ella si fosse innamorata di un nemico, ma nondimeno all’ingiusta sorte di avere per sempre il nome di quel luogo di cui ella era stata cattiva custode. Insomma, nel panorama delle fonti le tradizioni si mescolano, e pur nella diversità di dettagli intorno al mito di Tarpea rimane ferma l’immagine del tradimento.
Daniele Onori
[1] Sul tema VOCI P., Risarcimento e pena privata nel diritto romano classico, Milano 1939, 94 ss
[2] Il testo della legge Cornelia ci viene riferito, tra gli altri, da Marciano in D. 48.8.1 pr. (14 inst.): “Lege Cornelia de sicariis et veneficis tenetur, qui hominem occiderit: cuiusve dolo malo incendium factum erit: quive hominis occidendi furtive facendi causa cum telo ambulaverit: quive, cum magistratus esset publicove iudicio praeesset, operam dedisset, quo quis falsum indicium profiteretur, ut quis innocens conveniretur condemnaretur. Praeterea tenetur, qui hominis necandi causa venenum confecerit dederit: quive falsum testimonium dolo malo dixerit, quo quis publico iudicio rei capitalis damnaretur: quive magistratus iudexve quaestionis ob capitalem causam pecuniam acceperit, ut publica lege reus fieret.” Si potrebbe tradurre così: «È tenuto in base alla Legge Cornelia sui sicari e gli avvelenatori chi uccide un uomo: o chi provoca dolosamente un incendio: ovvero chi, per commettere un omicidio o un furto, va armato: o chi, essendo magistrato o presiedendo ad un pubblico giudizio, opera in modo che qualcuno faccia false dichiarazioni per condannare chi è innocente. Inoltre è tenuto [scil. in base alla legge Cornelia] chi prepara o somministra veleno per uccidere un uomo: ovvero chi dolosamente dica falsa testimonianza, così da far condannare qualcuno alla pena capitale in un pubblico processo: ovvero chi, magistrato o giudice per una causa capitale accetti denaro per far accusare taluno per legge pubblica».
[3] G. De Muro, Alle origini del concetto di dolo: dall’etica di Aristotele al diritto penale romano, in Diritto e Storia N. 5 – 2006 – Contributi
[4] Secondo M. Talamanca, Lo schema ‘genus-species’ nelle sistematiche dei giuristi romani, in La filosofia greca e il diritto romano, Atti del colloquio italo-francese, Roma 14-17 aprile 1973, II, Roma 1977, 3, nell’ambito della letteratura romanistica il rapporto tra la filosofia greca e il diritto romano si risolve più concretamente nei rapporti tra il pensiero filosofico greco e le singole personalità scientifiche dei giuristi romani. La filosofia greca entra in Roma con il sorgere della letteratura latina (seconda metà del III sec. a.C.): sul tema, GARBARINO G., Roma e la filosofia greca dalle origini alla fine del II secolo A.C., I, Torino 1973, 1 ss
[5] Dopo alcuni anni dalla sua fondazione, Roma aveva subito dai Sabini un attacco, e questa fu senza dubbio la più importante fra le guerre combattute sino a quel momento: i Sabini non agirono infatti mossi da risentimento o ambizione, ma in modo fraudolento e lucido. Sicché la figlia di Spurio Tarpeio, il romano che comandava la cittadella (l’arx), finì per essere corrotta dall’oro del re sabino Tito Tazio e fu indotta a far entrare un drappello di Sabini armati all’interno della fortezza. Ella aveva infatti incontrato i Sabini mentre andava fuori dall’arx ad attingere acqua per i culti rituali e sarebbe stata attratta dai braccialetti d’oro che i Sabini erano soliti portare al braccio sinistro insieme con anelli tempestati di gemme: la ragazza avrebbe dunque pattuito come prezzo del suo tradimento «ciò che essi portavano al braccio sinistro». Per parte loro, i Sabini, dopo essere entrati nell’arx, avrebbero sepolto la ragazza sotto i loro scudi, che pure portavano al braccio sinistro. A tale condotta fraudolenta dei Sabini Livio dava due spiegazioni: sia il voler trasmettere l’idea che la cittadella fosse stata conquistata più con la forza che con qualsiasi altro mezzo, sia il voler fornire un esempio in modo che più nessun traditore potesse contare sulla parola data (seu prodendi exempli causa ne quid usquam fidum proditori esset). Ovviamente su questi giudizi, e in particolare sul secondo, pare gravare una valutazione moraleggiante formulata ex post da Tito Livio, che avrebbe riflettuto un giudizio di disvalore nei confronti di Tarpea, che usciva dunque rappresentata dal resoconto dello storico della propaganda augustea come una traditrice del popolo romano, pur facendone parte
[6] Cfr. G. Franciosi (cur.), Leges regiae, Napoli 2003, p.131.
[7] Di più difficile interpretazione è invece il Tarpeium nemus pure menzionato in Prop. 4.4.1 (Tarpeium nemus et Tarpeiae turpe sepulcrum); da taluni nemus è corretto in scelus, stabilendo così un nesso tra colpa e punizione. Tuttavia, poiché una delle tipicità della poesia eziologica è quella di trarre spunto da un luogo-oggetto, la lezione nemus pare poter essere ritenuta coerente al contesto spazialetopografico del versante del clivo capitolino su cui insisteva la rupe che da Tarpea avrebbe preso il nome, come ha ben messo in evidenza C. Conese, Properzio 4.4: topografia di un mito, «Prometheus» 44, 2018, pp. 149-166.