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A differenza di quanto riscontrato in Catullo e Properzio, nell’opera di Tibullo non si rinviene un impiego ricorrente della terminologia giuridica o di espressioni riconducibili, almeno in una certa misura, a istituti giuridici. Nei suoi versi però si ritrova una testimonianza di carattere squisitamente giuridico riguardo al sacrilegium, su cui vale la pena soffermarsi.

1. La biografia di Tibullo è avvolta nell’incertezza. Si leggono allusioni alla sua vita e alla sua opera in Orazio, in Domizio Marso, un epigrammista dell’età augustea, in Ovidio, e in ciascuna vi è un senso di simpatia per l’uomo e per l’opera. Orazio gli indirizzò quasi certamente l’ode I, 33, in cui è cenno di una certa Glicera, crudele verso il poeta, da taluni (Plessis, Cartault, Ponchont, Riposati, ecc.) identificata con l’innominata puella di Tibullo, III, 19 e 20.

Nell’ode oraziana si parla pure dei miserabiles elegi del poeta, cogliendo dunque il tono di mestizia che percorre le elegie tibulliane. Più interessante è l’epistola I, 4 dello stesso Orazio: un vero e proprio biglietto indirizzato all’amico poeta, che fornisce particolari sull’uomo Tibullo, presentato come una persona schietta, dotata di bellezza, di ricchezza e dell’arte di saperne godere, con una tendenza epicurea non disgiunta da un equilibrio di vita e di pensiero.

Con questo ritratto oraziano si accorda la Vita anonima, che nei codici del Corpus Tibullianum segue a un epigramma di Domizio Marso scritto per la morte del poeta. Questa Vita, assai succinta, è da taluno (Rostagni) fatta risalire a Svetonio, mentre da altri (Paratore) viene svalutata. Comunque alcuni elementi appaiono sicuri: la bellezza e la raffinatezza dell’aspetto e il contubernium con Valerio Messalla durante la spedizione contro gli Aquitani. Nella Vita è detto pure che Tibullo è nativo di Gabii, villaggio del basso Lazio, regione alla quale si riferisce Orazio nell’epistola citata.

A Gabii Tibullo nacque fra il 60 e il 50 a. C.: i più ritengono nel 54, fondandosi sulle indicazioni offerte dalla Vita e dall’epigramma di Marso. Quella riferisce che Tibullo morì adolescens, questo che morì iuvenis: e dal momento che nell’epigramma è detto pure che Tibullo seguì nella tomba Virgilio, morto sicuramente nel 19 a. C., se ne deduce che egli morì lo stesso anno o l’anno seguente, all’età di circa 35 anni. La tradizione manoscritta ci ha tramandato sotto il nome di Tibullo tre libri di elegie; il primo libro ne contiene dieci; il secondo sei; il terzo venti. A partire dal sec. XV il terzo libro è stato diviso in due parti, così da formare un terzo libro di sei elegie e un quarto di quattordici elegie[1].

2. Il sacrilegio è la sottrazione, o in genere la violazione, di res sacrae o religiosae. Non è chiaro quali siano i precisi confini di tale crimen, tuttavia è certo che fin dall’età più antica la fattispecie era sanzionata gravemente, perfino con la morte. Tibullo, la cui opera – come detto – non presenta un uso ricorrente della terminologia giuridica, impiega tuttavia l’espressione manus sacrilegas (el. 2.4.26) riguardo a una situazione che effettivamente descrive la violazione di res sacrae: il che induce a ritenere che il richiamo al sacrilegium sia pertinente. Inoltre la circostanza per cui perfino Tibullo, il quale evidentemente non sembra avere particolari conoscenze giuridiche, né interessi in tal senso, richiami il sacrilegio, sembra deporre a favore di una consapevolezza diffusa della natura e della portata di tale crimen come fattispecie molto grave. Osserviamo, dunque, el. 2.4.21-26: At mihi per caedem et facinus sunt dona paranda, / ne iaceam clausam flebilis ante domum; aut rapiam suspensa sacris insignia fanis; / sed Venus ante alios est violanda mihi: / Illa malum facinus suadet dominam que rapacem / Dat mihi: sacrilegas sentiat illa manus.

Il passo s’inserisce nel seguente contesto: costretto in catene dal dio Amore e dall’avara puella, Tibullo confessa la situazione di triste servitium in cui è caduto. Il rinnegamento delle Muse (v. 15-20) è la prima manifestazione di una metamorfosi inesorabile, che trasforma il Tibullo pacifico (delle altre elegie) in un Tibullo sacrilego, pronto a profanare santuari e a compiere ogni empietà pur di soddisfare l’avidità della domina rapax. Egli, infatti, si appropria delle tavolette votive appese nei santuari (suspensa sacris insigna) e profana il tempio di Venere. Di conseguenza, Tibullo stesso si definisce sacrilego: il che è corretto sotto il profilo giuridico.

3. Numerose sono le riflessioni che, nel tempo, si sono sedimentate con riguardo alla natura e all’appartenenza delle cose affini alla pratica religiosa, ossia quei beni contraddistinti da un uso destinato a soddisfare la dimensione trascendente della società romana. Il nesso che tali beni avevano con gli dei riconosciuti dalla civitas comportava che il loro regime fosse informato dai principi propri dello ius sacrum, volti a proiettare l’ordinamento religioso dell’Urbe verso il fine ultimo della salvaguardia della pax deorum.

Proprio il mantenimento dell’ordine cosmico era l’effetto della relazione sinallagmatica instauratasi tra gli uomini e i numi, in una concezione dell’esercizio cultuale incentrata sulla visione utilitaristica: il rapporto con le divinità riprendeva la struttura corrispettiva del contratto, là dove all’adempimento dei doveri da parte degli uomini avrebbe dovuto seguire l’assicurazione della pietas per opera delle entità celesti. L’amicitia con gli esseri soprannaturali richiedeva «uno stato continuo di purezza rituale»[2] quindi era dirimente per il preservarsi della stessa che le res volte a garantire il culto degli dei fossero poste in una condizione di particolare protezione, attuata, innanzitutto, attraverso la separazione delle stesse dalle entità fisiche profane. In questo contesto si inserisce la summa divisio rerum posta da Gaio in apertura del secondo libro delle Institutiones, in cui è scolpita la dicotomia tra res divini iuris e res humani iuris[3].

Le prime si distinguevano in res sacrae, ‘quae diis superis consecratae sunt’, e in religiosae, ‘quae diis Manibus relictae sunt[4]. Il giureconsulto non traccia solo la definizione generale, ma aggiunge ulteriori dettagli: cosicché in Gaio 2.5 è puntualizzato che si considerava sacrum solo ciò che era consacrato ‘ex autoritate populi Romani’, in forza dell’emanazione di una legge o di un senatoconsulto, mentre nel frammento successivo è chiarito come la qualifica di religiosum dipendesse da una manifestazione di volontà, resa attraverso il seppellimento di un defunto in locum nostrum, nel caso in cui il soggetto fosse titolare del ius inferendi mortuum, vale a dire se l’organizzazione del funerale fosse di sua pertinenza[5].

4. Era però dai più ritenuto – si legge sempre nelle Istituzioni – che un luogo non diventasse religiosum in suolo provinciale, poiché su di esso il dominium era soltanto del popolo romano o di Cesare, essendo concessi agli uomini unicamente il possesso e l’usufrutto; tuttavia quel terreno, pur non essendo religioso, era considerato della medesima qualità. Allo stesso modo, quel che nelle province non veniva consacrato ex auctoritate populi Romani, non era propriamente sacrum, ma al pari era trattato[6].

Quanto al regime giuridico, il giureconsulto ritiene che le res divini iuris fossero ‘nullius in bonis’, a dispetto di quanto rientrava nello ius humani, che in massima parte era in godimento di alcuno[7].

I principi classici che informano il regime giuridico delle res sacrae traevano forma dalla struttura della religione romana e riflettevano il rapporto di dipendenza a cui la stessa era astretta con la civitas, la quale poteva scegliere le divinità da includere nel suo Pantheon e quelle da escludere, fornendo per l’esecuzione delle cerimonie religiose il personale sacerdotale, incluso tra i pubblici funzionari[8]. Per i Romani non costituiva un problema che la sfera del sacro e quella del profano venissero tuttavia rinchiuse all’interno di sistemi normativi retti dalla medesima logica di fondo: d’altronde, l’insieme dettagliato di regole e precetti, definito come legalismo religioso[9], permetteva di normalizzare, e così controllare, quanto apparteneva all’ordine trascendente.

Daniele Onori


[1] Schematicamente tutto il Corpus Tibullianum, come ormai si suole definirlo, può essere così distinto: a) libro I; b) libro II; c) libro III, 1-6; amore di Ligdamo, l’autore del piccolo canzoniere, per Neera; III, 7 (= IV, 1), il cosiddetto Panegyricus Messallae; III, 8-12 (= IV, 2-6) e 13-18 (= IV, 7-12), amore di Cerinto e Sulpicia; III, 19 e 20 (= IV, 13- 14), una breve elegia e un epigramma, quasi sicuramente di Tibullo, per una fanciulla ignota. In particolare, III, 9-12 sono elegie che trattano di Cerinto e III, 13-18 sono brevi biglietti amorosi indirizzati da Sulpicia a Cerinto: il tutto costituisce una specie di breve romanzo d’amore.

[2] Cfr. P. Voci, Diritto sacro romano in età arcaica, in SDHI, XIX, 1953, 53

[3] La divisione fondamentale tra le cose di diritto umano e quelle di diritto divino non è frutto dello sforzo classificatorio di Gaio, essendo assai radicata nella cultura romana. Tracce di essa sono rinvenibili in altre parti del Digesto, specie in materia di interdetti, ossia in Ulp. 67 ad ed. D. 43.1.1 pr.: sciendum est interdicta aut de divinis rebus aut de humanis competere. divinis, ut de locis sacris vel de locis religiosis. de rebus hominum interdicta redduntur aut de his, quae sunt alicuius, aut de his, quae nullius sunt. Nonché in Paul. 63 ad ed. D. 43.1.2.1: Interdicta autem competunt vel hominum causa vel divini iuris aut de religione, sicut est ‘ne quid in loco sacro fiat’ vel ‘quod factum est restituatur’ et de mortuo inferendo vel sepulchro aedificando. Anche le fonti letterarie non mancano di richiamare questa differenziazione: per un catalogo esaustivo delle stesse, cfr. F. Fabbrini, voce ‘Res divini iuris’, in Noviss. dig. it., XV, Torino, 1968, 514, nt. 1.

[4] Cfr. Gai 2.4: Sacrae sunt quae diis superis consacratae sunt; religiosae quae diis Manibus relictae sunt.

[5] A. Ramon, L’appartenenza E La Gestione Delle ‘Res Sacrae’ In Età Classica, Tomo I, Napoli 2016.

[6] Cf. Gai 2.7: Sed in provinciali solo placet plerisque solum religiosum non fieri, quia in eo solo dominium populi Romani est vel Caesaris, nos autem possessionem tantum et usumfructum habere videmur; utique tamen, etiamsi non sit religiosum, pro religioso habetur: item quod in provinciis non ex auctoritate populi Romani consecratum est, proprie sacrum non est, tamen pro sacro habetur.

[7] Cfr. Gai 2.9: Quod autem divini iuris est, id nullius in bonis est: id vero, quod humani iuris est, plerumque alicuius in bonis est; potest autem et nullius in bonis esse: nam res hereditariae, antequam aliquis heres existat, nullius in bonis sunt. Il medesimo regime è indicato anche nelle Istituzioni giustinianee, come si legge in I. 2.1.7: Nullius autem sunt res sacrae et religiosae et sanctae: quod enim divini iuris est, id nullius in bonis est.

[8] Cfr., P. Bettini, ‘Fas’, in Giuristi nati. Antropologia e diritto romano, a cura di A. McClintock, Bologna, 2016, 35 ss.

[9] Cfr. P. Voci, op cit., 50

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