Per Freddy Gale il 17 agosto è una data che gli ricorda un evento terribile: alcuni anni prima il giovane John Boothe guidando l’automobile in stato di ebbrezza ha investito ed ucciso sua figlia, la piccola Emily, l’unica persona importante della sua vita. Questo avvenimento ha turbato Freddy a tal punto da divorziare dalla moglie Mary lasciando a lei la casa e gli altri due figli molto amati. Freddy gestisce una piccola gioielleria, ma le serate le passa nei bar ubriacandosi e le nottate le trascorre con Mia, la sua “compagna” abituale. Il suo odio per Boothe non ha ceduto mai e l’uomo ne è ancor più intossicato che dal whisky. Egli ha pertanto deciso: ucciderà la fonte di tutti i suoi guai…
- Per Freddy Gale (Jack Nicholson:) il 17 agosto è una data che gli ricorda un evento terribile: alcuni anni prima il giovane John Boothe (David Morse) guidando l’automobile in stato di ebbrezza ha investito ed ucciso sua figlia, la piccola Emily.
Questo avvenimento ha turbato Gale a tal punto da divorziare dalla moglie Mary (Anjelica Huston) lasciando a lei la casa e gli altri due figli molto amati. Gale gestisce una piccola gioielleria, ma le serate le passa nei bar ubriacandosi e le nottate le trascorre con Mia, la sua “compagna” abituale. Il suo odio per Boothe non ha ceduto mai e l’uomo ne è ancor più intossicato che dal whisky.
Egli ha pertanto deciso: ucciderà la fonte di tutti i suoi guai. Durante la notte si introduce nella camera di Boothe (da poco uscito dal carcere, dove ha scontato la sua condanna, ma ancora preda di un fortissimo senso di colpa): questi, sorpreso nel sonno e davanti ad un’arma, riesce ad ottenere dal suo aggressore una pausa di riflessione. Gale cede e rinvia l’esecuzione di tre giorni, al termine dei quali, però, lo cerca nuovamente per ucciderlo. Boothe, nel frattempo, ha trovato lavoro a bordo di un peschereccio. Qui incontra una splendida giovane, Joio: John ne rimane di colpo affascinato e racconta a costei tutta la sua storia, nonché l’accordo che metterà fine alla sua esistenza alla scadenza minacciata.
Gale, in un colloquio con la sua ex moglie e con Roger, il nuovo marito di quest’ultima, mette a conoscenza entrambi del suo programma omicida, che però la coppia non condivide. Ma Freddy è determinato, sebbene ubriaco. Messosi alla guida, viene fermato da una pattuglia della Polizia, che gli sequestra pure l’arma rinvenuta nell’auto, con la stessa imputazione mossa a suo tempo a Boothe. Sfuggito nella notte agli agenti, Freddy penetra nella cameretta di una bambina che lo protegge con il suo silenzio dagli inseguitori e così riesce a darsi alla fuga.
A quel punto si dirige verso la casa del suo nemico Boothe. Anche John è armato, ma una volta al cospetto di Feddy esita e non ha la forza di sparare e si allontana fuggendo.
I due corrono nella notte a piedi: sembra che Freddy possa vincere la lunga partita, ma si ritrovano in uno spazio del terreno vicino alla città, dove sull’erba spicca una piccola lastra commemorativa della morte di Emily. Tutta la carica di violenza e di vendetta nutrita per anni da Freddy appare improvvisamente estinta. Sulla lastra le mani dei due uomini si incontrano e si stringono. - Lavoro drammatico, condotto con tensione costante e verosimiglianza. Il desiderio di vendetta di un padre risponde ad una logica amara ed ossessiva. Ciò che tuttavia il film ha di più interessante è il senso di colpa celato nei meandri della personalità del giovane investitore.
Il concetto di colpa è imprestato alla filosofia dalle scienze giuridiche e in particolare dal diritto penale, assumendo forma concettuale cogente solo dopo Beccaria; lì viene indicata come un’infrazione involontaria di quanto prescritto dalla legge da contrapporsi al delitto che è un’infrazione volontaria.
Kant stesso la definisce come “… una trasgressione involontaria ma imputabile si chiama colpa; una trasgressione volontaria (cioè unita alla coscienza) si chiama delitto“[1].
Karl Jaspers, sull’onda dell’ontologia esistenzialista di Heidegger, che aveva definito la colpa come un concetto assolutamente non eliminabile dalla costituzione dell’essere umano e della sua esistenza, definisce la colpa come una specie di situazione di limite dell’esistenza, osservando che “nella mia situazione sono responsabile di ciò che accade per non essere intervenuto, e se non faccio ciò che posso fare, mi rendo colpevole delle conseguenze che derivano dalla mia astensione. Pertanto, sia l’azione sia la non-azione implicano delle conseguenze, per cui in ogni caso io sono inevitabilmente colpevole“.[2]
Del resto lo stesso Heidegger alcuni anni prima, nel 1927 aveva detto che “questo esser-colpevole costituisce la condizione ontologica della possibilità dell’Esserci di poter, esistendo, divenire colpevole. Questo esser-colpevole essenziale è cooriginariamente la condizione esistenziale della possibilità del bene e del male “morale”, cioè della moralità in generale e della possibilità delle sue modificazioni particolari“. [3]
Si può anche dire, però, che forse una delle cause dell’insorgere e del manifestarsi del senso di colpa nei nostri comportamenti è da ricercarsi nell’ambito delle relazioni fra gli individui e quindi nelle relazioni parentali della prima infanzia.
È solo di fronte all’altro, al mio simile, che posso sentire tutto il peso delle mie responsabilità e definire le mie colpe eventuali; è l’altro che eventualmente mi fa provare vergogna.
La sensazione del senso di colpa si fonda sul rapporto interumano e questo implica in primo luogo la fondamentale decisione dell’uomo di attribuire senso al creato; non si sente colpa se non si crede nel senso del mondo e, soprattutto, in una legge scritta nel cuore di ogni uomo.
Cancellare il senso di colpa è, per questa ragione, l’obiettivo di ogni progetto gnostico, di ogni ideologia totalitaria; un obiettivo che si scontra irrimediabilmente con la necessità che ha l’uomo di emendare la propria colpa per riacquistare l’innocenza originaria.
Daniele Onori
[1]Kant, Metafisica dei costumi, (1797), LA TERZA, Bari, 1970
[2] Jaspers, Filosofia, UTET, Torino, 1978, pp. 725-726
[3] Heidegger, Essere e tempo, UTET, Torino, 1978, pp. 424-425