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Nella poesia di Orazio è sorprendente l’uso ripetuto di termini e immagini giuridiche: si tratta di numerosi riferimenti al diritto spesso divertenti e raffinati, tecnicamente precisi, rivolti a pubblici differenziati a seconda dell’istruzione di ciascun lettore, da quella più elementare sino a quella dei giuristi in senso stretto. Il poeta dimostra di conoscere il più antico diritto romano (con particolare riferimento alle XII Tavole), ma anche il diritto a lui coevo, quello sostanziale come quello processuale, il privato come il criminale: molte delle fonti oraziane per tali motivi sono state adeguatamente esaminate dai giusromanisti.

Orazio nacque l’8 dicembre del 65 a.C. a Venosa, colonia romana tra Apulia e Lucania, nell’attuale Basilicata, figlio di un liberto che si trasferì poi a Roma per fare l’esattore delle aste pubbliche (coactor), compito poco stimato ma redditizio. Il poeta era dunque di umili origini, ma di buona condizione economica: di stirpe osca, notoriamente fiera ed indipendente, egli non solo non si vergognò mai del mestiere paterno, ma anzi ne ricordò la figura con orgoglio e riconoscenza (Satire I, 6).

Grazie appunto alla lungimiranza del padre libertinus, Orazio poté seguire un regolare corso di studi a Roma, sotto l’insegnamento del grammatico Orbilio, e poi ad Atene, all’età di circa vent’anni, dove studiò greco e filosofia presso Cratippo di Pergamo. A Napoli ed Ercolano entrò in contatto con la scuola epicurea di Sirone, ove probabilmente divenne amico di Virgilio e Vario; tuttavia, sebbene se ne sentisse particolarmente attratto, per il momento decise di non aderire alla setta.

Sarà solo all’interno dell’ambiente romano che Orazio aderirà alla corrente filosofica, trovando in essa (ed in particolare nel làthe biòsas) una giustificazione teorica dell’otium contemplativo al quale deciderà di dedicarsi in età adulta. Da giovane, invece, scelse l’impegno politico: quando scoppiò la guerra civile si arruolò, dopo la morte di Cesare, nell’esercito di Bruto, in omaggio al proprio ideale di libertà, in antitesi alla tirannide imperante, rappresentata per lui da Cesare e dai suoi successori; combatté quindi come tribunus militum nella battaglia di Filippi (42 a.C.), per così dire “dalla parte sbagliata”, dato che la battaglia fu vinta da Ottaviano e Antonio. Dell’impegno politico del periodo giovanile resta traccia evidente nei suoi Epòdi.

Fu solo grazie ad un’amnistia che nel 41 a.C. tornò in Italia e, come Virgilio, si trovò di fronte alla confisca del podere paterno. Si mantenne quindi come scriba quaestorius (segretario di un questore). Nel 38 a.C. venne presentato a Mecenate da Virgilio e Vario. Dopo nove mesi Mecenate lo ammise nel suo circolo, stringendo con lui un’affettuosa e sincera amicizia destinata a durare fino alla morte. Da allora Orazio si dedicò interamente alla letteratura.

Coerente fino in fondo con i princìpi dell’epicureismo, non si sposò mai e non ebbe figli, come del resto tutti gli esponenti dell’élite culturale facenti capo a Mecenate (in totale contraddizione con la politica di sostegno alla famiglia tradizionale e al mos maiorum promossa da Augusto).

Mecenate gli donò nel 33 a.C. un piccolo possedimento in Sabina, le cui rovine sono ancor oggi visibili nei pressi di Licenza (in provincia di Roma): il dono risultò molto gradito al poeta che, in perfetta osservanza del modus vivendi epicureo, non amava affatto il caos della vita cittadina.

Orazio morì nel novembre dell’8 a.C. all’età di 57 anni, due mesi dopo la morte di Mecenate. Fu sepolto sul colle Esquilino accanto al suo grande amico.

Risale intorno al 34 a.C. la pubblicazione del primo libro delle Satire. Nel 30 a.C., quasi contemporaneamente, vengono pubblicati il secondo libro delle Satire e (dopo lunghissima gestazione) il libro degli Epodi.

Nel 23 a.C. sono divulgati i tre libri delle Odi. Nel 20 è pubblicato il primo libro delle Epistole e nel 18 a.C. l’Epistola a Floro358. Nel 17 a.C., in occasione della celebrazione dei ludi saeculares, Augusto incarica Orazio di scrivere il carmen saecolare. Due anni dopo è pubblicata l’Epistola ad Augusto e nel 13 a.C. si aggiungerà l’Epistola ai Pisoni360, nota come Ars poetica, nonché il quarto libro delle Odi.

Oliviero Diliberto in un recente contributo[1] ha avuto il merito  di richiamare l’attenzione degli studiosi su alcuni passi oraziani dai quali si evince come il poeta impiegasse non pochi riferimenti alla Legge delle XII Tavole a scopo parodistico, dimostrando, al contempo, una non comune conoscenza dell’antica raccolta normativa e, insieme, la consapevolezza che anche il suo pubblico potesse riconoscere quei riferimenti – altrimenti il gioco ironico sarebbe stato evidentemente inutile – senza bisogno che essi venissero spiegati ai lettori (o agli ascoltatori).[2]

Nelle Satire tale uso è particolarmente evidente nella sua misura e qualità: in questo contesto l’evocazione di citazioni giuridiche è finalizzata ad una funzione ironica e/o parodistica, vuole cioè muovere al riso.

Significato e funzione della citazione devono perciò essere compresi dal pubblico, in un gioco di specchi tra autore e fruitore. Di conseguenza, la conoscenza del diritto nel I sec. a.C. appare evidentemente estesa agli ambienti intellettuali colti di Roma, e non riservata ai soli specialisti del mestiere.

La tradizione giuridica e, in alcuni casi, il diritto vigente si manifestano patrimonio peculiare dei romani, un unicum letterario (ma anche culturale e sociale), ed assurgono a strumento funzionale agli intenti poetici: il diritto serve la poesia e nello stesso tempo è parte essenziale di un racconto sulla società romana di quel tempo e i suoi vizi.

Il poeta dimostra di conoscere il più antico diritto romano (con particolare riferimento alle XII Tavole),[3] ma anche il diritto a lui coevo, quello sostanziale come quello processuale, il privato come il criminale: molte delle fonti oraziane in tal senso sono state adeguatamente esaminate dai giusromanisti, dalla celebre satira sul seccatore, ricca di riferimenti alla procedura civile romana (e la celebre citazione dell’antestari), [4] alla disciplina concernente la proprietà privata,[5] ai vizi occulti nella compravendita al mercato,[6] alla materia testamentaria e alle sostituzioni. [7]

In almeno due testi oraziani – anch’essi molto noti – il gioco letterario tra poesia e diritto è scoperto, insistito, chiaramente ricercato.

Consideriamo in primo luogo: Horat., sat. 2.3.179-181 Praeterea ne vos titillet gloria, iure iurando obstringam ambo: uter aedilis fueritve vestrum praetor, is intestabilis et sacer esto. [8]

Un padre cerca di impedire che i figli si dedichino alla politica e li costringe ad un singolare giuramento: se uno di essi diventerà edile o pretore, sarà intestabilis e sacer. L’intento parodistico è chiaro. Ma il riferimento congiunto all’intestabilitas e alla sacertà costituisce chiaramente un riferimento, ancorché non esplicitato (anche nell’imperativo esto), ad antiche e solenni disposizioni legislative: su tutte, appunto, le XII Tavole, che contengono – come ben si sa – entrambe le formule sanzionatorie (tra le disposizioni a noi note: XII tab. 8.21 e 8. 22).[9]

Il secondo testo oraziano che giova esaminare è: Horat., sat. 2.1.7-9 (…) ter uncti transnanto Tiberim, somno quibus et opus alto, inriguumque mero sub noctem corpus habento. [10]

Orazio attribuisce al giurista Trebazio Testa[11],  suo amico, una ricetta per prender sonno, vincendo così l’insonnia: già Fritz Schulz aveva notato che si tratta di un medicamento che ricorda chiaramente «lo stile laconico delle XII Tavole».[12] Quest’ultimo è infatti solenne, arcaizzante, evocativo, ma chiaramente parodistico: una «comic prescription for the insomnia that combines medical and legal phraseology». [13]

Ancora una volta, ci troviamo di fronte ad uno stile che doveva evidentemente ricordare qualcosa al pubblico cui era rivolto[14]:  altrimenti, anche l’effetto satirico non sarebbe stato raggiunto. Il gioco di specchi tra autore e pubblico è, a questo punto, chiaro. Ma nel testo esaminato da ultimo (quello del medicamento contro l’insonnia) entra in scena, direttamente e quale protagonista, un illustre giurista: come ricordato, si tratta di Trebazio Testa, che è personaggio chiave di tutta la prima satira del secondo libro oraziano.

La prima satira del libro secondo riporta un discussione tra Orazio ed il noto giurista romano Trebazio Testa sulle eventuali questioni morali derivanti dalla pubblicazione delle satire, con uno sguardo alle sue possibili conseguenze legali. Alla dottrina non è certo sfuggita la rilevanza della satira in esame[15].

In sat. 2.1.1 ss. Sunt quibus. in satura videar nimis acer et ultra / legem tendere opus; sine nervis altera, quidquid composui, pars esse putat, similisque meorum mille die versus deduci posse. Trebati, quid faciam praescribe[16], il poeta, una volta evidenziato che secondo alcuni i suoi versi supererebbero i limiti tollerati dalla legge (ultra legem), secondo altri, viceversa, sarebbero scritti senza impegno, chiede a tale proposito un parere a Trebazio Testa, evidentemente di natura giuridica (poiché si rivolge proprio ad un giurista).

Nel passo in esame, quindi, Orazio sembra riferirsi a norme giuridiche intese a vietare la pubblicazione di versi diffamatori e questa circostanza appare ancor più chiara nei versi successivi. Si veda infatti sat. 2.1.80 ss. Equidem nihil hinc diffindere possum; / sed tamen, ut monitus caveas, ne forte negoti / incutiat tibi quid sanctarum inscita legum: / si mala condiderit in quem quis carmina, ius est / iudiciumque,[17] ove Trebazio, pur esprimendo approvazione per le satire del poeta, consiglia a quest’ultimo la prudenza per non incorrere nei rigori della legge ignorando i dettami delle leggi (legum sanctarum).

Segue un chiaro precetto normativo (non a caso introdotto, ancora una volta, dal si quis) secondo cui, se qualcuno avesse composto mala carmina contro qualcun altro, si sarebbe dato luogo al processo (iudicium)[18]. L’allusione è ad una disposizione della legge delle XII Tavole[19] che comminava una pena nei confronti di colui che avesse composto versi malevoli ai danni di un altro (qui malum carmen incantassit). In tal caso, prosegue Orazio, si sarebbe dato luogo a un processo: la formula ius iudiciumque – allitterante come molte formule sacrali e religiose tipo.

In definitiva, i versi oraziani analizzati sembrerebbero confermare la peculiare dimestichezza del poeta con le tematiche giuridiche e che il più approfondito livello di scrittura (e dunque di lettura) sarebbe stato rivolto a quanti – pochi, specialisti del diritto – avrebbero potuto sorridere dell’ironia loro implicitamente rivolta, in un testo la cui precisione giuridica solo essi avrebbero pienamente compreso e apprezzato.

Daniele Onori


[1] O. DILIBERTO, Ut carmen necessarium (Cic. leg. II, 59). Apprendimento e conoscenza della Legge delle XII Tavole nel I sec. a. C., in M. CITRONI (a cura di), Letteratura e civitas. Transizioni dalla Repubblica all’Impero. In ricordo di E. Narducci, Pisa 2012, 141 ss

[2] O. DILIBERTO, Ut carmen, cit.,151 ss.

[3]  Horat., carm. 1.14.21-24; sat. 2.2.129-132; epist. 2.2.158-176: cfr. ultimamente G. NICOSIA, Brevis dominus, in Scritti in mem. di G. Franciosi, III, Napoli 2007, 1858 ss.; R. HASSAN, L’uso di termini giuridici, cit., 90 ss.

[4] Horat., sat. 1.9.35-42; 74-78. Cfr., tra gli altri, nell’ambito di una copiosa letteratura, T. MARUZEK, Self-parody and the Law in Horace’s Satires I.9, in Classical Journal 93, 1997, 1 ss.; F. CAIRNS, Antestari and Horace Satires 1.9, in Latomus 64, 2005, 49 ss. (ora ripubblicato anche in ID., Roman Lyric. Collected Papers on Catullus and Horace, Berlin-Boston 2012, 462 ss.). Sulle questioni squisitamente giuridiche aperte dal testo, v. da ultimi, con letteratura precedente, O. LICANDRO, Domicilium habere. Persona e territorio nella disciplina del domicilio romano, Torino 2004, 441; E. ROMANO, Effigies antiquitatis. Per una storia della persistenza delle Dodici Tavole nella cultura romana, in M. HUMBERT (a cura di), Le Dodici Tavole. Dai Decemviri agli Umanisti, Pavia 2005, 465; G. LOTITO, Nota testuale a si in ius vocat, in M. HUMBERT (a cura di), Le Dodici Tavole, cit., 209 ss. e A. DE FRANCESCO, Autodifesa privata e iniuria nelle Dodici Tavole, in M. HUMBERT (a cura di), Le Dodici Tavole, cit., 415 ss. e ivi n. 1; N. DONADIO, Vadimonium e contendere in iure. Tra “certezza della tutela” e “diritto alla difesa”, Milano 2011, spec. 272, 281 ss., 321; R. HASSAN, L’uso di termini giuridici, cit., 103 ss.; J.L. FERRIS-HILL, A Stoll with Lucilius: Horace, Satires 1.9 reconsidered, in American Journal of Philology 132, 2011, 429 ss.

[5] Horat., carm. 1.14.21-24; sat. 2.2.129-132; epist. 2.2.158-176: cfr. ultimamente G. NICOSIA, Brevis dominus, in Scritti in mem. di G. Franciosi, III, Napoli 2007, 1858 ss.; R. HASSAN, L’uso di termini giuridici, cit., 90 ss.

[6] Horat., sat. 2.3.281-285; epist. 2.2.1-19: L. MARRA, Actio redhibitoria e responsabilità per i vizi della cosa nell’editto de mancipiis vendundis, Milano 1994, 127, 141, 147 s.; G. FALCONE, D. 1.3.13. Pedio, Ulpiano e la “lex contractus”, in Labeo 43, 1997, 249 s. e ivi nt. 34; N. DONADIO, La tutela del compratore tra actiones aediliciae e actio empti, Milano 2004, 134 ss (nt. 108 ulteriore letteratura); R. ORTU, ‘Aiunt aediles…’. Dichiarazioni del venditore e vizi della cosa venduta nell’editto de mancipiis emundis vendundis, Torino 2008, spec. 266 s.; R. HASSAN, L’uso di termini giuridici, cit., 97 ss.

[7] Horat., sat. 2.5.27-31; 45-55; 62-69. Cfr. per tutti G. FINAZZI, La sostituzione pupillare, Napoli 1997, 155 nt. 33, 437 nt. 52; R. HASSAN, L’uso di termini giuridici, cit., 105 ss.

[8]Trad:  Affinché inoltre non vi lusinghi la vanagloria, vi stringerò entrambi con giuramento: quegli di voi due, che diventi edile o pretore, sia diseredato e maledetto.

[9] Più nel dettaglio, O. DILIBERTO, Ut carmen, cit., 153.

[10] Trad: Quelli, che hanno bisogno di un sonno profondo, unti d’olio passino tre volte il Tevere a nuoto e, al cader della noe, irrighino la persona di vino schietto

[11] F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianeae quae supersunt, I, Lipsiae 1896, 382 s.; v. ora E. ROMANO, Effigies antiquitatis, cit., 465. Sui rapporti tra Orazio e Trebazio Testa, oltre alla letteratura riportata nel paragrafo seguente, v. già le osservazioni di D. NÖRR, “Innovare”, in Index 22, 1994, 71 s. Per l’inquadramento complessivo della figura e della personalità di Trebazio, resta, a mio avviso, ancora fondamentale il denso saggio di M. TALAMANCA, Trebazio Testa fra retorica e diritto, in G.G. ARCHI, (a cura di), Questioni di giurisprudenza tardo-repubblicana, Milano 1985, 29 ss.

[12] F. SCHULZ, Storia della giurisprudenza romana [Oxford 19532 ], trad. ital. Firenze 1968, 118.

[13] R. A. LAFLEUR, Horace and Onomasti Komodein: The Law of Satire, in ANRW II.31.3, 1981, 1813 s. Sul complesso del testo, v. il classico lavoro di E. FRAENKEL, Orazio [Oxford 19571 ], trad. ital. Roma 1993, 202 s. e ivi note; v. ora ultimamente P. FEDELI, Commento e note, in Orazio, cit., 846 s.

[14] Sul rapporto di Orazio con il pubblico e i lettori, v. per tutti le puntuali considerazioni di M. CITRONI, Poesia e lettori in Roma antica. Forme della comunicazione letteraria, Roma-Bari 1995, 241 ss., 271 ss., 342 s. e passim, su cui tornerò tra breve.

[15] Specificamente sul passo oraziano in esame, vd. da ultimi W. J. TATUM, Ultra legem: law and literature in Horace cit. 688 ss.; J. M. COELLO, Roma, Los quirites y la liturgia de los conflictos in IURA 55 (2004-2005) 108 e bibliografia 108 nt. 22

[16] Vi son di quelli, a cui sembra che io nella satira sia troppo mordace, e che trapassi la misura; altri ritiene che tutto quello che ho scritto è privo di vigore, e che de’ versi simili ai miei si possono scodellar mille al giorno. Consigliami, o Trebazio , ciὸ che ho da fare

[17] Per verità, io non posso scalfire di quanto affermi neppure una virgola: tuttavia, affinché tu avvertito ti guardi che la scarsa conoscenza delle sante leggi non ti cacci in qualche molestia, ricòrdati: «Se qualcuno comporrà versi cattivi contro un cittadino, ci sarà il processo e la sentenza»

[18] La bibliografia sul malum carmen incantare e sull’occentatio è assai ampia. Vd., da ultimi, G.M. DA NÓBREGA, Le carmen famosum et l’occentatio, Romanitas 12-13 (1974) p. 324 ss.; A.M. TUPET, Le magie dans la poésie latine, Paris 1976, in part. 166 ss.; G. COMERCI, Carmen, occentatio, ed altre voci magicodiffamatorie dalle XII Tavole a Cicerone in Bollettino di Studi Latini 7 (1977) 287 ss.; J. PLESCIA, The Development of Iniuria, in Labeo 23 (1977) 271 ss.; B. BISCOTTI, Malum carmen incantare e occentatio in testimonium amicitiae, Milano 1992, 21 ss.

[19] Tab. VIII.1

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