Il “diritto naturale” per Rommen non costituisce un codice positivo di leggi naturali da recepire passivamente dall’uomo, poiché il loro nucleo essenziale si rinviene nell’uomo stesso: “Esistono appunto dei diritti della persona ancor prima dello Stato”. Rommen enuclea la tendenza attiva del “diritto naturale” verso il soggetto di questi diritti, l’uomo. Egli ritiene più appropriato legare i valori personali di giustizia – a livello sociale – alla libertà umana e all’individualità, basata su una distinzione – non separazione – fra “morale” e “diritto”.
1. Nel discorso pronunziato a Berlino, al Bundestag, il Parlamento federale tedesco, il 22 settembre 2011, Benedetto XVI, in occasione del suo terzo viaggio apostolico in Germania, affrontò la questione dei fondamenti del diritto negli Stati democratici, mettendo a confronto la ragione aperta al linguaggio dell’essere con la ragione positivista, e incalzando al contempo un dibattito pubblico sull’argomento. Nel suo intervento, il Papa menzionò il filosofo del diritto austriaco Hans Kelsen (1881-1973): benché nei primi scritti di costui il mondo del diritto risulti del tutto disancorato dal mondo dei fatti, in una secondo momento egli ha ammesso che le norme giuridiche sono il risultato di un atto creatore della volontà. Pertanto, la natura potrebbe contenere delle norme giuridiche soltanto se una volontà le avesse inserite previamente in essa.
Ciò presupporrebbe un Dio creatore, la cui volontà si introduce nella natura. A questo proposito, Kelsen asserisce che è assolutamente vano discutere sulla verità di questa fede. Sul punto si interroga Benedetto XVI: “Lo è veramente? — vorrei domandare. È veramente privo di senso riflettere se la ragione oggettiva che si manifesta nella natura non presupponga una Ragione creativa, un Creator Spiritus?”. Viene in soccorso l’opera del giurista tedesco Heinrich Rommen (1897-1967) L’eterno ritorno del diritto naturale (Die ewige Wiederkehr des Naturrechts), pubblicata a Leipzig nel 1936.
2. Rommen nacque a Colonia e studiò nelle università di Münster e di Bonn. Perseguitato dal regime nazionalsocialista a causa delle sue pubblicazioni e per il suo coinvolgimento in diversi gruppi cattolici tedeschi, nel 1938 Rommen si trasferì negli USA, dove insegnò all’università di Saint Joseph (Connecticut), all’università di Saint Thomas (Minnesota), e infine alla Georgetown University (Washington D.C.), dal 1953 fino al 1967, anno della sua morte. Rommen riteneva che la sfera centrale del diritto risiede proprio nell’ambito dell’essere, e che tra il livello ontologico e quello pratico esista un nesso inscindibile: la ragione pratica non sarebbe altro che l’applicazione, in termini di dovere, del principio dell’essere. Se ogni uomo possiede il diritto alla vita per la sua stessa dignità di persona, da ciò segue necessariamente che la vita umana è indisponibile, che va difesa in ogni suo stadio, e che qualsiasi attentato contro di essa va punito dall’ordinamento giuridico. L’uomo, dotato di libera volontà, partecipa alla legge naturale tramite la sua ragione, poiché l’intera creazione non è altro che una partecipazione alla legge eterna.
L’opera fondamentale di Heinrich Rommen, L’eterno ritorno del diritto naturale, pubblicato in tedesco per la prima volta nel 1936, ha suscitato una più vasta attenzione con la sua seconda edizione del 1947, nel clima della riorganizzazione degli ordinamenti politici e giuridici europei, specialmente di quello tedesco, dopo la seconda guerra mondiale. Per Rommen il vincolo della legislazione e del potere politico alla legge morale è condizione del loro progresso che deve essere progresso morale. L’argomento riprende il ragionamento di Sant’Agostino: “Remota itaque iustitia quid sunt regna nisi magna latrocinia?”[1]. Rivolto contro lo stato totalitario della Germania nazonalsocialista, Rommen rinvia all’’Enciclica Mit brennender Sorge di Pio XI: “[q]ualsiasi legge positiva, chiunque sia il legislatore, può essere esaminata alla luce delle disposizioni del diritto naturale, per quanto riguardano le sue implicazioni morali e quindi anche per quanto riguarda la sua autorità morale di poter vincolare la coscienza”[2].
3. Un tale collegamento dell’ordinamento giuridico alla giustizia e alla coscienza, cioè al diritto naturale, non ha saputo impedire le tragedie dei totalitarismi del XX secolo[3] – e perciò a livello storico rimase poco incisivo. A questa conclusione arrivò Rommen, determinando la seconda edizione del suo libro nel 1947: con essa egli esprime indirettamente la critica che i soli principi tradizionali del “diritto naturale”, proprio per la possibilità moderna “di abusare delle parole e con ciò anche del pathos del diritto naturale nell’interesse della ideologia razzista”, non riuscivano a proteggere quella dignità umana che si esprimerebbe più propriamente nel “diritto di libertà personale dell’individuo […] che lo Stato abbia da rispettare”, cioè in un “sistema di diritti innati e inalienabili dell’individuo”[4].
Basandosi su questo ragionamento, nella seconda edizione, alla vigilia della Dichiarazione universale dei diritti umani, Rommen aggiunge al discorso sul diritto naturale pretese concrete di diritti fondamentali. Egli cercava così di fondare ed esigere i valori umani nel passare dalla loro fondazione nel diritto naturale alla pretesa concreta di positivizzarli in una codificazione di diritto internazionale e costituzionale.
Nel “diritto naturale” stesso – così si potrebbe interpretare questo passaggio del pensiero di Rommen – c’è la tendenza verso l’affermazione della “dignità umana” e verso il soggetto dei diritti che saranno indicati nella Dichiarazione universale: dunque, non una natura astratta o materiale. Il “diritto naturale”, in altre parole, non costituisce un codice positivo di leggi naturali passivamente da recepire dall’uomo; al contrario, sussistono nell’uomo stesso: “Esistono appunto dei diritti della persona ancor prima dello Stato”[5]. In questo senso Rommen riesce ad enucleare la tendenza attiva del “diritto naturale” verso il soggetto di questi diritti, e il soggetto esistenziale del diritto è l’uomo[6].
Rommen formula questa dinamica come la necessaria “vittoria dello stato liberale di diritto sullo stato totalitario morale”. In altre parole, egli ritiene più efficiente e appropriata la strategia di legare i valori personali di giustizia – a livello sociale – alla libertà umana e all’individualità, basata su una distinzione – non separazione – di “morale” e “diritto”: “[s]i comprende così perché il diritto naturale razionalistico, una volta che abbia raggiunto i suoi fini nella vita politica e nel diritto positivo, abbia perduto sempre più la sua importanza”, nel “trionfo […] della tolleranza civile in materia religiosa, ma ancor più, [ne]l trionfo dello Stato di diritto liberale sullo ‘Stato educatore’ totalitario”[7].
4. Il diritto naturale si intende quindi come un fondamento che si deve ulteriormente articolare in concrete istanze che proteggano effettivamente la dignità del soggetto: si tratta, concretamente, di libertà individual-negative, poi politiche e sociali. Solo in questa articolazione esso riesce ad affermarsi criticamente nella modernità: i “diritti umani” costituiscono il modo concreto attraverso il quale alla legislazione delle nazioni può essere oggettivamente contrapposto uno standard di giustizia[8]. In questo senso, i “diritti umani” dopo la Seconda guerra mondiale furono basati sulla dignità umana, e pareva che con ciò si fosse compiuto il passaggio definitivo e irreversibile dal “diritto naturale” ai “diritti umani”: “Come ultimo elemento del diritto naturale, che vuole essere il più profondamente possibile un diritto razionale – almeno nell’età moderna – sono rimasti i diritti umani. Essi non sono comprensibili senza presupporre che l’uomo in quanto tale, semplicemente per la sua appartenenza alla specie umana, sia soggetto di diritti, che il suo essere stesso comporti valori e norme che devono essere individuati, ma non inventati”[9].
In questo senso, tanti pensatori oggi sono dell’opinione che i “diritti umani” hanno sostituito il “diritto naturale” in quanto risposta adeguata alle sfide politiche dal XX secolo in poi. Il loro momento sistematico come “diritti” sta nel non essere “poste” da un’autorità legislativa, ma nel fatto che esigono “riconoscimento”; essi – per il loro radicamento nel soggetto umano – costituiscono In questa sfera dell’intelligenza e della volontà dell’uomo, quindi nella sua libertà, rettamente configurata, viene riconosciuto quel momento che l’ordinamento giuridico deve proteggere nel nome della giustizia.
Daniele Onori
[1] De civitate dei, IV, 4
[2] Cfr. http://www.vatican.va/holy_father/pius_xi/encyclicals/documents/hf_p-xi_enc_14031937_mit-brennendersorge_it.html (1.03.2009); anche questa frase è citata in: Rommen, L’eterno ritorno, 134.
[3] Anzi, del concetto di “diritto naturale” è stato fatto un “deplorevole abuso […] nella propaganda dei partiti totalitari” (Rommen, L’eterno ritorno, 130). E poi aggiunge che è “tuttavia chiaro, che in tale forma le parole ‘natura’ e ‘naturale’ vengono rovesciate nel loro significato e usate in senso ancor più falso che da Hobbes e Hume”, cioè “in un concetto grassamente materialistico” (ibid.)
[4] Rommen, L’eterno ritorno, 131.
[5] Rommen, L’eterno ritorno, 194
[6] Proprio in questo senso, l’Enciclica Centesimus annus afferma: “Se non si riconosce la verità trascendente, allora trionfa la forza del potere, e ciascuno tende a utilizzare fino in fondo i mezzi di cui dispone per imporre il proprio interesse o la propria opinione, senza riguardo ai diritti dell’altro. Allora l’uomo viene rispettato solo nella misura in cui è possibile strumentalizzarlo per un’affermazione egoistica. La radice del moderno totalitarismo, dunque, è da individuare nella negazione della trascendente dignità della persona umana, immagine visibile del Dio invisibile e, proprio per questo, per sua natura stessa, soggetto di diritti che nessuno può violare: né l’individuo, né il gruppo, né la classe, né la Nazione o lo Stato. Non può farlo nemmeno la maggioranza di un corpo sociale, ponendosi contro la minoranza, emarginandola, opprimendola, sfruttandola o tentando di annientarla” (Centesimus annus, n° 44).
[7] Rommen, L’eterno ritorno, 89, 88.
[8] Questo “standard” non è da caratterizzare come una ‘morale minima’ o come un ‘compromesso sociale’ (cfr. M. Krienke, I diritti umani in tensione tra pluralismo ed universalismo. Prospettive dell’etica sociale nella Spätmoderne, in: Rivista Teologica di Lugano 11 [2007] 405-426, qui 412). In tale modo, la giustizia come “prima virtù delle istituzioni sociali” (Rawls) sarebbe fondamentalmente frainteso. Nel ‘diritto’ la giustizia si realizza come forma veramente e propriamente sociale della moralità – questa forma sociale della moralità non è né un “minimo” né un’ “astrazione” della morale individuale anche se non è completamente da essa divisa. Anzi, queste due forme riflettono la natura dell’uomo che contemporaneamente è individuo singolare e natura sociale, come sarà ancora da evidenziare nel prosieguo del nostro ragionamento. Il rapporto complesso fra queste due forme di ‘moralità’ si riflette, in generale, nella determinazione di rapporto tra ‘diritto e morale
[9] J. Ratzinger, Ragione e fede. Scambio reciproco per un’etica comune, in: J. Habermas / J. Ratzinger, Ragione e fede in dialogo, a c. di G. Bosetti, Venezia 2005, 65-81, 75s. Cfr. già l’affermazione di D’Agostino: “I diritti umani, infatti, altro non sono che il modo in cui si ripresentano nel nostro tempo – e in una forma particolarmente agguerrita – le istanze più profonde del giusnaturalismo” (F. D’Agostino, Diritto e giustizia. Per una introduzione allo studio del diritto, Cinisello Balsamo 2000, 27s.).