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Petronio presenta e ritrae un mondo corrotto, popolato da personaggi squallidi e anonimi, che traggono soddisfazione solo dai piaceri più immediati. In questo disincantato affresco non potevano mancare gli attori del mondo del diritto anch’esso decadente.

Sulla vita e sull’opera di Petronio esistono molte ombre e molte questioni ancora non risolte definitivamente. Nessun autore antico ci dice chi sia questo Petronius Arbiter, autore, secondo la tradizione manoscritta, del Satyricon.

Sicuramente possiamo affermare che l’autore del Satyricon visse nell’epoca neroniana: a confermarlo è l’opera stessa nella quale la cultura e gli interessi dell’autore, lo stile e il contenuto dell’opera, la società rappresentata rimandano all’età di Nerone.

Il profilo di Petronio sembra inoltre ricondurre al noto ritratto che di un Gaio Petronio, proconsole in Bitinia e console, durante il regno di Nerone, ci ha fornito Tacito negli Annali (16 18-19).

La vicenda di questo personaggio è nota: eccentrico gaudente e signore del gran mondo, Petronio al culmine di una fortunata carriera politica (era stato proconsole in Bitinia nel 60 e poi consul suffectus nel 62 o 63 d.C.) poteva concedersi con sovrano distacco a ogni piacere della vita e aveva conseguito una tal fama in quest’arte da essere ammesso da Nerone nella ristretta cerchia dei suoi intimi in qualità di regista della vita stessa di corte (elegantiae arbiter).

Racconta Tacito che per questo altissimo privilegio si sarebbe presto guadagnata l’invidia del famigerato Tigellino, il quale cogliendo il destro della congiura pisoniana avrebbe fatto in modo di insinuare che vi fosse coinvolto anche lui. Tanto era bastato per farlo arrestare e indurlo, mentre si trovava a Cuma, in Campania, alla decisione di suicidarsi, cosa che Petronio attuò incidendosi le vene e poi fasciandosele, mentre conversava con i suoi amici, finché non spirò dissanguato, dopo aver provveduto a gratificare con premi e frustate i suoi servi e a compilare come estremo atto d’accusa contro il principe una dettagliata descrizione di tutte le sue malefatte e dissolutezze. [1]

Che non abbia arriso gran fortuna tra i contemporanei al Satyricon, non è fatto che possa sorprendere chi consideri il suo carattere spesso osceno e dissacratore. I primi secoli del Medioevo segnano anche per Petronio lo sprofondamento nell’oblio.

La grande fortuna presso il pubblico comincerà a partire dal XIX secolo, quando soprattutto in Francia viene esaltato come un vero e proprio precursore delle istanze proprie di quel secolo: gli scrittori realisti, da un lato, e quelli decadenti, dall’altro, faranno a gara nel vantare debiti nei suoi confronti, come testimoniano tra gli altri Balzac, Huysmans (che ne traccerà un suggestivo ritratto nel suo romanzo A rebours) e il polacco Sienkiewicz (che farà di lui un indimenticabile personaggio del suo Quo vadis?).

Oggi, a dispetto del giudizio malevolo e riduttivo di Croce (“Si può dire che questo sia il più alto trionfo del loro spirito buffonesco: trascinare e inebriare i lettori…”), l’opera continua a riscuotere un successo incondizionato in ogni ordine di lettori, da poeti come Eliot (che porrà in epigrafe al suo poemetto La terra desolata, 1922, una citazione dal cap. 48), a letterati “sperimentatori” come Sanguineti (che con Il Giuoco del Satyricon, 1970, ne fa un’imitazione giocosa, un “romanzo a ricalco”), fino a cineasti come Fellini, che “rivisita” il romanzo nel 1969 attraverso un film di grande successo.

In questo articolo vogliamo analizzare un episodio del Satyricon ambientato nell’ora del tramonto all’interno di un mercato cittadino, dove ciò che più colpisce è l’ intersezione di modelli nella scena del mercato: commedia, poesia e linguaggio giuridico.

La scena è questa: Encolpio ed Ascilto vanno al mercato per vendere un mantello rubato, onde rifarsi della perdita di una tunica (episodio evidentemente contenuto in una parte del testo non pervenutaci), in cui avevano nascosto il loro denaro: i due giovani, come molti altri venditori di merce sospetta presenti nel forum, vorrebbero approfittare del buio della sera per porre in atto clandestinamente il riciclaggio dell’elegante pallium rubato.

Appartati in un angolo, vengono presto raggiunti da un contadino interessato all’acquisto del mantello; a questo punto, inaspettatamente, Encolpio individua nel potenziale compratore l’uomo che, tempo addietro, in un’avventura già descritta, si era impossessato di una loro tunica lisa ma contenente denaro all’interno di un orlo. Una volta verificato che la cucitura fosse ancora intatta (e con essa il tesoro nascosto nel lembo della tunichetta), Ascilto ed Encolpio si consultano sulla strategia migliore da intraprendere per riappropriarsi dell’indumento: mentre il secondo propone di appellarsi allo ius civile, ossia all’istituto dell’interdictum, il primo, scettico nei confronti delle procedure legali, prospetta come soluzione meno rischiosa per loro una emptio. Tuttavia, frattanto, avviene un altro fatto inatteso: la moglie del rusticus riconosce il pallium, rivendicandone con urla la proprietà.

Ne consegue dunque una controversia tra le due coppie, ognuna delle quali, con perfetta simmetria, risulta in possesso di una veste rubata all’altra ma intenta a recuperare il controllo del proprio bene originario; una situazione ridicola (data l’apparente disparità di valore tra gli oggetti del contenzioso) che attira però l’attenzione di alcuni cociones (trafficanti) e advocati , prontamente accorsi sul posto della rissa a solo scopo di lucro.

Perciò, sebbene la soluzione più logica (ed in effetti espressa pubblicamente da Ascilto) sarebbe stata una semplice permutatio dei capi d’abbigliamento, nondimeno lo sviluppo della vicenda non avrà questo esito proprio per l’azione di questi sedicenti legulei, i quali, facendo leva sul timore di entrambe le parti in causa circa una possibile incriminazione per furto, ottengono che il pallium sia depositato in custodia presso di loro, in attesa di un procedimento giuridico formalmente corretto (che ovviamente non avrà mai luogo!). Nell’ambito di questi rapidi capovolgimenti della sorte, il contadino, stizzito dalle pretese dei giovani, scaglia la tunica addosso ad Ascilto, consentendo loro il recupero di un bene prezioso verso il quale i sensali-praedones, del tutto ignari del suo reale valore, avevano mostrato sin da subito un totale disinteresse.

I tre distici elegiaci che compongono il frammento metrico di 14.2, invece, riassumono poeticamente il giudizio di Ascilto riguardo all’effettivo valore della giustizia e al potere dei suoi istituti.

Quid faciunt leges, ubi sola pecunia regnat, aut ubi paupertas vincere nulla potest? Ipsi qui Cynica traducunt tempora pera, non numquam nummis vendere verba solent. Ergo iudicium nihil est nisi publica merces, atque eques in causa qui sedet, empta probat[2]

Il giovane scholasticus critica aspramente il mondo giurisprudenziale dal momento che, con grande rammarico, lo ritiene profondamente corrotto o, comunque, facilmente corruttibile dall’onnipotente denaro. Per questa denuncia della venalità della giustizia egli ricorre emblematicamente (ed inaspettatamente) alla figura del filosofo cinico come rappresentante-tipo di questa degenerazione; secondo la voce poetante, infatti, i Cynici contraddicono ipocritamente il loro esteriore atteggiamento anticonformista fornendo testimonianze false dietro lauti compensi in denaro.

La dissacrante rappresentazione petroniana vuole parossisticamente mettere in risalto l’omologazione al culto contemporaneo della ricchezza di tali filosofi che da sempre avevano orgogliosamente assunto la povertà a simbolo della propria diversità socio-culturale. Come ha sottolineato Aragosti[3], la connessione dei versi appena discussi all’intreccio narrativo avviene non soltanto per la ripresa dell’immagine del fare mercato, variata in chiave poetica, ma anche attraverso l’uso di una terminologia connotata in senso giuridico; parallelamente alla serie di allusioni isogeniche comiche, infatti, si susseguono nei capitoli in questione espressioni specifiche dell’idioletto giurisprudenziale. Basti pensare ai vari tipi di procedure legali prospettate dai personaggi sulla scena: l’interdictum (13.4), la lis (14.1), la rei vindicatio (14.7), la permutatio, la querella (15.2), il depositum (15.5)41 .

La critica di Ascilto all’essenza corruttibile dello ius trova dunque una perfetta corrispondenza nella prosa circostante; al di là della funzione comica assunta dai faleci di 14.2, si può constatare, più in generale, la presenza di un discorso parodico rivolto dall’autore alle istituzioni giuridiche del suo tempo, ossia alla pratica reale della giustizia (civile e penale) di età imperiale. In tal senso, emblematica appare la figura del cocio, una sorta di agente sequstratore“Iam sequestri placebant, et nescio quis ex cocionibus calvus, tuberosissime frontis, qui solebat aliquando etiam causas agere” (15.4)[4]; una vera e propria caricatura di sapore mimico che ben rende l’idea dello stato di inaffidabilità e di corruzione raggiunto dal sistema giuridico romano secondo Petronio.

Così come non possono sfuggire, da una parte, nella descrizione degli advocati, l’utilizzo dell’attributo nocturni, dall’altra, l’impiego dell’appellativo praedones in riferimento ai sensali (intemediari): insomma, in questo modo sono raffigurate parodicamente due categorie sociali avvezze ad abusare quotidianamente dello ius, attratte dalle potenzialità remunerative di quest’ultimo.

Non sarà questo certo l’unico caso di parodia giuridica rintracciabile nel Satyricon; ciononostante, se si considera l’anomalo addensamento di espressioni proprie del linguaggio forense, stilisticamente connotate per la loro elevatezza formale, questo è probabilmente il passo in cui la carica satirica dell’arbiter emerge con maggior nitidezza ed intensità.

Daniele Onori


[1] Per un’informata panoramica sulla questione, si rimanda, oltre che al repertorio bibliografico completo di Gareth L. Schmeling – Johanna H. Stuckey (A bibliography of Petronius, Lugduni Batavorum, E.J. Brill, 1977), all’esauriente trattazione della voce Petronio a opera di L. Pepe in Dizionario degli scrittori greci e latini, diretto da Francesco Della Corte, Settimo Milanese, Marzorati, 1988.

[2] Trad: Che possono le leggi ove regna soltanto il danaro e dove un povero non riesce mai a vincere? Persino coloro che trascorrono i giorni con la bisaccia dei Cinici in spalla talora vendono il vero. Dunque la giustizia non è altro che una pubblica merce e il cavaliere in soglio nel processo legalizza gli acquisti.”

[3] Petronio. Il Satyricon, introduzione, traduzione e note a cura di A. Aragosti, p.109  Milano 1995.

[4] Trad: Quand’ecco non so qual sensale, calvo, pieno di bitorzoli in fronte, uno che certe volte s’immischiava anche nei processi, arraffò il mantello dichiarando che lo avrebbe presentato il giorno dopo.

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