Sofocle compone una storia di enigmi, vaticini, e profezie in cui Edipo, che pure scioglie gli enigmi della Sfinge e libera la città di Tebe dal letale morbo che l’affligge, diventa volta protagonista dell’inchiesta e del riconoscimento della sua reale identità e dei crimini “innaturali” da lui commessi. La funzione cognitiva e il fine di accertare la verità della tragedia sofoclea ispirano i percorsi e gli snodi decisori del processo penale. Le coordinate della procedura restano le ipotesi, gli indizi, le prove, i fatti, la verità, il dubbio. Nozioni, queste, pertinenti alla tradizione occidentale, e costitutive del sapere scientifico, perciò anche della scienza giuridica.
1. La tragedia di Sofocle (496 a.C. – 406 a.C.) Edipo re viene messa in scena per la prima volta tra il 430 e il 420 a.C. ad Atene e fa parte con altre due tragedie, l’Edipo a Colono e l’Antigone, del c.d. ciclo tebano. Queste opere seguono le drammatiche vicende dei discendenti di Cadmo, sposo di Armonia e fondatore di Tebe, e si inseriscono in un più vasto corpus mitico che il pubblico ateniese conosce e in cui può facilmente immedesimarsi. Quanto a Edipo re, la tragedia prende le mosse dalla grave pestilenza che falcidia la popolazione di Tebe: Edipo invia Creonte, fratello di Giocasta, a Delfi per interrogare l’oracolo. Creonte torna a Tebe recando notizie funeste: l’assassinio di Laio vive ancora tra le mura della città. Edipo, che non è a conoscenza delle circostanze della morte di Laio, chiede delucidazioni a Creonte, il quale racconta di come il precedente sovrano fosse stato attaccato da un gruppo di briganti sulla strada per Tebe.
Edipo ordina che il responsabile venga trovato e bandito da Tebe e chiede a Tiresia, vecchio indovino cieco, di svelare l’identità del colpevole. Tiresia, tuttavia, si rifiuta, sostenendo che il suo vaticino potrebbe portare conseguenze ancora più funeste. Edipo e Tiresia si scontrano verbalmente con toni molto accesi finché l’indovino non riferisce che proprio Edipo è l’assassino che si sta cercando. Edipo non crede a una parola di quanto detto da Tiresia e comincia a sospettare che Creonte voglia prendere il suo posto sul trono, e abbia preso accordi con l’indovino per scacciarlo da Tebe.
Edipo si confronta allora con Creonte, il quale si difende rivendicando di non avere nessun interesse a tradire il re. I due uomini vengono quindi raggiunti da Giocasta che, per placare Edipo, gli assicura che spesso gli indovini danno responsi sbagliati. A testimonianza di ciò, riferisce che a Laio era stato predetto di morire per mano di suo figlio, mentre, come gli ha già spiegato Creonte, erano stati dei furfanti. Giocasta aggiunge però dei particolari sulla strada in cui si trovava Laio; Edipo, che riconosce quel punto come il luogo dove ha ucciso un uomo e ritrova nella profezia raccontata da Giocasta echi di quella che gli era stata fatta a Corinto, decide di approfondire le indagini.
2. Edipo racconta così a Giocasta del pronostico ricevuto in gioventù e delle circostanze in cui ha ucciso un uomo mentre si recava a Tebe. Nel frattempo arriva un ambasciatore di Corinto che informa Edipo della morte di Polibio e di essere quindi, per eredità, il nuovo re di Corinto. Edipo però ricorda bene che la profezia non riguardava solo l’uccisione del padre ma anche l’incesto con la madre, chiede così all’ambasciatore cosa ne sia stato di lei.
L’ambasciatore però non è uomo qualsiasi, ma proprio quel pastore che tanti anni prima aveva affidato il figlio di Laio a Polibio: assicura così a Edipo che Peribea non è la sua madre naturale. Quando l’ambasciatore riferisce che il neonato gli è stato affidato dal servo di Laio, Edipo fa chiamare il vecchio servitore che ancora vive a Tebe. Giocasta, che ha compreso l’inganno del destino che beffardo si è preso gioco di loro, cerca di convincere Edipo ad abbandonare l’esigenza di risolvere le tragedie del passato. Ma le sue suppliche restano inascoltate, allora Giocasta si allontana e, sconvolta dalla scoperta, decide di porre fine alla sua vita.
Il servo di Laio, a colloquio con Edipo, riconosce l’ambasciatore come il pastore a cui ha affidato il neonato ma si mostra reticente a proseguire il racconto. Incalzato da Edipo, rivela infine che Laio gli aveva affidato il neonato perché lo uccidesse, ma mosso da pietà il servo aveva affidato il bambino al pastore. Edipo si rende così conto di essere lui il figlio di entrambe le profezie, di aver ucciso sua padre e aver giaciuto con sua madre, così come il destino aveva decretato dovesse compiersi. Esce quindi di scena disperato.
Edipo, dopo aver trovato la madre, Giocasta, morta impiccata, usa le fibbie del vestito di lei per accecarsi. Supplica quindi Creonte, destinato a diventare il nuovo reggente, di esiliarlo da Tebe, in quanto per colpa sua l’ordine naturale è stato sovvertito e la peste ne è la conseguenza. Saluta quindi le figlie, Antigone e Ismene, destinate anch’esse alla sventura in quanto nate da un’unione aborrita dagli dei e dagli uomini.
3. Proprio l’inchiesta è il motore della tragedia. L’oracolo di Apollo ha detto chiaramente (ϵ’µфavm^L v. 96) che la pestilenza è causata da una contaminazione per la morte di Laio, il predecessore di Edipo sul trono di Tebe: è indispensabile trovare l’assassino e eliminarlo.
Edipo, sovrano in carica, deve mettersi alla ricerca dell’assassino. Come si è già detto, sotto un certo aspetto, Edipo Re è una tragedia che ha fra i suoi oggetti il problema della conoscenza. Non si tratta di risalire a un sapere di tipo universale, ma di riuscire a inferire un particolare: l’identità dell’assassino di Laio. Un sapere di questo tipo è stato definito dallo storico italiano Carlo Ginzburg come “sapere indiziario”[1]. È un sapere del particolare: a partire da piccoli indizi, spesso trascurabili, si possono ricostruire le situazioni sino a giungere alla verità. Ginzburg, al proposito, cita il metodo dell’italiano Morelli che riusciva ad attribuire correttamente opere pittoriche risalendo all’autore da piccoli indizi, in genere particolari trascurabili quali la caratteristica modalità di pittura dei lobi delle orecchie, delle unghie, delle dita, e così via. Questi indizi erano più tipici perché inconsapevoli rispetto ad altri più vistosi, che invece potevano essere soggetti più facilmente a imitazione da parte di altri artisti. Edipo si pone lo stesso problema: dove trovare i segni perduti d’una colpa remota.
La tragedia di Edipo è sostanzialmente la prima testimonianza delle pratiche giudiziarie greche. Edipo è il protagonista e la vittima delle investigazioni dirette, alla ricerca dei segni del passato e alla scoperta della verità, benché questa sia stata già rivelata dal sacerdote Tiresia. Edipo, non rassegnato all’ineluttabile fato vaticinato dal dio, lancia la sfida della razionalità umana, indagatrice dei fatti, per approdare alla conoscenza e alla verità, assumendosene infine la colpa e la responsabilità, e subendone le conseguenze catastrofiche.
Le coordinate del processo penale moderno sono le inferenze conoscitive della ricerca e della scoperta e il fine di verità, dalla formulazione dell’accusa alla verifica dell’ipotesi nel giudizio nel contraddittorio fra le parti. Per garantire la correttezza del procedimento e la tendenziale giustezza della decisione, è disegnata una rete di regole (“percorsi di verità”), costituzionali e logiche, le quali, ispirate ai moderni principi di civiltà giuridica, guidano il ragionamento del giudice, sì che la libertà di convincimento di questi non comporti arbitrio del decidere.
4. L’arrogante sfida (hybris) lanciata al sapere tradizionale e alla verità del dio si converte nella catastrofe del protagonista: Edipo, ormai cieco, è il pharmakòs da espellere dalla città per porre rimedio alla peste che la infesta ed espiare la pena. E però, la razionalità indagatrice dell’uomo ha vinto, l’operazione conoscitiva ha avuto successo con l’approdo alla verità (umana) dei fatti. Si assiste così, oltre l’ineluttabilità del fato e l’arcaica Dìke, alla lenta emersione della soggettività dell’individuo, che si fa artefice del proprio destino, con il conseguente carico di colpe e responsabilità[2].
Nella tragedia si possono distinguere tre veridizioni successive. La prima, quella di dei e profeti, si presenta attraverso le figure di Creonte – inviato da Edipo ad interrogare il dio Apollo – e l’indovino Tiresia. La seconda, invece, vede come protagonisti Edipo e Giocasta, i quali confrontando i propri ricordi disvelano la verità. La “verità”, ormai emersa come “verità giudiziaria”, nondimeno, viene accettata solamente dopo la terza opera di veridizione, quando il messaggero di Corinto e il pastore del Citerone incolpano Edipo. Dal momento che questi due personaggi parlano di quello che hanno visto e hanno fatto, la loro procedura di veridizione e la loro “testimonianza di confessione” non può essere messa in discussione né dalle parole divinatorie e profetiche, né dalle tecniche deduttive del Re. Lo stesso Edipo ammetterà la colpa – dirà “io” – solo una volta che il coro (l’Altro) avrà ascoltato e accettato la verità della “testimonianza di confessione” dei servi.
5. Nell’Edipo Re assistiamo alla rappresentazione drammatica della nuova pratica giudiziaria ateniese, che faceva della confessione una pratica fondamentale del sistema giudiziario. La tragedia edipica consente anche di rintracciare la genealogia di un’ermeneutica di sé, attiva nelle pratiche della confessione, che la macchina giudiziaria contemporanea esige[3]. Nel dualismo concettuale ricerca/scoperta e apparenza/verità sono tratteggiati i primi lineamenti di una fenomenologia della prova, che segna una tappa importante nell’evoluzione da un paradigma indiziario fondato su segni deboli a uno di segni più forti: da un principio d’ipotesi (arché), attraverso un percorso investigativo (hodòs), condotto sulla base di indizi (sémeia), fino alla scoperta (héuresis) chiara e completa della verità. Concetti, questi, che appaiono pertinenti alla “tradizione razionalista occidentale” e costitutivi del sapere scientifico. Al centro della tragedia si trova lo sforzo in cui è coinvolta l’intera città per trasformare in fatti constatati «la dispersione enigmatica degli eventi umani».
L’indagine che Edipo mette in campo rappresenterebbe una terza via di produzione della verità (un terzo gioco), alternativa alla profezia, che indica in Edipo la causa della pestilenza, e all’aver visto dei testimoni che, chiamati in udienza, confermeranno l’esattezza della profezia. Il dramma sofocleo mostrerebbe così l’inutilità della procedura di Edipo che, per quanto efficace, arriva per ultima alla stessa verità proferita dall’indovino e testimoniata dai pastori. Lungi dal narrare il destino dei nostri istinti o del nostro desiderio, Edipo Re metterebbe dunque in scena la sfida dei saperi in una certa epoca della storia greca, e la disfatta, al suo interno, del sapere del tiranno che Edipo incarna.
Privilegiando il sapere che l’indovino deve alla divinità e quello dei pastori, che testimoniando ciò che hanno visto esprimono la propria obbedienza ai fatti, la storia di Edipo mostrerebbe come soltanto la saggezza, in quanto sapere dell’ordine delle cose, fondi un potere imperturbabile, laddove l’arroganza con cui Edipo crede di poter disporre di un sapere fondato su sé soltanto lo condanna alla rovina.
Daniele Onori
[1] C Ginzburg, Spie. Radici di un paradigma indiziario. In: ECO U., SEBEOK T., Il segno dei tre. Holmes, Dupin, Peirce. Milano, Bompiani, 2004, pagg.97-136.
[2] G. Canzio, La “Dike” Degli Antiche E La “Giustizia” Dei Moderni: “Edipo Re” E “Antigone
[3] M. Foucault, Lezioni sulla volontà di sapere. Corso al Collège de France (1970-1971), trad. it. M. Nicoli e C. Troilo, Feltrinelli, Milano, 2015; nella rilettura delle filosofie ellenistiche e romane si cimenta a partire da Id., L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (1981-1982), trad. it. Bertani M., Feltrinelli, Milano, 2003; mentre lo studio delle Lettere di Platone si trova in Id., Il governo di sé e degli altri. Corso al Collège de France (1982-1983), trad. it. Galzigna M., Feltrinelli, Milano, 2009.