Martedì prossimo, 6 luglio, le Sezioni unite civili della Corte di Cassazione sono chiamate a pronunciarsi sulla esposizione del Crocifisso nei luoghi pubblici. La vicenda trae origine da un docente che nelle ore d’insegnamento aveva rimosso il Crocifisso, in contrasto con la volontà degli studenti, che in maggioranza si erano espressi a favore della sua collocazione nell’aula, e disapplicando un provvedimento del Preside: per il suo comportamento, in conflitto anche col preside, al docente era stata irrogata la sospensione di 30 giorni dalle funzioni, sanzione ritenuta legittima in entrambi i gradi di merito. Giunta la questione alla Suprema Corte, la Sezione lavoro ha richiesto una decisione in merito delle Sezioni unite. Sul punto su questo sito https://www.centrostudilivatino.it/crocifisso-ancora-nel-mirino-la-parola-e-alla-cassazione/; https://www.centrostudilivatino.it/crocifisso-fuori-dalle-scuole-la-questione-alle-sezioni-unite/; https://www.centrostudilivatino.it/il-crocifisso-al-vaglio-delle-sezioni-unite-della-cassazione/ .
Sul tema il 30 giugno si è svolto, organizzato dal Centro studi Rosario Livatino, il webinar Verso un nuovo caso Lautsi? L’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche, col patrocinio dell’Ordine degli Avvocati di Roma. Dopo la relazione pubblicata ieri del prof. Carlo Cardia (https://www.centrostudilivatino.it/il-crocifisso-davanti-alle-sezioni-unite-simboli-religiosi-e-diritti-umani/), oggi ospitiamo tenuta dal pres. Claudio Zucchelli. Egli è Presidente aggiunto onorario del Consiglio di Stato; fra i numerosi incarichi che ha ricoperto, ricordiamo quelli di Segretario Generale, poi di Capo di Gabinetto, del Ministero delle Finanze, e di Capo del Dipartimento degli affari giuridici e legislativi della Presidenza del Consiglio dei Ministri, dal luglio 2001 al maggio 2006 e dal maggio 2008 al maggio 2013.
1. Come un fiume carsico, riemerge a distanza di dieci anni la questione della esposizione del Crocefisso negli uffici pubblici, ma in particolare nelle scuole pubbliche, e forse non solo. Per articolare alcune riflessioni è necessario puntualizzare alcuni punti in fatto.
La diatriba sulla esposizione del crocefisso in classe inizia con un contrasto tra il professore e gli alunni della sua classe, molti dei quali chiedevano la esposizione in classe del Crocefisso. La diatriba approda ad una assemblea di classe ove la maggioranza degli studenti decide per la esposizione, ratificata poi dal consiglio di classe (compresi quindi docenti e genitori). Il professore, adducendo la compressione della sua libertà religiosa e di coscienza, rifiuta di svolgere le lezioni con il Crocefisso e quindi adotta la tattica di rimuoverlo non appena entrato in classe, svolgere la sua lezione tenendolo nel cassetto, e quindi riattaccarlo al muro al momento di abbandonare l’aula.
Segue l’ordine esplicito del direttore didattico di rispettare le norme regolamentari sulla esposizione, e successivamente il procedimento disciplinare di cui è causa.Il punto dolente e fondamentale della intera vicenda sembra quindi essere la discriminazione cui il docente sarebbe sottoposto, in quanto non cristiano, nel dover sopportare la presenza del Crocefisso, con le implicazioni religiose e filosofiche che esso emana a chi lo contempli.
2. E’ quindi necessario definire in primo luogo cosa sia la discriminazione. Vi sono due piani di indagine. Il primo è eminentemente linguistico, psicologico e sociologico ed è il più importante per chi, come me, crede fermamente che il diritto segua, descriva, definisca la realtà e non crei ex novo la norma ma cristallizzi le conclusioni cui giunge la Società Aperta nella sua evoluzione.
La discriminazione prima ancora che un fatto rilevante giuridicamente, è un atto di conoscenza, proprio della persona e appartenente al suo foro interno. In questo ambito essa consiste in una distinzione, diversificazione o differenziazione operata fra persone, cose, casi o situazioni. La discriminazione, dal latino discrimen, separazione, indica l’operazione del discernere, separare. Essa è innanzitutto un termine neutro e, in quanto discernimento, è una delle espressioni dell’intelligenza, una via di comprensione che ha come metodo il confronto fra le parti semplici in cui viene scisso il complesso.
Per molte persone essa può essere compiuta anche al fine di un giudizio assiologico, e quindi condurre a rapporti conflittuali o addirittura di odio nei confronti degli elementi discriminati posti nella parte negativa del giudizio. Sotto questo profilo, la discriminazione, finché rimane nella sfera interna del soggetto quindi anche se viene esternalizzata quale opinione personale e sentimento proprio, non ha alcuna rilevanza per l’ordinamento giuridico. Non esiste, infatti, e non potrebbe esistere salvo invocare lo Stato Etico, una norma che proibisca e punisca o tragga effetti giuridici da una convinzione personale, da un modo di pensare, da un sentimento da una pura espressione di opinioni non tradotte in fatti.
Essa rileva solo ove gravida di conseguenze fattuali valutabili giuridicamente (come nella istigazione alla violenza per motivi razziali) od ove si concretizzi in fatti rilevanti per il diritto, ma non certo ove si fermi al rango di mera opinione. Nel momento in cui la discriminazione assiologica è posta a motivazione di atti giuridici, incidendo quindi su posizioni giuridiche soggettive pubbliche o private, essa assume rilevanza sotto la forma della illiceità dei motivi, ma solo là ove la norma espressamente lo preveda. Infatti, il giudizio sui motivi dell’atto giuridico, in primis sulla loro rilevanza o meno e in secundis sul loro valore, sono possibili solo ove una norma primaria lo permetta o lo esiga. Viceversa essi fuoriescono dall’ambito di interesse dell’ordinamento giuridico.
3. Un complesso apparato giuridico internazionale e interno contempla gli effetti fattuali della discriminazione.Si inizia dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 10 dicembre 1948. L’art. 2 di essa proclama che “Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza etc. …”.
Una analoga affermazione si trova nella Convenzione Europea dei Diritti Umani, la quale nell’art. 14 recita:“Divieto di discriminazione. Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate … etc.”
Si tratta di un diverso modo di esprimere il medesimo concetto, ovvero che tutti gli stati cofirmatari riconoscono l’appartenenza a tutti gli uomini dei diritti contemplati senza che una qualsiasi delle caratteristiche evidenziate possa essere invocata per negarli o sminuirli. Sempre in ambito internazionale, l’Unione Europea interviene con due direttive la 2000/43/CE sulla parità tra le persone in generale e la 2000/78/CE sulla parità in relazione al lavoro, recepite in Italia rispettivamente con il d.lvo 9 luglio 2003, n. 215 e con il d.lvo 9 luglio 2003, n. 216.
Pur occupandosi l’una di un settore specifico, il lavoro, e l’altra dell’ordinamento giuridico generale, esse contengono la identica definizione del concetto di discriminazione (art. 2) e, all’art. 3, nel definire il proprio campo di azione chiariscono che la discriminazione deve essere combattuta quale strumento per realizzare una disparuta di trattamento giuridica nei diversi settori citati nei medesimi articoli. In altri termini, le direttive non si occupano della discriminazione in sé, quale fatto umano (eventualmente rilevante a fini penali o comunque sanzionatori) ma come strumento di negazione o compressione di diritti sub specie di motivi essenziali e rilevanti dei vari atti giuridici con i quali la compressione del diritto possa astrattamente avvenire e sulla causazione dello svantaggio.
Orbene, dalla lettura integrata della CEDU e delle direttive europee promanano precisi obblighi per il Legislatore italiano, per la verità già contenuti nella Costituzione, di impedire sia nella vita civile sia pubblica, sia per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro, discriminazioni basate su differenze: di razza, colore, lingua, ascendenza o origine nazionale o etnica o sociale, convinzioni e pratiche religiose, convinzioni personali, handicap, età, orientamento sessuale, disabilità, sesso, opinioni politiche o di altro genere, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione. Per comodità, essendo sempre le stesse variamente citate e contemplate in tutti i provvedimenti, le indicheremo d’ora innanzi come “le note differenze”.
4. Tutte queste note differenze umane propedeutiche alla discriminazione sono state recepite nel nostro ordinamento giuridico, talvolta con ripetizione pedissequa talvolta con alcune diversità lessicali non rilevanti, dai seguenti provvedimenti: d.lvo 25 luglio 1998, n. 286, d.lvo 9 luglio 2003, n. 215 già citato, d.lvo 9 luglio 2003, n. 216, già citato, L. 1 marzo 2006, n. 67, contenente Misure per la tutela giudiziaria delle persone con disabilità vittime di discriminazioni,) d.lvo 11 aprile 2006, n. 198, recante Codice delle pari opportunità tra uomo e donna.
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Tali provvedimenti normativi dichiarano, normalmente nell’art. 1, il proprio oggetto che è sempre, salvo qualche modifica lessicale non rilevante, quello di impedire le discriminazioni dovute alle note differenze. Le norme positive infatti impongono di disporre misure necessarie affinché’ esse non siano causa di discriminazione.
Quanto alla definizione di discriminazione, nella normativa italiana essa ripete pedissequamente la definizione fornita dalle due direttive UE citate, e precisamente: la discriminazione diretta si ha quando per le differenze dette una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra persona in situazione analoga (artt. 2, comma 1, lett. a) delle direttive e artt. 2, comma 1, lett. a) dei decreto 215 e 261 (/testo identico), nonché l’art. 2, co. 2 della L. 67 del 2006, e l’art. 25, co. 1 del d.lvo 198 del 2006.
La discriminazione indiretta si ha quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone di una determinata razza od origine etnica in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone. ((artt. 2, comma 1, lett. b) delle direttive e artt. 2, comma 1, lett. b) dei decreto 215 e 261 (/testo identico), nonché l’art. 2, co. 3 della L. 67 del 2006, e l’art. 25, co. 2 del d.lvo 198 del 2006.
Sia la discriminazione diretta sia quella indiretta, come abbiamo visto, per avere rilevanza, devono avere lo scopo o l’effetto di generare un trattamento svantaggioso rispetto agli altri attraverso la compromissione del godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali.
5. Dalla esposizione della normativa applicabile alla situazione in esame ricaviamo che l’intero sistema della tutela antidiscriminatoria è ispirato alla necessaria sussistenza di un pregiudizio derivante dalla discriminazione. Tanto è vero che nell’ordinamento interno per tutte le fattispecie previste dai provvedimenti legislativi citati, si applica l’art. 28 del d.lvo 1 settembre 2011, n. 150, che introduce un rito speciale, che ha come necessaria pretesa la violazione e il risarcimento per l’impedimento all’esercizio di un diritto o di una facoltà, o all’acquisizione di una chance a cagione dei motivi discriminanti posti a base dell’atto giuridico impugnato. In parole semplici, sia il diritto internazionale, sia il nostro diritto positivo non tutelano direttamente i contenuti delle differenze discriminatorie, ma solo la ricaduta negativa che esse potrebbero avere attraverso il comportamento di soggetti dell’ordinamento, privati o pubblici, che abbiano un contatto rilevante con il soggetto protetto
Ciò posto occorre ora affrontare il problema di quali siano gli interessi e le pretese dedotte in giudizio ma soprattutto oggetto del nostro approfondimento. La ordinanza di rimessione, al paragrafo 9 della motivazione, definisce i confini della controversia, valorizzando il conflitto tra la libertà religiosa rappresentata dalla maggioranza degli studenti favorevoli alla esposizione e quella rappresentata dal docente dissidente. Prendendo spunto dalla assemblea di classe e dalla contrapposizione tra due partiti in essa verificatasi, la Cassazione, con un salto logico, compie un cambio di paradigma.
Infatti scrive l’ordinanza di rimessione che la questione “sollecita una pronuncia sul bilanciamento, in ambito scolastico, fra le libertà ed i diritti tutelati rispettivamente dal D.lgs. n. 297 del 1994, artt. 1 e 2 che, garantendo, da un lato, la libertà di insegnamento, intesa come autonomia didattica e libera espressione culturale del docente (art. 1) e, dall’altro, “il rispetto della coscienza civile e morale degli alunni” (art. 2), portano ad interrogarsi sui modi di risoluzione di un eventuale conflitto e sulla possibilità di far prevalere l’una o l’altra libertà nei casi in cui le stesse si pongano in contrasto fra loro.” Una prospettazione che, per la verità, non sembra sia stata mai avanzata nel giudizio di merito, o così emerge dalla narrativa della ordinanza.
6. La controversia, quindi, secondo la Cassazione verte sul fatto che un provvedimento (che funge da presupposto della sanzione amministrativa che è l’oggetto principale del ricorso) con il quale il direttore didattico ha imposta la esposizione del Crocifisso che il ricorrente ha disatteso, sia espressione di un illegittimo o erroneo bilanciamento di libertà confliggenti, quindi per sé atto discriminatorio in assoluto, come tale inidoneo a determinare obblighi giuridici di ottemperanza. Da ciò ricaviamo come corollario, che secondo la Cassazione la vera controversia dissimulata verte sull’esistenza di una presunta posizione giuridica soggettiva il cui contenuto sarebbe l’interesse negativo a che la propria libertà non sia recessiva, quindi discriminata, nei confronti della controparte.
La prospettazione del ricorrente, e della ordinanza di rimessione, non è quindi la prospettazione di una situazione di svantaggio, ma la lesione del proprio diritto a un comportamento neutrale dello Stato assunto di per sé come dannoso. Ciò non trova riscontro nelle norme internazionali e interne.
La Grane Camera della EDU escluse nel caso Lautsi la violazione dell’art. 14 della CEDU, che cito solo per ricordo:“Divieto di discriminazione Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione”.
Osservava la Corte nella sentenza Lautsi II nell’escludere la sussistenza di una tale violazione, che essa: ” non esiste in modo indipendente, in quanto ha effetto unicamente in relazione al godimento dei diritti e delle libertà tutelati dalle altre disposizioni sostanziali della Convenzione e dei suoi protocolli”.
E in effetti l’interpretazione letterale è chiara. Il godimento dei diritti deve essere assicurato senza che, a questo fine, possa intervenire alcuna discriminazione basata sulle note differenze. L’art. 14, quindi, non introduce un diritto soggettivo assoluto alla non discriminazione in sé, ma solo richiama che mentre è astrattamente possibile una compressione dei diritti garantiti dalla convenzione, ad es. in base agli articoli da 15 a 18 della stessa, una compressione di essi non può mai avvenire se il solo fondamento è una delle differenze citate.
7. L’affermazione della ordinanza della Cassazione è fondamentale ai nostri fini perché definisce il campo di indagine in maniera diversa, e direi opposta, a quella fino ad oggi seguita dalla giurisdizione italiana, sia amministrativa sia ordinaria. Non si tratta più, secondo la Cassazione, di verificare se il pregiudizio (la sanzione) derivi da una discriminazione, cioè da una compressione della libertà di coscienza e religiosa tutelata dalla convenzione e nel diritto interno dall’art. 1 del d.lvo n. 297 del 1994 sulla libertà di insegnamento, ma di mediare tra queste due opposte libertà, quella appunto protetta dall’art. 1 e quella protetta dall’art. 2 stesso testo, riguardante il rispetto della coscienza morale e civile degli studenti,. Ci dice la Cassazione che il giudice dovrà decidere se debba prevalere la libertà di cui all’art. 1, relativa al docente, o quella all’art. 2, relativo agli studenti, e che probabilmente ha sbagliato nel far prevalere la libertà degli studenti perché ha illegittimamente compresso la libertà dell’insegnante.
Nel bilanciamento tra le due libertà, invocato dalla Corte come il vero oggetto del giudizio, l’amministrazione avrebbe ecceduto a favore degli studenti, con ciò violando la libertà di coscienza e religiosa del docente, e quindi l’ordine, con le sue conseguenze, sarebbe discriminatorio e come tale improduttivo di effetti giuridici. In tal modo, la discriminazione, secondo la Cassazione, si sostanzia non in uno svantaggio, ma in una erronea valutazione della PA, atteso che la stessa Cassazione esclude la sussistenza di una norma imperativa circa la esposizione, la cui presenza eliminerebbe la illiceità dell’ordine, ma sposterebbe la questione alla giurisdizione europea.
8. E’ evidente che la Cassazione si pone così in un vicolo cieco, o meglio in una strada a senso unico ideologico, perché oblitera del tutto che far prevalere una delle libertà, vuol dire in automatico discriminare quella opposta, e non è certo il giudice l’organo chiamato a decide su ciò. Se questo è, però, dobbiamo chiederci quale sia la giurisdizione che la Cassazione pretende di esercitare su questa valutazione.
Non intendo riferirmi ad un eventuale conflitto con il giudice amministrativo, chiaramente da escludere, ma con la sussistenza vera e propria di una giurisdizione in materia. Nessuna norma di diritto internazionale contempla o regola, in questa materia, il conflitto tra due libertà ipoteticamente contrapposte. Correttamente la Convenzione e le Direttive si occupano solo delle conseguenze svantaggiose, e non potrebbe essere altrimenti perché la regolazione del conflitto tra due libertà fondamentali è oggetto di decisioni politiche e non giuridiche, salvo che il Legislatore, normalmente costituzionale, non preveda e richieda una valutazione e regolazione dei casi concreti, disponendo con legge i parametri della valutazione, che è quindi sottoponibile al giudice, civile o amministrativo che sia. Nella nostra stessa Costituzione vige questo meccanismo. Ad es. l’art. 16 sulla libertà di movimento prefigura un conflitto tra libertà o diritti fondamentali appartenenti a cittadini i cui movimento potrebbero confliggere (nella circolazione degli autoveicoli per es.) e in tal caso il conflitto è risolto solo e in quanto la norma costituzionale prevede la possibilità di regolarlo con norma primaria (cioè con legge), da cui la giustiziabilità del comportamenti conseguenti.
9. Dove non è prevista alcuna norma primaria a regolazione del conflitto, questo appartiene alla sfera di libertà reciproca dei cittadini e potrà giungere alla cognizione del giudice solo sotto il profilo di tutela del principio del neminem laedere a valle di atti o comportamenti se e in quanto abbiano causato un danno, ma non certo perché in sé siano stati espressione della prevalenza di una libertà sull’altra. Chiarissima è in questo senso la stessa CEDU, là dove nell’art. 14, come abbiamo visto, indica la discriminazione non come vulnus in sé ai diritti fondamentali o alla dignità, ma come causa del mancato godimento dei diritti.
Vi è da chiedersi se questa impostazione sia stata seguita dal Legislatore nazionale nella elaborazione del diritto positivo. La risposta è, a mio avviso, affermativa mentre è negativa riguardo alla interpretazione estensiva, e spesso ideologica, che di tali norme ne dà parte della giurisprudenza e della dottrina.
In questa ottica che mi vede assai critico, il bene protetto sembra essere la pretesa alla assenza di una qualsiasi discriminazione in astratto, una pretesa cioè morale, mentre in realtà esso deve essere la violazione di un diritto soggettivo preesistente alla discriminazione violato attraverso lo strumento discriminatorio che ha indotto uno svantaggio concreto. Per altro osservo sommessamente che la elencazione delle note differenze discriminanti è talmente ampia da fornire una possibile motivazione discriminatoria praticamente a qualsiasi comportamento umano e rispetto a qualsiasi presunta situazioni giuridica soggettiva. Cito solo dall’art. 14: le opinioni politiche o quelle di altro genere, cioè tutte le opinioni possibili e immaginabili, la nascita od ogni altra condizione. Dalla interpretazione che privilegia la discriminazione come illecito in sé, e considerando l’inversione dell’onere della prova recato dalle norme di diritto positivo, è evidente che qualunque provvedimento e qualunque atto può essere denunciato come discriminatorio anche per un fumoso motivo di contrasto con “opinioni di altro genere” o peggio di una qualsiasi tra le “altre condizioni”.
Non solo, la sistematica dell’ordinamento non riconosce la tutelabilità di situazioni personali riferibili al solo foro interno del soggetto, legate cioè a sue convinzioni etiche o filosofiche proprie, né per converso riconosce la tutelabilità delle opposte convinzioni, per cui si deve concludere per la neutralità dell’atto o comportamento che non sposa per sé l’una o l’altra convinzione, ma che opera su un piano prettamente oggettivo le cui conseguenze inintenzionali del foro interno sono giuridicamente irrilevanti.
10. Ma soprattutto soccorre una interpretazione teleologica che si basa esattamente sulla interpretazione che dell’art. 14 della dichiarazione ha fornito la Corte europea. Sottolineo che la stessa Corte nella medesima sentenza Lautsi II ha rivendicato a se sola il potere di definire le fattispecie di violazione dei diritti garantiti dalla Convenzione, ed ha escluso che l’esposizione del Crocefisso, in sé, determini una tale violazione. Il punto di equilibrio raggiunto dalla Società Aperta europea, consacrato nella dichiarazione e autenticamente interpretato dalla Corte, è dunque che ciò che rileva è l’impedimento al soggetto protetto a esercitare il suo diritto fondamentale che determini un particolare svantaggio. Nessuna protezione ex se a un presunto diritto assoluto alla non discriminazione, che è invece presente nella impostazione anche della ordinanza di rimessione alle SSUU.
A questa conclusione si giunge, a mio avviso, anche attraverso l’analisi del diritto positivo nei provvedimenti legislativi citati, là dove si fornisce una definizione della discriminazione che fa sempre riferimento a questa come strumento o mezzo per raggiungere uno svantaggio concreto, ma mai come lesione astratta di un diritto a non essere comunque oggetto di discriminazione anche se priva di qualsiasi effetto pregiudizievole.
11. Si obbietta a questa visione che lo svantaggio che costituisce condizione per il verificarsi della discriminazione come istituto regolato dalle norme sarebbe nella violazione stessa del diritto fondamentale. In altri termini non sarebbe necessaria l’esistenza di uno svantaggio concreto e ulteriore rispetto alla violazione della libertà, nel caso di coscienza o religiosa, perché in ciò stesso risiederebbe lo svantaggio. A me pare che questa sia una evidente petizione di principio. Si assume a priori svantaggiosa l’incidenza sulla libertà protetta, prima ancora di definire se vi sia stata lesione della libertà, quindi svantaggio.
La discriminazione, come ha evidenziato la CEDU, è strumento complementare ai diritti e alle libertà garantite dalla convenzione, quindi è necessario in primo luogo accertare la compromissione della nlibertòà attraverso la sussistente e contemporanea attività discriminatoria. Abbiano citato le eccezioni alla protezione dei diritti fondamentali contemplate dagli articoli da 15 a 18 della Convenzione, e aggiungiamo che sussistono, anche nel nostro diritto positivo, espressi casi in cui la discriminazione è legittima derivando da particolari condizioni della persona o del lavoro che deve svolgere. Trattandosi di eccezioni esse presuppongono una regola, la quale è quindi esattamente quella per cui occorre accertare prima l’impedimento al godimento del diritto fondamentale e poi la sussistenza dello svantaggio discriminatorio e infine della eventuale eccezione.
12. In tal modo si riconduce il conflitto di interessi alle sue giuste proporzioni che non sono, come accennato all’inizio, tra il potere di discriminare e il diritto a non essere discriminato, ma tra il diritto a non ricevere uno svantaggio dall’esercitare la propria libertà religiosa e di coscienza e il potere di indurre uno svantaggio attraverso la sua negazione.
Da questa prospettiva non rileva più se l’atto presupposto, ovvero il comando di sottostare alla soggezione di insegnare in una aula alla presenza del Crocefisso, cioè la situazione di dovere, derivi da una norma di legge o regolamento espressa ed esplicita, perché ciò che rileva è, sotto il profilo sostanziale, se vi sia in atto violazione della libertà di coscienza e religione, se ciò abbia causato uno svantaggio, e sotto il profilo disciplinare, si vi sia la violazione di un dovere d’ufficio.
Questa ultima violazione sussiste inequivocabilmente, atteso che, anche nella ipotesi in cui si accertasse la assenza di una norma imperativa per le scuole secondarie superiori (come è in tesi del ricorrente) e la derivazione del dovere di sopportare la esposizione solo dal provvedimento seguito alla assemblea degli studenti e al consiglio di classe, ciò non avrebbe alcuna rilevanza. La disposizione sul Crocefisso, infatti, rientrerebbe comunque nella discrezionalità della amministrazione riguardo all’organizzazione, anche materiale, del servizio scolastico, in un campo non regolato da alcuna legge e quindi destinato alla regolamentazione libera della P.A., salvo che ciò non impatti con posizioni giuridiche soggettive riconosciute dall’ordinamento. Ma come si è detto, ove si escluda la lesione della libertà di coscienza derivante dalla mera esposizione (come acclarato nel ricorso Lautsi) l’ordine di esporre il Crocefisso di per sé non impinge su alcuna posizione giuridica soggettiva.
La netta impressione è che nel caso di specie si sia pretestuosamente violato il principio di Occam, complicando inutilmente la questione, per pure finalità ideologiche.
Claudio Zucchelli