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L’excursus storico che propone l’autore prende le mosse dalla Rivoluzione francese, e dalla tendenza dell’assolutismo a ridurre l’ambito operativo dell’Ordine forense, per giungere alle più recenti e autorevoli pronunce di legittimità, riguardanti il peso delle norme deontologiche, a fondamento dell’indipendenza della professione di avvocato.

1. L’art. 2 co. 4 della Legge 31 dicembre 2012 n. 247 (Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense) prevede che «l’avvocato, nell’esercizio della sua attività, è soggetto alla legge e alle regole deontologiche». Il successivo art. 3  co. 3 aggiunge che «l’avvocato esercita la professione uniformandosi ai principi contenuti nel codice deontologico emanato dal CNF ai sensi degli articoli 35, comma 1, lettera d), e 65, comma 5. Il codice deontologico stabilisce le norme di comportamento che l’avvocato è tenuto ad osservare in via generale e, specificamente, nei suoi rapporti con il cliente, con la controparte, con altri avvocati e con altri professionisti. Il codice deontologico espressamente individua fra le norme in esso contenute quelle che, rispondendo alla tutela di un pubblico interesse al corretto esercizio della professione, hanno rilevanza disciplinare. Tali norme, per quanto possibile, devono essere caratterizzate dall’osservanza del principio della tipizzazione della condotta e devono contenere l’espressa indicazione della sanzione applicabile».

La deontologia dell’avvocato ruota dunque attorno alle norme contenute nel codice deontologico forense. Ma cosa sono le regole deontologiche? E dove si colloca il codice deontologico forense nel sistema delle fonti del diritto? Prima di provare a rispondere a questi quesiti, è utile porre alcuni cenni storici sulla nascita degli ordinamenti professionali e, in particolare, dell’ordine professionale forense.

2. Paolo Alvazzi del Frate scrive che «l’Ordine degli avvocati e dei procuratori fu istituito in Italia dalla Legge n. 1938 dell’8 giugno 1874. Con la nascita dell’Ordine si concludeva un lungo dibattito giuridico e politico che si era svolto, a partire dalla proclamazione del Regno d’Italia, sulla necessità di unificare la disciplina delle professioni forensi in tutto il territorio nazionale. A tal riguardo ebbero importanza fondamentale da un lato il modello francese, diffuso nella Penisola nel periodo napoleonico, e, dall’altro la tradizione, antica e profondamente radicata negli ordinamenti di diritto comune, delle corporazioni di mestieri. Sin dalla Restaurazione era apparsa evidente non solo la necessità di istituire forme di controllo statale, ma anche l’esigenza di autonomia di una professione la cui importanza e rilevanza politica erano ormai riconosciute per la garanzia dei diritti dei cittadini, anche nei confronti dello Stato»[1].

L’Autore ricorda che «la Francia aveva conosciuto negli anni della Rivoluzione una vicenda di grande interesse relativamente alle professioni forensi. Nel 1790 un’assemblea composta prevalentemente da hommes de loi (avvocati, procuratori e magistrati), quale l’Assemblea Costituente, aveva soppresso sic et simpliciter le funzioni degli avvocati in nome della libertà e dell’uguaglianza di fronte alla legge. La legge del 2 settembre 1790 stabiliva all’art.10, 5 co., che “gli uomini di legge, fino ad ora chiamati avvocati, non dovendo formare né un ordine, né una corporazione, non indosseranno alcun abbigliamento particolare [toga] nelle loro funzioni”. Stessa sorte subirono i procuratori nel 1792.

Nei tribunali comparvero allora i c.d. défenseurs officieux: “ognuno poteva venire in tribunale per assicurare la difesa di qualunque persona, in materia civile e in quella penale. Nessun condizione era necessaria, nessuna competenza era richiesta; nel nome della libertà, non era ammesso il diritto di proibire l’accesso al foro”. Gli inconvenienti derivanti dalla assenza di tecnici professionali del diritto nei processi furono innumerevoli (…). Fu il regime napoleonico a ripristinare le funzioni di avvocati e procuratori – da allora definiti avoués – e a creare un Ordine professionale degli avocats con il decreto imperiale del 14 dicembre 1810». Recuperata – con l’abrogazione della legge del 1790 – la toga sfilata loro dai rivoluzionari d’Oltralpe, gli avvocati puntarono quindi alla ricostituzione di una consapevolezza corporativa, che fosse funzionale alla garanzia di indipendenza nell’esercizio della professione.

3. L’altro aspetto da tener presente per ben contestualizzare le vicende storiche che portarono alla nascita dell’ordine degli avvocati è che sin dalla fine del diciottesimo secolo nel Regno di Sardegna[2] le corporazioni degli avvocati e dei procuratori avevano subito una limitazione delle loro tradizionali prerogative e, nel più generale quadro di accentramento statale, erano finite sotto il rigido controllo della magistratura, cui in alcuni casi era addirittura attribuito il potere di sospendere l’avvocato[3]. La costituzione di un ordine professionale autonomo rispondeva, dunque, anche all’esigenza di recidere quel vincolo di dipendenza dalla magistratura, che nel sistema sabaudo era particolarmente accentuato.

Dopo il periodo napoleonico, quando gli Ordini degli avvocati furono organizzati in tutta Italia sul modello francese, sorse l’esigenza di una legislazione uniforme su tutto il territorio nazionale; si giunse così alla Legge 8 giugno 1874 n. 1938, con cui viene tra l’altro previsto che i Consigli degli Ordini «reprimono, in via disciplinare, gli abusi e le mancanze di cui gli Avvocati si rendessero colpevoli nell’esercizio della loro professione» (art. 24[4]).

Le regole deontologiche nascono in questo contesto, come forma di diritto che origina dal basso, per impulso degli organi rappresentativi delle categorie professionali (gli Ordini, per l’appunto), e costituiscono regole di comportamento volte anzitutto al presidio di quei canoni di decoro e di indipendenza della professione forense, che nella menzionata Legge 8 giugno 1874 n. 1938 già fanno la loro comparsa. Esse rappresentano dunque la rivendicazione da parte dell’avvocatura della capacità di organizzarsi autonomamente, fuori dai vincoli e dall’egida in precedente su di essa imposta dal sistema di controllo affidato alla magistratura.

4. Tornando all’attualità, dobbiamo notare che di tale genesi risente anche la prima ermeneutica delle norme deontologiche fatta propria dalla Corte di Cassazione, secondo cui «le disposizione dei codici deontologici predisposti dagli Ordini professionali, se non recepite direttamente da una norma di legge (ad esempio in materia di segreto professionale, tutelato anche nei confronti dell’autorità giudiziaria), non hanno né la natura né le caratteristiche di norme di legge, come tali assoggettabili al criterio interpretativo di cui all’art. 12 delle preleggi, ma sono espressione dei poteri di autorganizzazione degli Ordini (o Collegi) si da ripetere la loro autorità – come evidenziato in dottrina – oltre che da consuetudini professionali anche da norme che i suddetti Ordini (o Collegi) emanano per fissare gli obblighi di correttezza cui i propri iscritti devono attenersi e per regolare la propria funzione disciplinare»[5].

Una posizione, questa, che riduce in sostanza le norme deontologiche a quaestio facti, con i conseguenti limiti per un’interpretazione diretta sulle stesse da parte della Corte di Cassazione: «alla stregua di quanto ora detto, quindi, le suddette disposizioni vanno interpretate nel rispetto dei canoni ermeneutici fissati dagli artt. 1363 c.c. e segg., sicché è denunziabile in Cassazione ex art. 360 c.p.c., n. 3 la violazione o falsa applicazione dei suddetti canoni – con la specifica indicazione di quelli tra essi in concreto disattesi – oltre che il vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5 non riscontrabile allorquando – come nel caso di specie – si intenda far prevalere sulla logica e coerente interpretazione seguita nel giudizio di merito una diversa opzione ermeneutica patrocinata dalla parte ricorrente»[6].

5. Va peraltro dato conto che il predetto orientamento “tradizionale” è stato via via abbandonato dai giudici di legittimità, con una serie di pronunce culminate con la sentenza del 20 dicembre 2007, n. 26810, con la quale le Sezioni Unite Civili sconfessano la propria precedente ermeneutica, attraverso una strutturata motivazione: «l’esposto orientamento è contrastato da Cass. 23 marzo 2004 n. 5776 e Cass. 14 luglio 2004 n. 13078. Mentre la prima delle due sentenze si limita a dare atto che si va delineando nella giurisprudenza di questa Corte un indirizzo secondo cui, nell’ambito della violazione di legge, va compresa anche la violazione delle norme dei codici deontologici degli ordini professionali, trattandosi di norme giuridiche obbligatorie valevoli per gli iscritti all’albo che integrano il diritto oggettivo ai fini della configurazione dell’illecito disciplinare, la seconda (Cass. 13078/2004) sviluppa un ampio ed articolato esame critico del primo orientamento, i cui argomenti fondamentali si possono così riassumere:

1. I consigli nazionali degli ordini professionali previsti dal D. Lgs. Lgt. 23 novembre 1944, n. 382, costituiscono organi speciali di giurisdizione nella materia disciplinare per i rispettivi iscritti, previsti dalla sesta disposizione transitoria della costituzione;

2. Ne consegue che i ricorsi per cassazione avverso tali decisioni sono proposti ai sensi dell’art. 111 Cost., ammessi soltanto per violazione di legge, per cui non è consentita la deduzione di vizi di motivazione previsti dall’art. 360 c.p.c., n. 5;

3. L’interpretazione delle clausole contrattuali costituisce una quaestio facti perchè ha per oggetto “la comune intenzione delle parti” (art. 1362 c.c.,), e cioè la loro volontà, la cui indagine rientra nel merito della causa. Il codice deontologico contiene, invece, norme giuridiche, sia pure (normalmente) rilevanti nel solo ordinamento interno dell’ordine professionale che le ha approvate.

Rispetto alle norme giuridiche non rileva l’indagine sulla volontà di chi le ha emanate, ma valgono i diversi criteri elaborati per l’interpretazione delle norme giuridiche, e cioè per la soluzione delle questioni di diritto.

4. L’interpretazione diretta della norma del codice deontologico, da parte della Corte di legittimità, non viola l’autonomia dell’ordine professionale. Questa autonomia si estrinseca nell’approvazione del codice deontologico (consentita dall’ordinamento generale in modo espresso od implicito), codice che, una volta emanato, costituisce una autoregolamentazione vincolante nell’ambito dell’ordinamento di categoria (Cass. 6 giugno 2002 n. 8225), e quindi sia per i singoli professionisti che per gli organi dell’ordine.

5. L’orientamento tradizionale che qualifica in ogni caso l’interpretazione del codice deontologico come quaestio facti non permette un sindacato di questa Corte su detta interpretazione se non sotto l’aspetto della mera esistenza di una motivazione a suo sostegno. Viene così a mancare una effettiva garanzia dell’incolpato che ritenga di avere rispettato la norma del codice deontologico e non si realizza la funzione del codice deontologico di autoregolamentazione vincolante non solo per il singolo professionista, ma anche per lo stesso ordine professionale.

6. Una conferma indiretta dell’assetto insoddisfacente, sotto l’aspetto della tutela giurisdizionale del professionista, derivante dall’orientamento tradizionale può trarsi proprio dalla sentenza delle Sez. un. 10 luglio 2003 n. 10842, perché detta sentenza ha analiticamente considerato l’art. 15 del codice deontologico forense sulla ed. tassa parere per la liquidazione degli onorari da parte del consiglio dell’ordine (3.4 e 3.5 della motivazione) in modo ben più ampio di quanto richiesto dalla mera constatazione che l’interpretazione datane dalla decisione impugnata era motivata in modo rispettoso dell’art. 1363 c.c., e segg., finendo in effetti con il convalidare con la propria diretta interpretazione della norma deontologica la interpretazione datane dal Consiglio nazionale forense, ai fini della sussistenza del (confermato) illecito disciplinare del professionista, che contestava detta interpretazione.

Il secondo orientamento sopra riassunto, all’esito di un’attenta verifica da parte di queste Sezioni Unite, risulta ancorato a dati ordinamentali e perciò preferibile, per i seguenti motivi:

1. Mentre i Consigli dell’Ordine territoriali esercitano funzioni amministrative, anche quando operano in materia disciplinare, il Consiglio Nazionale Forense, allorchè pronunzia in materia disciplinare, è un organo giurisdizionale (ex pluribus, da ultimo, SS.UU. 23 1 aprile 2004 n. 6406, 23 gennaio 2004 n. 1229, 22 luglio 2002 n. 10688, 11 febbraio 2002 n. 1904 e, nello stesso senso, Corte cost. 12 luglio 1967 n. 110, 6 luglio 1970 n. 114 in motivazione, 2 marzo 1990 n. 113).

2. Il D. Lgs. Lgt. 23 novembre 1944, n. 382, che detta norme sulle funzioni dei consigli degli ordini professionali in materia disciplinare, si applica anche (artt. 18 e segg.) alle professioni di avvocato (e prima di procuratore), ed al Consiglio nazionale forense contestualmente istituito dal D. Lgs. Lgt. 23 novembre 1944, n. 382, art. 21.

3. La sesta disposizione transitoria della Costituzione prevede la revisione degli organi speciali di giurisdizione al momento esistenti. Tale norma è stata interpretata dal giudice delle leggi (Corte Cost. sent. 19 dicembre 1986 n. 284) nel senso che il termine di revisione non è perentorio; pertanto, mentre per gli ordinamenti professionali posteriori alla Costituzione (entrata in vigore il 1 gennaio 1948) vige il divieto posto dall’art. 102 Cost., comma 2, di istituire nuove giurisdizioni non solo straordinarie ma anche speciali, per quelli anteriori all’emanazione della carta costituzionale (tra i quali rientra il Consiglio nazionale forense, di cui al precedente D. Lgs. Lgt. 23 novembre 1944, n. 382) continua a trovare applicazione la sesta disposizione transitoria, secondo cui gli organi di giurisdizione speciale già esistenti nel nostro ordinamento continuano ad essere operanti.

4. Pertanto il Consiglio nazionale forense, allorchè pronuncia in materia disciplinare, è un giudice speciale istituito con D. Lgs. Lgt. 23 novembre 1944, n. 382, e tuttora legittimamente operante.

Le norme che lo concernono, nel disciplinare rispettivamente la nomina dei componenti del Consiglio nazionale ed il procedimento che davanti al medesimo si svolge, assicurano per il metodo elettivo della prima e per la prescrizione, quanto al secondo, dell’osservanza delle comuni regole processuali e dell’intervento del P.M. il corretto esercizio della funzione giurisdizionale affidata al suddetto organo in tale materia, con riguardo all’indipendenza del giudice, all’imparzialità dei giudizi e alla garanzia del diritto di difesa. (Cass. Sez. un. 23 marzo 2005 n. 6213).

Quello che si svolge davanti al Consiglio Nazionale Forense è un giudizio di carattere giurisdizionale e si conclude con sentenza, pronunciata in nome del Popolo Italiano (R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, art. 64, come successivamente modificato), impugnabile davanti alle Sezioni Unite: del citato R.D. n. 1578 del 1933, art. 56, comma 3, (Sezioni Unite: sent. 10 maggio 2001, n. 187, 2 aprile 2003 n. 5072).

5. Le norme del codice deontologico forense in materia di responsabilità disciplinare degli avvocati, elencanti i comportamenti che il professionista deve tenere con i colleghi, con la parte assistita, con la controparte, con i magistrati ed i terzi, costituiscono esplicitazioni dei principi generali, contenuti nella legge professionale forense (Sezioni Unite 6 giugno 2002 n. 8225).

6. L’indiscusso carattere giurisdizionale del processo avanti al Consiglio nazionale forense in sede disciplinare non implica di per se che tutti i criteri decisori del giudice speciale siano costituiti da norme di legge. 

Detto carattere deriva alle norme del codice disciplinare dalla delega loro effettuata dalla legge statale (nella specie R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578 e D. Lgs. Lgt. 23 novembre 1944, n. 382) e dalla loro funzione di parametro normativo generale alla stregua del quale valutare la condotta dei professionisti iscritti. Trattasi di un processo di formazione legislativa, attraverso il rinvio alle determinazioni dell’autonomia collettiva, che assumono così, per volontà del legislatore, una funzione integrativa della norma legislativa in bianco, ampiamente studiata e sostenuta dalla dottrina ed applicata nei vari campi del diritto. In particolare tale processo formativo del precetto legislativo è frequente nella disciplina del lavoro e previdenziale: ad esempio in tema di minimi contributivi (D.L. 9 ottobre 1989, n. 338, art. 1, convertito, con modificazioni, nella L. 7 dicembre 1989, n. 389); in tema di deroga alla tutela della professionalità prevista dall’art. 2103 c.c., comma 2, (per la quale il comma 3, sancisce la sanzione di nullità di qualsiasi accordo contrario), consentita viceversa agli accordi collettivi, indipendentemente dal consenso del lavoratore affetto, e dalla stessa iscrizione al sindacato stipulante, in caso di crisi aziendale, dalla L. 23 luglio 1991, n. 223, art. 4, comma 11.  In tali casi, ed altri numerosi consimili, la Corte di legittimità procede all’esame diretto dell’intero precetto legislativo, quale risulta dalla norma di rinvio e dalla fonte collettiva che lo integra, la quale, nel caso citato, non avrebbe di per sé nessun altro titolo per essere vincolante nei confronti del destinatario (per la prima fattispecie: Cass. 7 marzo 2002 n. 3311; Cass. 7 novembre 2003 n, 16762; Cass. 26 settembre 2005 n. 18761; per la seconda: Cass. 7 settembre 2000 n. 11806). La fonte pattizia, nel momento in cui assume valore di legge, entra in questa categoria normativa e ne segue i criteri interpretativi, Una diversa opinione, che demandasse al giudice del merito l’esame della fonte contrattuale che integra il precetto di legge, priverebbe la Corte di legittimità della sua funzione nomofilattica ed esporrebbe i cittadini alla possibilità di esiti giurisprudenziali contrastanti, ove si segua quella giurisprudenza diffusa, la quale sostiene che i criteri logici che presiedono al vaglio della correttezza interpretativa ai sensi degli articoli 1362 e seguenti codice civile, possono legittimamente lasciar filtrare interpretazioni dei giudici del merito contrastanti ed opposte della medesima clausola contrattuale.

Tale esito non sembra ammissibile in presenza di un codice deontologico che può incidere, come ad esempio con la sanzione disciplinare della radiazione dall’albo, su diritti soggettivi sorti sulla base di norme di legge. D’altra parte, poichè il controllo di legittimità è limitato alla constatazione della assenza di motivazione o alla presenza di una motivazione puramente apparente (ex pluribus Cass. Sez. un. 2 aprile 2003 n. 5072) e non può estendersi all’apprezzamento della rilevanza del fatto assunto nel capo di incorporazione (Cass. 11 marzo 2004 n. 5038), la negazione di un potere di interpretazione diretta della norma incriminatrice priverebbe il controllo di legittimità di qualsiasi contenuto».

6. Secondo il condivisibile assunto delle Sezioni Unite, quindi, benché promanino da una fonte pattizia, le norme del codice deontologico forense costituiscono fonti normative integrative di precetto legislativo, che attribuisce al Consiglio Nazionale Forense il potere disciplinare, con funzione di giurisdizione speciale appartenente all’ordinamento generale dello Stato; come tali, esse sono direttamente interpretabili dalla corte di legittimità.

Se peraltro la qualificazione delle norme contenute nel codice deontologico forense come fonti normative integrative del precetto legislativo ne consente la diretta interpretazione da parte del giudice di legittimità, non altrettanto sembra potersi affermare circa la possibilità di una autonoma denuncia di illegittimità costituzionale che si volesse sollevare nei confronti di un singolo canone deontologico: «assunta in modo solipsistico, la disposizione del codice deontologico costituisce atto privo della forza di legge, conseguendo tale forza solo all’integrazione del precetto legislativo. Di un atto privo della forza di legge non può essere predicata l’illegittimità sul piano costituzionale»[7].

È condivisibile la posizione espressa da Giuseppe Colavitti, secondo cui il rango di fonti normative integrative di precetto legislativo, riconosciuto alle norme contenute nel codice deontologico dalla più recente giurisprudenza delle Sezioni Unite, i significa che «lo Stato ha deciso di affidare alla stessa comunità di professionisti la cura dell’interesse pubblico al corretto esercizio della professione» e che «sono gli stessi professionisti, organizzati in istituzioni democraticamente elette a vigilare sulle condotte professionali, a esercitare la cosiddetta giustizia domestica, a elaborare i codici deontologici, che formano il corpus di regole che appunto informano e conformano la professione»[8]; il medesimo Colavitti riprende sul tema il pensiero di Francesco Galgano, il quale «ha valorizzato l’elaborazione deontologica in collegamento con la migliore tradizione giuridica italiana in tema di comunità intermedie e pluralità degli ordinamenti giuridici, da preservare rispetto ad una “visione statalistica del diritto, che è un portato del positivismo giuridico, la quale non concepisce altro diritto che non sia il diritto dello Stato, e non sa immaginare altra comunità organizzata che non sia lo Stato-comunità”»[9].

Il posizionamento delle norme di deontologia nel sistema delle fonti assume in questo specifico ambito una assoluta rilevanza, perché consente di misurare il rapporto tra Stato e corpi intermedi: quanto più lo spazio riservato all’autonomia deontologica sarà contratto, tanto più ci troveremo in presenza di un centralismo che tende a soffocare le formazioni sociali più prossime alla persona. Per questo è auspicabile una valorizzazione degli strumenti di autonomia riservati agli Ordini professionali, quali appunto le norme deontologiche.

Riflessioni, queste, che aprono a prospettive di ulteriore approfondimento rispetto al tema – non ancora compiutamente esplorato – di una possibile antinomia tra la singola norma contenuta nel codice deontologico e una legge dello Stato. Ma su questo torneremo.

Angelo Salvi


[1] P. Alvazzi Del Frate, Sulle origini dell’ordine degli avvocati dall’Ancien Régime all’Italia liberale, in Panorami, riflessioni, discussioni e proposte sul diritto e l’amministrazione, VI (1994), pp. 17-31, (reperibile anche in https://www.avvocati-imperia.it/ordine%20avvocati.pdf).

[2] Che, come noto, avrebbe poi realizzato la riunificazione dei vari Stati esistenti nella Penisola.

[3] L’art. 3 delle Costituzioni di S.M. il Re di Sardegna del 1770 prevedeva che: «ogni volta che il Magistrato, Prefetto, o Giudice nella spedizione della lite riconoscerà, che l’Avvocato avrà patrocinato contro il proprio giuramento una qualche Causa, dovrà condannarlo nella stessa sentenza alla pena della sospensione per un anno, ed al risarcimento di tutte le spese, e danni verso le Parti».

[4] Testo reperibile al seguente link: http://www.ordineavvocatifirenze.eu/wp-content/uploads/2016/01/Legge-del-8.6.1874-n.-1938.pdf.

[5] Così Cass. civ., Sez. Unite, 10 luglio 2003, n. 10842.

[6] Cass. civ., Sez. Unite, 10 luglio 2003, n. 10842.

[7] Cass. civ., Sez. Unite, sentenza 8 marzo 2022, n. 7501.

[8] Intervento del Prof. Giuseppe Colavitti al convegno “Fine-vita: deontologia e legge dello Stato. Problemi e prospettive per il medico in vista della decisione della Corte costituzionale”, organizzato dal Centro studi Livatino in data 20 settembre 2019, ascoltabile al seguente link: http://www.radioradicale.it/scheda/584958/fine-vita-deontologia-e-legge-dello-stato-problemi-e-prospettive-per-il-medico-in.

[9] G. Colavitti, Concorrenza, statalismo e crisi dell’autonomia deontologica, in Rivista AIC, 4, 2006, p. 39.

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