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Nella filosofia antica, sofisti, quali Glaucone e Trasimaco, contrappongono il nomos alla physis, e sostengono che le leggi vengono fatte sulla base di una convenzione fra gli uomini perché ognuno si astenga dall’offendere un suo simile a condizione che il suo simile si astenga dall’offendere lui. Questa tesi è ripresa da Epicuro e da Lucrezio. Il libro V del De Rerum Natura di Lucrezio (I a.C.) è, a parte gli accenni dei Sofisti, il primo documento della teoria del contratto sociale, che avrà largo successo in età moderna (la ritroveremo in Hobbes, Locke e Rousseau).

Le notizie a nostra disposizione riguardo alla biografia di Tito Lucrezio Caro sono scarse e controverse: nulla sappiamo del suo luogo di nascita e del suo ambiente formazione, né ci vengono in soccorso indizi interni alla sua opera, il De rerum natura, tanto che si può dire che forse egli, epicureo fino in fondo, si nasconde all’interno del testo, in accordo con il precetto del maestro «vivi nascosto».

La nostra fonte più importante è San Girolamo (347-419 d.C.) che tradusse il Chronicon di Eusebio (260-339 d.C.), integrandolo con notizie su vari autori latini tratte dal De poetis di Svetonio: nell’anno della Olimpiade CLXXI, cioè nel 94-93 a.C. egli annota infatti che Titus Lucretius poeta nascitur, qui postea amatorio poculo in furorem versus, cum aliquot libros per intervalla insaniae conscripsisset, quos postea Cicero emendavit, propria se manu interfecit anno aetatis XLIV.

«Nasce il poeta Tito Lucrezio, che in seguito, impazzito per effetto di un filtro d’amore, dopo aver scritto negli intervalli di lucidità della follia alcuni libri, che poi Cicerone rivide per la pubblicazione, si uccise di propria mano all’età di 44 anni»: la data di morte viene così a collocarsi intorno al 50 a.C.

Il poema di Lucrezio è costituito da più di 7.000 esametri, divisi in sei libri. L’opera propone la cura del timore della morte e dell’aldilà attraverso la filosofia della natura e offre una spiegazione razionale e atomistica di tutti i fenomeni naturali, compresi quelli che scaturiscono dalla psiche umana.

Alla fede nel soprannaturale e nella provvidenza il poeta propone di sostituire la fede nel reale, basata sull’evidenza dei sensi, e promette di raggiungere una felicità immanente e in piena sintonia con la natura. Il titolo del poema lucreziano richiama sia quello del Peri physeos di Epicuro, sia quello del poema sulla natura di Empedocle, che secondo alcuni sarebbe servito da modello principale per il De rerum natura.

Se, da un lato, Epicuro aveva fornito a Lucrezio i contenuti della dottrina, dall’altro il poema di Empedocle gli aveva mostrato la possibilità di tradurre la filosofia in versi. Anche senza voler privilegiare uno di questi modelli, è chiaro che il titolo scelto da Lucrezio era perfettamente coerente con i contenuti del poema, nel quale i temi legati all’ indagine scientifica sono privilegiati rispetto a quelli etici e politici che altri Epicurei a lui contemporanei, Filodemo in primis, ritenevano più consoni agli interessi filosofici dei Romani.

Nel I libro, composto vegliando durante le notti serene (I, 142), Lucrezio parte dall’assumo, che verrà dimostrato in seguito, che tutte le cose sono costituite da atomi indistruttibili ed enuncia il principio generale per cui nulla può nascere dal nulla (I, rs3-154) e nulla può ridursi in nulla (I, 2rs-2r6).

Il poeta passa poi alla dimostrazione dell’esistenza del vuoto (I, 329 ss.), grazie a cui si possono spiegare la diversa consistenza materiale delle cose e la possibilità del moto dei corpi. Successivamente Lucrezio offre una trattazione delle caratteristiche degli atomi, descrivendo le ragioni della loro indivisibilità e immutabilità e la natura delle parti minime che conferiscono loro forme differenti.

Passa poi in rassegna (I, 63s-920) le filosofie della natura di Eraclito, Empedocle e Anassagora, per concludere con un’affermazione dell’infinità dell’universo. Il n libro spiega come si formano i corpi (n, 62 ss.), le velocità e i moti degli atomi (n, 143 ss.), la declinazione (clinamen) degli atomi (n, 216-293), la varietà delle forme atomiche (n, 333 ss.), le combinazioni dei corpi composti e le leggi che presiedono a fissarne il numero secondo regole certe (n, 66r ss.).

Lucrezio spiega poi l’origine non atomica dei colori (II, 730 ss.), dimostra la mancanza negli atomi di altre qualità secondarie e della sensibilità (n, 843 ss.), e, verso la conclusione, elenca una serie di argomenti a favore dell’esistenza di una pluralità di mondi, illustrando le dinamiche della loro nascita e della loro estinzione (II, 102.3 ss.).

Nel III libro Lucrezio mostra che mente e anima sono parti integranti del corpo e che sono composte da atomi sottilissimi (III, 94 ss.). La parte centrale e più estesa del libro è costituita dalle 2.9 dimostrazioni della mortalità dell’anima (m, 417 ss.), a cui seguono le ragioni per non temere la morte (m, 830 ss.). Il IV libro si apre con le prove dell’esistenza dei simulacri: si tratta di membrane sottilissime che, staccandosi dagli oggetti e penetrando nelle pupille, rendono possibile la visione del mondo esterno (Iv, 54 ss.).

Lucrezio passa poi in rassegna alcuni fenomeni quali la riflessione (Iv, 2.69 ss.), le illusioni ottiche (Iv, 379 ss.) e la prospettiva (Iv, 42.6-431). A questa sezione ne segue una nella quale il poeta dimostra l’infallibilità dei sensi e la loro differente configurazione fisiologica (Iv, 469 ss.), ricondotta al tessuto atomico. Dopo una polemica contro il finalismo degli Stoici (Iv, 82.2.), Lucrezio illustra quindi l’origine delle sensazioni di fame e di sete (Iv, 858 ss.), del movimento volontario (IV, 878 ss.), del sonno (Iv, 907 ss.) e dei sogni (Iv, 962. ss.), concludendo con una lunga digressione sulla fisiologia e psicologia del sesso e dei sentimenti amorosi (Iv, 1037 ss.).

Il V libro si apre con una spiegazione di «come il mondo consista d’un corpo mortale e insieme nativo» (v, 6s-66). Lucrezio passa poi a dimostrare l’estraneità degli dèi alla creazione del mondo (v, 146 ss.), che, in virtù della sua natura mortale, è destinato a un lento e inesorabile deperimento: solo la somma dei mondi è eterna (v, 361). Alla descrizione della formazione del mondo (v, 416-so8) segue una lunga disamina sulla natura e sui moti degli astri. Dopo aver brevemente accennato alle diverse cause delle eclissi, Lucrezio affronta il tema dell’origine della vita e dell’evoluzione delle specie viventi e, dopo la comparsa dell’uomo, della cultura e delle civiltà (v, 772. ss.). Il libro, il più lungo del poema, si chiude con una visione moderatamente ottimistica a proposito dei progressi umani. Il VI libro affronta numerosi temi, che potremmo oggi associare alla meteorologia, alla geologia e alla medicina: il tuono (vi, 96 ss.), il lampo (vi, 160 ss.), il fulmine (vi, 2.19 ss.), la tromba marina (vi, 42.3 ss.), le nubi (vi, 451 ss.), i fenomeni atmosferici (vi, 495 ss.), i terremoti (vi, S3S ss.), la grandezza del mare (vi, 6o8 ss.), i vulcani (vi, 639 ss.), le piene del Nilo (vi, 703 ss.), gli Averni (vi, 738 ss.), i pozzi e le fontane (vi, 840 ss.), il magnete (vi, 906 ss.), per concludere con le epidemie e la peste di Atene (vi, 1090 ss.).

Nel breve riassunto dell’opera lucreziana si vede come il patto è quell’evento che da un lato, all’interno della narrazione lucreziana della storia dell’universo, fa sì che dall’unione degli atomi abbia origine il tutto esistente mentre dall’altro, nella narrazione della storia dell’umanità, permette all’uomo di evolversi dallo stato di primitiva indigenza verso uno stadio di compiuta civilizzazione e, contemporaneamente, fa sì che alcuni animali diventino domestici.

Infatti, allo stesso modo in cui la terra, per esistere, ha bisogno di un accordo tra gli atomi (i foedera natura di V 924), di modo che si crei un equilibrio fattuale che le permetta di svilupparsi, così gli esseri viventi hanno bisogno di accordarsi tra loro (i communia foedera pacis di V 1155) per raggiungere una certa stabilità.

E proprio come i foedera natura non possono essere infranti se non al prezzo di una regressione al caos e all’indifferenziato, così l’uomo civilizzato non può infrangere i patti stipulati con gli altri esseri viventi senza, con questo, provocare un regresso alla sua primitiva bestialità.

Il patto è, quindi, presentato come il mezzo attraverso cui l’essere umano intraprende la strada che conduce alla civiltà. La prima forma di patto descritta da Lucrezio è quella che vede come attori l’uomo e la donna; da esso seguono immediatamente gli altri due patti che questi alleati stipulano dapprima con la loro prole e poi coi loro vicini, in una sorta di progressione: il singolo, la coppia, la famiglia, la tribù.

Non appena uomo e donna decidono di condividere le loro esistenze, aiutandosi reciprocamente, si innesta una spirale virtuosa, per cui vengono inclusi, in tale collaborazione, tanto la progenie quanto i vicini e la bestiale solitudine delle origini viene, così, sostituita dalla civile convivenza dell’uomo evoluto; in tal modo, nascono il bene comune e le leggi che lo governano ed è proprio al sorgere delle prime comunità umane che Lucrezio sembra collocare l’Età dell’oro, quando il potere era affidato a uomini che si distinguevano per reali meriti personali.

Nella preistoria narrata nel quinto libro del poema di Lucrezio l’assenza delle leges e dei mores caratterizza una fase primitiva, in cui gli uomini vivevano a contatto con la natura e «non conoscevano regole, né quelle codificate nei mores né le leggi formalizzate» (Lucr. 5.958 s.): nec commune bonum poterant spectare neque ullis moribus inter se scibant nec legibus uti.

Nel quadro ambiguo della rappresentazione lucreziana del progresso, fra le cui maglie si insinua un pessimismo lontano dai presupposti teorici evoluzionistici, il diritto arriva dopo la fine cruenta della monarchia primitiva, in seguito ad un periodo di disordine e di violenza.[1]

Gli esseri umani si sottomettono spontaneamente alle leggi, stanchi di una vita trascorsa nella brutalità e di una giustizia procurata con mezzi personali, molto più crudele di quella stabilita da giuste leggi (Lucr. 5.1143-1150): inde magistratum partim docuere creare iuraque constituere, ut vellent legibus uti. Nam genus humanum, defessum vi colere aevum, ex inimicitiis languebat; qui magis ipsum sponte sua cecidit sub leges artaque iura. Acrius ex ira quod enim se quisque parabat ulcisci quam nunc concessumst legibus aequis, hanc ob rem est homines pertaesum vi colere aevum.

La teoria del contratto è, quindi, un elemento essenziale nella teoria della giustizia lucreziana  e di quella epicurea. Epicuro pensava, infatti, che la giustizia consistesse nell’accordo tra gli umani di non aggredire e non essere aggrediti. Non la considerava un elemento naturale del carattere umano o una norma trascendente, piuttosto un’invenzione prudente volta a fornire sicurezza, o libertà dalle preoccupazioni; il vero piacere, egli sosteneva, sarebbe stato irraggiungibile fintanto che l’uomo avesse pregato un essere “altro”.

Inoltre, la giustizia era secondo il filosofo greco rigidamente subordinata alla richiesta di sicurezza personale e non avrebbe avuto motivo di esistere se non fosse stata funzionale al raggiungimento della securitas.

Egli pensava che alcuni animali – ma non sappiamo se tutti gli animali – e alcuni umani non fossero in grado di fare accordi di non aggressione e, quindi, di essere inclusi nella definizione di giustizia e ingiustizia.

Per tutti quegli animali che non poterono stringere patti per non ricevere né recarsi danno reciprocamente, non esiste né il giusto né l’ingiusto, altrettanto per tutti quei popoli che non vollero o non poterono porre patti per non ricevere e non recare danno. [2]Evidentemente il filosofo, in questa massima, suddivide il mondo dei viventi in due categorie distinte, sulla base della loro capacità e volontà di definire le loro azioni attraverso i criteri del giusto e dell’ingiusto.

Purtroppo la cospicua perdita della produzione letteraria di Epicuro non ci permette, allo stato odierno, di indagare la sua riflessione rispetto agli animali non umani. Il fatto, però, che Lucrezio abbia dedicato parte considerevole del suo pensiero in proposito lascia presupporre che anche il suo maestro si fosse interrogato in tal senso.

La fedeltà agli accordi è secondo il poeta conditio sine qua non per vivere sereni (cioè in una pacifica società civile): infrangere gli accordi è male perché comporta un aumento di ansia prima di tutto nel soggetto fedifrago e, in seconda battuta, in quello che subisce la violazione. Perciò, sebbene l’etica lucreziana, come quella epicurea, sia basata sul singolo individuo che agisce in vista della propria felicità, essendo rivolta a esseri viventi che vivono in comunità, essa finisce per divenire un’etica comunitaria, dove bene e male seguono dal rispetto degli accordi pattuiti con il resto dell’esistente.

Tuttavia  Lucrezio, sebbene fedele alla teoria della giustizia del suo maestro, vi aggiunge un elemento importante, ovvero il contratto animale[3]: in V 860 sgg. egli parla di un contratto uomo-animale che riprende fedelmente il contratto uomo-uomo descritto da Epicuro stesso, secondo cui l’impulso alla cooperazione era un calcolo dei vantaggi che sarebbero potuti seguire a tale rapporto.

Quest’ultimo è un patto di non aggressione stretto tra uomini aventi pari capacità; mentre il primo è un tacito accordo di scambio di beni e servizi: cibo e protezione dai predatori in cambio di servigi nei lavori quotidiani – in una formula, tutela per utilitas.

Ma, nonostante le differenze, queste due forme di contratto si assomigliano in quanto entrambe, in primo luogo, hanno origine nella coscienza propria dei soggetti in causa che un mutuo rispetto delle regole assicura una migliore possibilità di sopravvivenza alle parti; e, in secondo luogo, perseguono come fine la securitas[4], ovvero il sommum bonum epicureo in quanto liberazione dalle preoccupazioni.

Attribuendo anche agli animali la capacità di scegliere se allearsi con l’essere umano in vista della propria sopravvivenza[5], il De rerum natura offre una versione della storia della domesticazione non incentrata sul solo essere umano.

Il mantenimento dei reciproci benefici raggiunti attraverso la stipulazione di tale contratto, inoltre, non dipende dalla sola componente umana ma dalla volontà di entrambe le parti di prestar fede agli accordi stipulati. Ma se, per parte loro, gli animali non interrompono mai le loro attività utili all’uomo, questi, al contrario, manca sovente di prestar fede alla sua promessa di protezione.

Pertanto la trasgressione dei patti avviene in modo unilaterale da parte di quegli uomini che, ignoranti della vera pace che segue dalla fedeltà alla natura e alle sue leggi, inseguono vane vittorie infrangendo gli accordi primigeni.

E proprio a partire da tale caratteristica si riconoscono, da un lato, coloro che, in ogni momento della storia, hanno capito il giusto rapporto con il prossimo e, dall’altro, quanti non l’hanno capito. In questo senso la morale lucreziana si configura come una morale del rispetto: rispetto, innanzitutto, del vivente in quanto senziente, dal momento che la sensibilità è la caratteristica che accomuna tutti gli animali, quelli umani e quelli non umani; e, in secondo luogo, rispetto di quelle regole, di quelle norme, di quei patti, che stanno alla base della nostra civiltà.

Per tale ragione Lucrezio condanna moralmente ciò che va contro tale processo di civilizzazione e riporta l’uomo alla condizione di primordiale bestialità: in particolare la sua critica si volge contro la fonte di tutti i mali, il timore della morte che atterrisce ogni uomo, la quale lo induce ad infrangere quei patti imprescindibili per percorrere la strada che conduce alla felicità.[6]

Daniele Onori


[1] Sulla versione lucreziana della nascita del diritto cfr. G. CAMPBELL, Lucretius on Creation and Evolution. A Commentary on De rerum natura 5.772-1104, Oxford 2003, 217 ss., 252 ss., il quale sottolinea il carattere non positivo dell’assenza in Lucrezio di norme giuridiche, in quanto dovuta alla asocialità e all’inesistenza di relazioni fra gli uomini (sulle ‘preistorie’ nella letteratura antica, in generale, cfr. «Appendix» B, 336 ss.)

[2] Cfr. Epic., Massime Capitali, XXXII

[3] Cfr. J. A. Shelton, Lucretius on the Use and Abuse of Animals, «Eranos», 94 (1996), pp. 51-52.

[4] Cfr. Shelton, Lucretius on the Use, cit., in particolare p. 50 dove, a proposito del patto uomo-animale, l’autrice riscontra un’affinità tra la tesi lucreziana e quella di Stephen Budiansky per cui l’addomesticamento è un bisogno naturale e che certe specie scelgono di cooperare con un’altra. Cfr. S. Budiansky, The covenant of the Wild, William Morrow & Co, New York 1992

[5] Shelton, Lucretius on the Use, cit., p. 50.

[6] A.Massaro, Gli animali in Lucrezio in Silvæ  di latina didaxis anno xiv nr. 39 – 40 maggio – dicembre 2013

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