L’approdo di Hervada al realismo giuridico classico, cui giunse studiando l’opera di Michel Villey, segna l’inizio della sua speculazione gius-filosofica, accanto a quella canonistica, avente ad oggetto i fondamenti metafisici del diritto naturale. L’identificazione del diritto con la res iusta, e della giustizia con l’arte, propria del giurista, di dire e determinare la cosa giusta, permette alla sua costruzione teoretica di attingere e aprirsi ad una nozione sostanzialista della giustizia. La sua esistenza oggettiva fa tutt’uno con la concezione della speciale dignità personale dell’uomo, sulla cui naturale apertura dialogico-relazionale al proprio simile, fondare ontologicamente il diritto stesso.
- Nella vasta e profonda opera di Javier Hervada Xiberta (Barcellona 1934 – Pamplona 2020), solitamente si distinguono due fasi, segnate dal passaggio da un realismo puramente concettuale al realismo giuridico classico[1]. Fino al 1979 circa, come discepolo diretto e diletto di Pietro Lombardia, egli ha concentrato la ricerca su questioni relative al diritto canonico. Solo dal 1979, avendo studiato a fondo l’opera di Michel Villey, Hervada prende coscienza, da un lato, che il diritto non è altro che la cosa giusta, l’ipsa res iusta, con tutto ciò che comporta, e, dall’altro, allarga i suoi orizzonti scientifici verso la Filosofia del diritto propriamente intesa, oltre che verso il Diritto naturale[2]. Nel corso della sua opera, ha formulato una sintesi paradigmatica del realismo giuridico classico, scientificamente esposto nella “Introduzione critica al diritto naturale” (1981). Realismo giuridico classico che alla fine degli anni 1980 avrebbe approfondito in “Apuntes para una exposición del realismo jurídico clásico” e che all’inizio degli anni 1990 traspose, poi, in obbedienza a finalità di natura didattica, in “Lecciones Propedéuticas de Filosofía del Derecho” (1992). Alcune delle costruzioni concettuali ivi messe a punto costituiranno i fondamenti del pensiero filosofico-giuridico hervadiano. Il presente scritto si propone di analizzare, seppure sinteticamente, tali preponderanti formulazioni dogmatiche, iniziando dalla nozione di ius.
- Ius è un termine tecnico messo a punto dai giuristi romani per designare l’oggetto stesso della loro arte, ovvero, i loro pronunciamenti dispositivi e gli oggetti degli stessi, ciò che il giurista determina e dice sentenziando. Da ius derivano iustum e iustitia: l’arte del giurista consiste nel dire o determinare ciò che è iustum, ciò che è secondo iustitia. La giustizia di per sé non identifica la virtù propria del giurista, che è piuttosto rappresentata dalla prudenza: la iuris-prudentia è appunto la conoscenza pratica del diritto, un’operazione sintetica della mente, più che della volontà. La giustizia, nel suo contenuto concreto, ha a che fare con la virtù di dare a ciascuno il suo[3]. Quest’idea di giustizia aveva avuto due formulazioni pregresse nel diritto romano: “Ius suum cuique tribuendi” e “Suum cuique tribuere”. Entrambe sono presenti nel Digesto. Ius suum e suum sono dunque sinonimi, perché il diritto di ciascuno – nel pensiero degli autori della formula, che ha il suo antecedente in Aristotele ed è ripresa da Tommaso d’Aquino – è la cosa di ciascuno. Abbiamo quindi tre sinonimi: ius (diritto), ciò che è proprio (di ciascuno) e ciò che è giusto. Tre sinonimi per designare l’oggetto della giustizia e, correlativamente, l’oggetto dell’arte del giurista. Collegando l’arte del giurista con la virtù della giustizia, arriviamo alla conclusione che la scienza giuridica consiste nel dire e determinare ciò che appartiene a ciascuno, ciò che è giusto, ciò che è il suo diritto[4].
- Questo è il ius dal punto di vista del giurista. Certamente l’uomo deve dare a ciascuno il suo, ma la giustizia non consiste propriamente in questo dovere, quanto piuttosto nel compierla, nel dare e non nel dovere di dare a ciascuno il suo. Si dice “a ciascuno” per chiarire che la giustizia non si riferisce in generale a gruppi, classi o generi, ma essa dà il suo dovuto a ciascuno, a ogni singola persona, a ogni istituzione[5]. Cosa significa allora “suo”? Significa un’attribuzione esclusiva, qualcosa che è assegnato a un soggetto a esclusione di altri, e su cui esercita la condizione di dominio che è tipica e propria della persona umana[6].
- La relazione giuridica – la relazione di giustizia – è poi essenzialmente una relazione di debito, un rapporto di debito, e il diritto o ius è costituito come tale, ovvero, dalla cosa per sua natura dovuta. Pertanto, se è dovuto, come nel caso di ciò che chiamiamo debito in senso stretto, è anche esigibile dal titolare e – se esigibile – il relativo diritto è anche esecutivo, implica cioè il potere di esigere. Tale potere è ciò che definiamo diritto soggettivo. Se la giustizia consiste nel dare a ciascuno il suo diritto – il suo proprio, quello che è giusto -, allora perché ci sia un atto di giustizia deve esserci un diritto costituito. L’atto di giustizia sarà sempre un atto di secondo grado, un atto secondo, giacché presuppone l’atto primo di costituzione del diritto. La relazione giuridica è la relazione di giustizia. In questo tipo di relazione due o più soggetti sono in una posizione diversa e complementare rispetto a un diritto. Entrambi i soggetti o gruppi di soggetti – debitori e creditori – sono legati da un obbligo o da un rapporto obbligatorio o vincolante, cioè da un legame di natura giuridica. Di conseguenza, la relazione giuridica comprende: a) i soggetti, in posizione distinta e complementare; b) il vincolo giuridico; c) le diverse situazioni giuridiche rispettive: facoltà, doveri, poteri, ecc. che formano il contenuto del rapporto giuridico. La base del rapporto giuridico è sempre costituita dalla cosa giusta, ovvero, dal diritto[7].
- Non si può articolare una teoria del diritto senza far riferimento alla legge. La legge, in quanto tale, fa parte dell’insieme degli elementi che compongono il fenomeno giuridico, è cioè la causa e il mezzo del diritto. È una causa perché distribuisce le cose e le attribuisce, creando dei diritti; è un mezzo perché attraverso di essa si attribuiscono certe cose a certi soggetti. In una parola, la legge è la regola o norma del diritto. E poiché è funzione del giurista determinare il diritto, è chiaro che la funzione principale del giurista è l’interpretatio legis, l’interpretazione della legge. Ma il fine della funzione del giurista non è l’interpretazione della legge semplicemente, perché egli interpreta la legge per determinare e per dire il diritto, essendo non al servizio della legge in quanto tale, ma degli uomini e della giustizia. Interpretare la legge è determinare ciò che è giusto. Ma nelle relazioni umane, non tutto è giustizia. Vi sono anche altri doveri, che fanno capo ad altre virtù, quali la solidarietà, la carità, la misericordia e altre ancora, che generano dei doveri morali da combinarsi con quelli della giustizia. L’armonizzazione della giustizia con le altre virtù – cioè l’armonizzazione dei doveri morali che derivano da altre le virtù – dà origine, tra l’altro, all’equo. L’equità è la giustizia che attinge ad altre virtù ed è il risultato dell’armonizzazione dei doveri della giustizia con altri doveri. La funzione dell’equità è quella di migliorare la giustizia e quindi di promuovere il bene comune.
- Da questi due fondamenti, giustizia/equità e bene comune, derivano conseguenze determinanti, giacché il fondamento ultimo del diritto e della legge non è separabile dalla partecipazione umana all’Essere sussistente. In-mediatamente, però, la causa dell’attribuzione della cosa giusta, la causa dell’esistenza stessa del diritto, nella sua connotazione ontologica, sta nel fatto che l’uomo è una persona, dotata di auto-dominio, e quindi naturalmente creditrice/debitrice di certi beni e diritti[8]. Hervada difende così quello che si può chiamare un personalismo ontologico forte, e di conseguenza, l’uomo occupa nell’ordine universale un posto particolare come fine primo e più prossimo di tutta la creazione[9]. Come analogo di Dio, come imago Dei, egli è la sola creatura libera, intelligente, dotata di volontà, e quindi di dignità personale. Fin dagli esordi della sua speculazione, Hervada assume la definizione tomistica di persona come sostanza subsistens in rationali materia, seguendo così Boezio. Allo stesso modo, il Nostro distingue sempre la persona dall’individuo, poiché la prima aggiunge dignità all’individualità, motivo per cui, come avrebbe notato il Dottore Angelico, la persona è la massima pienezza della sostanza ed è caratterizzata dalla sua strutturale incomunicabilità. Allora, la radice ultima della personalità umana è da ricercare nella spiritualità che è propria dell’animo umano[10], sebbene questa personalità possa essere predicata solo in modo analogo, dalla sua partecipazione (nella misura in cui partecipa all’essere, l’uomo è buono) e ordinazione ai fini che gli sono propri. L’uomo, scriverà Hervada ne “L’ordo universalis“, “è un essere dinamico che tende al fine della creazione, attraverso la propria perfezione e la propria causalità”. È dunque, un homo viator, un uomo in viaggio, in transizione, un essere che si perfeziona accidentalmente perseguendo i fini cui è naturalmente ordinato[11].
- Hervada recupera la struttura metafisica di sostanza e accidente per trovare la soluzione al problema dell’essere dell’uomo: “Tutta la dimensione della realtà umana ci appare come un processo preordinato di tensione che termina in Dio come fine supremo“[12]. Il fine soprannaturale – la perfezione soprannaturale dell’uomo – è intimamente legato alla finalità naturale. Il fine naturale costituisce una base per il fine soprannaturale, sebbene sia subordinato ad esso, poiché l’ultimo fine, come insegnava San Tommaso, è giustamente il primo principio. È attraverso la Grazia che l’uomo può raggiungere la perfezione ontologica, la felicità perfetta: la visione dell’essenza divina. Tornando al personalismo ontologico, nella sua “Introduzione critica al diritto naturale”, Hervada conferma che il fondamento del diritto e della giustizia sta nel fatto che l’uomo è una persona, e l’essere persona in senso ontologico non può essere separato dall’essere persona in senso giuridico, “perché gli uomini, per natura, sono soggetti di diritto“. Tesi quest’ultima che il Nostro riaffermerà anche nelle “Lezioni propedeutiche di filosofia del diritto”, dove espressamente si riferisce alla struttura dialogico-relazionale della persona, nella misura in cui c’è nella persona un’apertura entitativa e identitaria al mondo circostante e in modo particolare alle altre persone in cui radicare l’esistenza ontologica del diritto.
Antonio Casciano
[1] Herrera, C., «Nota a la segunda edición» de Hervada, J., ¿Qué es el Derecho? La moderna respuesta del realismo jurídico. Una introducción al derecho, 3ª ed., Eunsa, Pamplona, 2011.
[2] Serna, P., recensione a «Javier Hervada. Historia de la Ciencia del Derecho Natural», Persona y Derecho (21) (1989), pp. 276-281.
[3] Hervada, J., Introducción crítica al Derecho Natural, V ed., Eunsa, Pamplona, 1988, p. 24.
[4] Ivi, p. 36.
[5] Ivi, p. 64.
[6] Hervada, J., Lecciones Propedéuticas de Filosofía del Derecho, Eunsa, Pamplona, 1992, p. 211.
[7] Hervada, J., Introducción crítica, p. 114.
[8] Ivi, p. 64.
[9] Hervada, J., El ordo universalis como fundamento de una concepción cristiana del derecho y otros escritos de la primera época, Edición y glosas de Camila Herrera Pardo, Canónica, Instituto Martín de Azpilicueta, Eunsa, Pamplona, 2014, p. 60.
[10] Ivi, p. 57.
[11] Ivi, p. 58.
[12] Ivi, p. 59.