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Nella definizione di Adolfo Ravà il diritto è «l’insieme di quelle norme le quali prescrivono la condotta che è necessario sia tenuta dai componenti della società acciocché la società stessa possa esistere». È norma tecnica, che prescrive le condotte necessarie alla conservazione della società. Come tecnica normativa e coercitiva, esso poggia sulla natura, delle cui leggi rappresenta la realizzazione pratica: egli fornisce una lettura sociologica del diritto naturale, intendendolo come l’insieme delle condizioni generali e fisse di esistenza della società, che le norme tecniche del diritto devono assumere a scopo pratico. Il diritto è per lui irriducibile alla morale, perché quest’ultima non conosce né diritti soggettivi né coercizione, ma può colorarsi eticamente in base all’obiettivo a cui tende, e il suo valore in quanto mezzo dipenderà dal valore etico della società che esso conserva e mantiene.

1. Adolfo Marco Ravà nacque a Roma l’11 marzo 1879 da famiglia ebrea; la madre, Eugenia Sorani, era professoressa e il padre, Vittore, capo divisione del ministero dell’Istruzione. Nel giugno del 1900 si laureò in giurisprudenza a Roma sotto la guida di Icilio Vanni, avendo avuto come maestri anche Vittorio Scialoja, Francesco Filomusi Guelfi e Cesare Vivante.

Nel 1902 conseguì la laurea in filosofia e il diploma di magistero in filosofia nell’Ateneo romano, divenne procuratore legale e vinse un assegno ministeriale di perfezionamento all’estero in filosofia del diritto per il 1902-03; spese tale periodo a Berlino, come uditore di Josef Kohler e Adolf Lasson, e a Heidelberg. A quel periodo risale l’influenza sulla sua formazione della scuola neokantiana di Wilhelm Windelband e di Heinrich Rickert, che dette avvio alla ‘filosofia dei valori’: un’influenza che si manifestò nella sua tesi del primato della ragion pratica su quella teoretica, oltre che nel suo interesse per il problema dello statuto metodologico delle scienze sociali.

A quest’ultimo tema dedicò due opere, La classificazione delle scienze e le discipline sociali (Roma 1904) e Il valore della storia di fronte alle scienze naturali e per la concezione del mondo (Roma 1909), in cui le scienze sociali, inclusa la scienza giuridica, costituiscono un terzo genere tra quelle della natura e dello spirito, in quanto si occupano dei prodotti oggettivati della soggettività umana.

2. Nel novembre del 1903 divenne professore incaricato di filosofia del diritto e di istituzioni di diritto civile nella facoltà di giurisprudenza di Camerino. La sua carriera accademica proseguì a Palermo, dove insegnò dal 1917 al 1922, subentrando a Vincenzo Miceli e dove ebbe anche l’incarico di istituzioni di diritto civile. Dal 1920 al 1922 fu incaricato di impartire lezioni private di scienze giuridiche e politiche al principe Amedeo di Savoia.

Spese il periodo più lungo della sua vita accademica, dal 1922 al 1938, nella facoltà di giurisprudenza dell’Ateneo di Padova, in cui ebbe anche incarichi di esercitazioni di diritto civile, diritto comparato, diritto civile, istituzioni di diritto privato, nonché di storia delle dottrine politiche e scienza politica generale nella facoltà di scienze politiche; fu inoltre incaricato di istituzioni di diritto privato nell’Istituto superiore di scienze economiche e commerciali di Venezia. A partire dal 1923 diresse l’Istituto di filosofia del diritto e diritto comparato da lui fondato. Per l’Ateneo patavino redasse i pareri sul I libro (1933) e sulla parte relativa alle donazioni del III libro (1936) del progetto di codice civile.

Per effetto delle leggi razziali, il 14 dicembre 1938 fu posto in quiescenza; sulla sua cattedra subentrò Giuseppe Capograssi. Trascorse quegli anni a Roma: anni per lui dolorosi, anche a causa della forzata separazione dalla moglie e dal figlio Tito, il quale era riparato in Argentina. Venne riammesso nei ruoli dei professori universitari il 1° giugno 1944. Fu dal 1946 socio corrispondente e dal 1953 socio nazionale dell’Accademia dei Lincei, classe di scienze morali. Morì a Roma l’8 marzo 1957.

3. Il suo interesse primario fu sempre la Filosofia del diritto. Nell’ambito di questa disciplina si ritagliò uno spazio originale tra i critici del positivismo al tramonto, prospettando una visione strumentale del diritto e dello Stato, già condensata nelle due opere giovanili Il diritto come norma tecnica (1911)e Lo stato come organismo etico (1914), da lui mai abbandonata.

Prese dal neokantismo la convinzione che il concetto di diritto sia un universale a priori, ma non lo concepì come indifferente ai propri contenuti, bensì come derivazione dell’ideale di giustizia: di qui il rifiuto della distinzione tra concetto e idea del diritto. Attribuì dunque alla filosofia del diritto un compito primariamente normativo, intendendola come speculazione su ciò che il diritto deve essere, cioè sui principi razionali di giustizia: perché solo sapendo che cosa è giusto si può intendere cosa è diritto.

Ravà infatti, davanti al consueto problema della distinzione del diritto dalla morale, lo imposta come questione dell’appartenenza del diritto all’una od all’altra di tali due specie di norme; escluso che il diritto possa essere norma etica, perché ciò lo risolverebbe nella morale annullandone l’autonomia[1], perché sono inconcepibili diritti soggettivi etici in quanto l’etica determina il doveroso e non il lecito[2], e infine perché la coercibilità propria del diritto è incompatibile con l’etica[3], conclude che il diritto può essere soltanto norma tecnica.

4. Del carattere tecnico del diritto – cioè della sua ordinazione a un fine determinato, non assoluto – Ravà tratta a lungo in un libro che ha per titolo appunto Il diritto come norma tecnica (1911); ma la giustificazione della sua tesi è condensata nella definizione del diritto come «l’insieme di quelle norme le quali prescrivono la condotta che è necessario sia tenuta dai componenti la società acciocché la società stessa possa esistere»[4].

Viene così inserita nella tematica kantiana un’esperienza storico-filosofica che va da Aristotele, Cicerone e Dante al Jhering e alla sociologia; anche il perenne ricorrere della teoria del diritto naturale è spiegato da Ravà col fatto che, pur variando le condizioni d’esistenza della società umana, certe necessità «naturali» di essa permangono, e che pertanto si possono determinare le regole, «naturali» appunto, del soddisfacimento di esse[5].

L’affermazione della tecnica, ossia dell’ipoteticità, della norma costituita dal diritto farebbe supporre la relatività, e quindi la non-eticità, del fine costituito dall’esistenza della società. Ma quello di Ravà non è puro tecnicismo: «il puramente giuridico, cioè il tecnicismo per il solo mantenimento della società, appare (…) come un puro concetto teorico e astratto, che può servire di criterio e di riscontro per la realtà, ma che la realtà non può per sua natura adeguare giammai»[6].

Il diritto ha in sé esigenze etiche, perché valore etico ha, o piuttosto può averlo, la società in quanto fine: e il riconoscimento della natura tecnica del diritto non pregiudica la possibilità del valore etico del suo fine, valore che si riverbera sul diritto stesso a tale fine ordinato[7].

Dalla posizione di Kant si passa così a quella di Fichte: «l’etica illumina e guida e domina tutta la vita del diritto, la quale non può essere per conseguenza affidata che ad un organismo etico»[8]. Questo organismo è lo Stato, «organo del diritto», ma che ha fini etici propri, anche se ha forma giuridica[9]. La filosofia del diritto neokantiana italiana non si arresta insomma sulla posizione formalistica, e tende a darsi un contenuto: che per Del Vecchio è, alla fine, quello del giusnaturalismo cattolico, per Ravà quello di una morale «idealistica» – come egli stesso l’ha chiamata, ma senza riferimento all’idealismo neohegeliano – in cui «le formule vuote delle norme debbono empirsi di un contenuto di vita vissuta: ciò che deve essere bisogna che si compenetri intimamente con ciò che è, (…) l’idea deve divenire realtà»[10].

Ravà fu ostile a ogni forma di riduzione dello Stato al diritto, come attestano le sue critiche a Vittorio Emanuele Orlando, Hans Kelsen e Santi Romano. Nel suo disegno, lo Stato etico non è un fine, bensì un mezzo orientato a fini etici superiori; è perciò alieno da pulsioni autoritarie, e ha semmai la missione storica di promuovere, più che la mera coesistenza garantita dal diritto, lo sviluppo autonomo e la libertà dei singoli.

Daniele Onori


[1] Ravà, Il diritto come norma tecnica, ora in Diritto e Stato nella morale idealistica, Padova, 1950, di cui v. pp. 18-24

[2] Ivi, pp. 28-31; cfr. p. 50

[3] Ivi, p. 36.

[4] Ivi, pp. 51-52.

[5] Ivi, p. 92

[6] Ivi, pp. 92-93.

[7] Ivi, pp. 92-93.

[8] Ivi, p. 93.

[9] Oltre i capp. VII e VIII di Il diritto come norma tecnica, v. Lo Stato come organismo etico (1914), ora figurante come parte II di Diritto e Stato nella morale idealistica cit.

[10] Ravà, Lo Stato come organismo etico, in Diritto e Stato nella morale idealistica cit., pp. 133-134.

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