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Per Spaemann il destino della persona umana non è il suo agire, ma un’altra persona che la accetti interamente e che possa portarla a una felice conclusione; il destinatario ultimo di una persona non può mai essere, quindi, la natura umana, che non è una persona ed è inferiore ad essa.

1. Nasce a Berlino il 5 maggio del 1927. Dopo gli studi in filosofia, storia e teologia nelle università di Münster, Monaco di Baviera e Friburgo, consegue l’abilitazione all’insegnamento della filosofia e della pedagogia. Ha insegnato nelle università di Stoccarda, di Heidelberg e di Monaco di Baviera. È stato professore invitato nelle università di Rio de Janeiro, di Salisburgo e alla Sorbona di Parigi. È morto a Stoccarda il 10 dicembre del 2018. Molte delle sue opere sono state tradotte in italiano. Dai Concetti morali fondamentali (1993), a Per la critica dell’utopia politica (1994), a Felicità e benevolenza, (1998), al saggio L’origine della sociologia dallo spirito della Restaurazione. Studi su L.G.A. de Bonald, pubblicato nel 2002. L’altra opera, Persone. Sulla differenza tra ‘qualcosa’ e ‘qualcuno’, sintesi suprema del suo pensiero nonché suo capolavoro, uscirà nel 2006, anno in cui appare anche Natura e ragione. Saggi di antropologia. 

Nel 2008 è la volta de La diceria immortale. La questione di Dio o l’inganno della modernità e nel 2009 esce Rousseau. Cittadino senza patria. Dalla ‘polis’ alla natura. Nel 2013 vede la luce un altro grande capolavoro: Fini naturali. Storia e riscoperta del pensiero teleologico, mentre, nel 2014, è pubblicata la sua autobiografia: Dio e il mondo. Un’autobiografia in forma di dialogo.

2. Introducendoci nella densa semantica teoretica di Spaemann, presenteremo alcuni dei concetti fondamentali da lui impiegati, tratti principalmente da Persone. Sulla differenza tra ‘qualcosa’ e ‘qualcuno’, dove si snoda la sua riflessione filosofica sulla natura del vivente, e in particolare sulla natura dell’uomo, dando corpo quel “realismo metafisico” che costituirà l’orizzonte della sua speculazione sulla persona. La riflessione di Spaemann prende avvio proprio dal problema del corretto approccio al reale, da cui deriva l’esperienza conoscitiva ed operativa del bene, ovvero, la possibilità di una vita veramente ed integralmente riuscita: “L’uomo ha come alternativa la prigione in sé stesso o la Croce. Dalla prigione in sé stesso, dalla curvatio in se ipsum, come si dice nella tradizione agostiniana, egli può uscire soltanto inchiodandosi alla croce della realtà[1].

Buona è dunque l’azione politica, in quanto esercizio di fedeltà attiva alla prassi del reale, purché ispirata al principio per cui ogni uomo deve essere pensato sempre, kantianamente, come un fine in sé stesso: da qui la contestuale riproposizione del diritto naturale classico, umanista e personalista, e il rifiuto conseguente dell’astratto normativismo che caratterizza il diritto moderno. Da qui anche la riscoperta del concetto classico di ‘natura’ e del connesso piano di assiologia teleologica. Se fino al Medioevo la nozione di natura veniva pensata in relazione al fine, anche alla luce dell’essenziale nozione biblica di Creazione, con la modernità essa perde qualsiasi connotazione teleologica e normativa.

Nell’anti-teleologismo moderno, il fine è identificato con la mera autoconservazione, aspetto questo che ha conseguenze decisive sullo stesso concetto di dignità della persona. Detto altrimenti, natura oggi non significa più costituzione originaria ricevuta da ogni ente nell’atto della creazione, ma soltanto pura esteriorità. In particolare, la natura umana diventa in tale temperie culturale nient’altro che materiale disponibile a servizio di una tecno-crazia di dominio e controllo.

3. In Spaemann tutto ciò viene assunto a privilegiato bersaglio di critica. Nelle opere dalle quali maggiormente emerge la sua opzione antropologica di base, Spaemann ammette la distinzione reale tra persona e natura umana, che – come è noto – è stata propria della tradizione medievale. Essa è stata ripresa dai cristiani fin dal primo Concilio di Calcedonia ed è stata poi enfatizzata da pensatori del calibro di Tommaso d’Aquino. Spaemann intende la persona umana come “il possessore di certe qualità”, alle quali essa è tuttavia irriducibile: mentre “l’uomo è, in linea di principio, il concetto di una specie biologica[2], la persona descrive una realtà che va ben oltre l’uomo.

Spaemann ci ricorda in primis che quella della realtà personale è una scoperta del cristianesimo: “Ciò che oggi chiamiamo ‘persona’, senza la teologia cristiana, sarebbe rimasto senza nome e non sarebbe stato presente nel mondo[3], poiché la riflessione teologica cristiana è stata quella che ha svelato la novità e la singolarità irripetibile della persona. Per Spaemann, più che la singolarità, la nota caratterizzante la persona è l’unicità. Tuttavia, ciò che determina l’unicità della persona è la sua circoscrizione/collocazione spazio-temporale, che è propria, peraltro, soltanto delle persone umane, e solo fintantoché possiedono la corporeità: “Essere persona è occupare un posto, che non esiste senza uno spazio nel quale altre persone possiedono il proprio[4].

Una simile impostazione, aggiunge il filosofo tedesco, è stata preceduta dal ricorso al termine cuore nei testi delle Sacre Scritture, utilizzato appunto come un sinonimo di “persona”. Più tardi, poi, in epoca cristiana, i primi teologi hanno cominciato a designare il termine persona con “ipostasi”, a significare un essere esistente indipendentemente da ogni altro, come fece, tra i primi, il Damasceno[5]. Lo stesso Boezio usa “substantia” nel senso di “ipostasi”, in contrapposizione cioè a “essenza”, che invece chiamerà “natura”. Spaemann fa allora sua la critica a Boezio di Riccardo di San Vittore, assumendo con quest’ultimo che la persona “non può essere una sostanza, ma il titolare di una sostanza[6]. Da parte sua, utilizzando il linguaggio corrente, Spaemann preferisce chiamare la persona come qualcuno, in antitesi a quanti sono soliti pensarla come qualcosa.

4. A questo Spaemann aggiunge un tassello ulteriore, precisando come la persona dica sempre relazione: “La differenza che le persone mantengono con la loro natura, con la loro essenza, è immediatamente connessa al fatto che una persona così intesa può essere pensata solo in relazione ad altre persone, cioè al plurale[7]; o, con altre parole, che “le persone sono tali solo in una condizione di reciprocità. Si danno solo persone al plurale[8]. Questa è la tesi che emerge con evidenza indiscussa in Persone. Sulla differenza tra ‘qualcosa’ e ‘qualcuno’. Dunque, come persone abbiamo una natura, ma non siamo natura.

Tuttavia, se avere una natura fosse il carattere distintivo della persona umana, allora il fine ultimo della persona sarebbe un avere, non un essere, e ciò implicherebbe il trattare l’essenza umana nell’ottica della sua sola crescita o sviluppo incrementale. In base a ciò, il fine dell’uomo sarebbe l’etica e una persona sarebbe “più persona” se solo fosse più etica. Ma, l’etica deriva da ed è per un’antropologia dell’interiorità, esattamente come “l’agire segue l’essere”, non il contrario, perché l’agire è secondo ed è funzione dell’essere, non il contrario.

5. L’etica migliora l’essenza umana, in particolare permette di migliorare le facoltà razionali con gli abiti intellettuali e perfezionare la volontà con le virtù, ma non migliora o perfeziona l’atto dell’essere personale, perché né gli abiti né le virtù sono radicate in esso, ma nelle potenze umane immateriali (rispettivamente l’intelligenza e la volontà), ed è chiaro che nessuno si riduce alla sua intelligenza e alla sua volontà, per quanto perfette esse possano essere.  Per questo motivo, il destino della persona umana non può essere il suo agire, ma un’altra persona che la accetti interamente e che possa portarla a una felice conclusione; il destinatario ultimo di una persona umana non può mai essere, quindi, la natura umana, che non è una persona ed è inferiore ad essa.

In breve, l’essenza umana non identifica il fine della persona – il fine della persona non è infatti l’acquisizione di abiti intellettuali e di virtù nella volontà -, perché queste perfezioni sono avere, non essere. Se la peculiarità della persona fosse l’avere, la persona non sarebbe superiore all’avere, per esempio alla sua stessa vita, mentre è chiaro che lo siamo, tanto che possiamo disporne per motivi personali. Dunque, se, come abbiamo già visto, e come l’autore stesso ammette, una singola persona è superiore all’umanità comune cui pure appartiene, allora il suo scopo o significato non può risiedere in quella natura.

6. La stessa morte, per Spaemann, non significa non avere, ma non essere. Con la morte, infatti, perderemo il corpo, la natura umana corporea, ma non l’atto di essere personale. La persona, distinta dal suo essere biologico e biografico, è spirito e non muore con la morte del corpo. Lo spirito può essere colpito da un altro tipo di morte, la morte spirituale, ma questa non denota il non avere, né dipende dal non avere corporeo: significa soltanto e puramente non essere. In breve, rispetto ad ogni uomo bisogna distinguere una vita personale da una naturale, subordinando la seconda alla prima: “Finché è in vita, nessuno può, qualunque sia il suo comportamento, scomparire completamente e definitivamente come persona, diventare qualcosa di impersonale e far scomparire la differenza tra la sua identità personale e la sua essenza[9].

7. In quest’ultima asserzione è adombrato un altro aspetto rilevante e centrale della sua riflessione, ovvero, la sua concezione della dignità personale dell’uomo: “La dignità umana corrisponde solo a coloro che possiedono di fatto quella proprietà per cui ci riconosciamo reciprocamente come essere razionali e capaci di autodeterminazione morale[10]. Spaemann descrive la persona in termini di razionalità e moralità, e ciò equivale a descrivere la dignità personale facendo appello alle facoltà umane superiori: intelligenza e volontà appunto. Talvolta, a proposito di dignità, considera anche il dato della coscienza individuale, affermando che “avere coscienza è il segno più autentico della persona[11]e, in maniera ancora più esplicita, che “la coscienza rappresenta la dignità della persona[12]. Va aggiunto che in alcune occasioni egli collega la coscienza alla ragione pratica, facendo dell’uso pratico della ragione il tratto distintivo della persona.

In altre occasioni Spaemann chiarisce che, per valutare se si è dinanzi a una persona umana, è sufficiente non avere in atto autocoscienza e razionalità, ma possederle in potenza, possedere cioè la capacità di raggiungerle. Infatti, la coscienza morale è la conoscenza auto-riflessa dello stato di tutte le facoltà umane (comprese l’intelligenza e la volontà). I pensatori scolastici chiamavano tale coscienza sinderesi e la caratterizzavano come un abito innato; ed è chiaro che un abito indica sempre l’avere (habere, stessa etimo di abito), non l’essere. Quindi un uomo è persona anche se non è in condizione di esercitare consapevolmente tale abito che pure possiede.

La coscienza a cui allude Spaemann non può essere il tratto distintivo della persona, perché è ovvio – come lui stesso sottolinea – che ci possono essere molti stati della persona umana in cui essa non è o non è più cosciente dei suoi atti e dei suoi poteri (nel grembo materno, durante il sonno, con gravi malattie, ferite, in fase terminale, ecc). In tale ultimo senso, la coscienza assurge a requisito necessario a fondare l’etica e il connesso giudizio morale, cioè essa ci rende responsabili dei nostri atti, ma non è la facoltà deputata a esplorare la nostra interiorità, o a fondare un’antropologia autenticamente trascendentale.

Antonio Casciano


[1] Spaemann, R., Wahrheit und Freiheit  (2009),  in  Robert Spaemann, Schritte ueber uns hinaus. Gesammelte Reden und Aufsaetze I, Klett-Cotta, 2010, pp. 310-331.

[2] Spaemann, R., Persone: Sulla differenza tra “qualcosa” e “qualcuno”, Laterza, Roma-Bari, 2005, p. 12.

[3] Ivi, p. 20.

[4] Ivi, p. 175.

[5] San Giovanni Damasceno, De fide ortodoxa, III (PG MG, 44, 985-988).

[6] Spaemann, R., Persone, cit., p. 30.

[7] Ivi, p. 28.

[8] Ivi, p. 4.

[9] Ivi, p. 203.

[10] Spaemann, R., Lo natural y lo racional, Instituto de Estudios de la Sociedad, Santiago de Chile, 2011, p. 73. Nostra la traduzione.

[11] Spaemann, R., Persone, cit., p. 147.

[12] Ivi, p. 150.

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