Da giurista, professore e avvocato, Carnelutti ha messo al centro l’uomo, che, dietro le sbarre come nei drammi della vita di ogni giorno, il codice non può prevedere, il giudice non riesce a scandagliare, e per l’avvocato sono motivo di sofferenza. Salvare l’eccezione, tener conto della singolarità irriducibile delle situazioni umane non significa disintegrare le strutture dell’ordinamento giuridico, bensì realizzare una effettiva solidarietà sociale, che nasca dall’assenso dei consociati e non da una imposizione esteriore: significa inserire la giustizia nel diritto positivo. E ciò avverrà secondo Carnelutti mediante il giudizio, perché non è possibile dedurre il valore dal fatto, ma si può solo attingerlo da un piano più alto, a cui solo la coscienza umana ha accesso.
1. Francesco Carnelutti nacque a Udine il 15 maggio 1879: dopo gli studi classici a Treviso si indirizzò alla giurisprudenza, iscrivendosi all’università di Padova, della quale era destinato a divenire punto di riferimento. Dopo la laurea iniziò insegnando – quale incaricato (1909-12) – diritto industriale all’università Bocconi di Milano; ottenne successivamente (1912) la cattedra di diritto commerciale alla facoltà di giurisprudenza dell’università di Catania; da Catania si trasferì (1915) all’università di Padova quale professore ordinario di diritto processuale civile: cattedra che tenne, insegnando occasionalmente quale incaricato anche altre discipline nella facoltà padovana, sino al trasferimento alla cattedra di diritto processuale civile dell’università di Milano, nel 1936. Dal 1943 fu chiamato alla facoltà di giurisprudenza dell’università di Roma.
La sua attività scientifica, calata in una mole incredibile di scritti[1], si è rivolta ai più diversi settori del diritto, dal civile al commerciale, dal processuale civile al processuale penale, al penale, al diritto del lavoro, al finanziario.
Fondamentale è la sua riflessione sulla “teoria generale del diritto” e sulla “metodologia giuridica”. Prese parte ai lavori preparatori del Codice di procedura civile del 1942, influendo soprattutto nella parte relativa al processo di esecuzione, e alcuni suoi concetti in materia di prova legale furono interamente ripresi nel libro VI del codice civile del 1942. In precedenza, su incarico del guardasigilli, aveva redatto un progetto di codice di procedura civile, che tuttavia non fu utilizzato. Né ebbe miglior sorte un progetto di codice di procedura penale da lui allestito nel dopoguerra, sempre su incarico del ministro della Giustizia.
È stato anche avvocato di fama e con Giuseppe Capograssi uno dei fondatori dell’Unione giuristi cattolici italiani. La poliedricità di Carnelutti è ben rappresentata dalle parole di Vittorio Emanuele Orlando nella recensione alla Teoria generale del diritto pubblicata dal giurista udinese nel 1940, parole riportate in ultimo da Mauro Orlandi nella voce biografica[2] edita nel Dizionario biografico dei giuristi italiani.
2. Per Carnelutti la verità di una norma giuridica consiste nella sua verificabilità, cioè nella sua corrispondenza al fatto sociale. È per questo che la logica del diritto trova il limite nel diritto in quanto vita. «La norma giuridica in sé, o un complesso di norme, un codice ad es., è un pezzo del diritto, non tutto il diritto, cioè il diritto vivo, nella pienezza della sua vita. Questa vita si accende, come usiamo dire, quando le norme sono applicate o anche sono violate: nella conclusione di un contratto, nella commissione di un delitto e nella celebrazione di un processo soprattutto. Ma un contratto, un delitto, un processo sono degli uomini, uno di fronte all’altro. Vuoi dire che bisogna capire quegli uomini per capire il diritto. Ma questa materia è ribelle ai numeri ed anche alle parole»[3].
Diventa così chiaro perché la concezione carneluttiana rifiuti la equazione tra legge e diritto e sostenga che, leggendo a fondo nell’esperienza giuridica, sia possibile rintracciare elementi decisivi per la smentita del riduzionismo positivistico, formalistico, logicistico del diritto.
Cosi scriveva: “L’uomo è al centro del diritto penale, anzi del diritto. Ma cosa è l’uomo ? Qui soccorre tosto ai giuristi, e ai penalisti per primi, una amara definizione: homo Uomini lupus. Ferri l’ha visto così. Diciamo la verità: è difficile, per un penalista, non vederlo così. Il lupo sbrana; e gli uomini si sbranano a vicenda. È la guerra. Ma la guerra fa male; e gli uomini hanno bisogno del bene. La pace fa bene. Pax et bonum, nel motto francescano, non tanto vogliono dire due diverse cose, quanto due aspetti diversi della medesima cosa. Gli uomini, se fossero liberi, avrebbero la pace e il bene ; perché non li hanno è facile dubitare che abbiano la libertà. Difatti, affinché li abbiano, il diritto s’ingegna a sostituire la libertà, a tal fine operando in due opposti sensi: vietando agli uomini il delitto e permettendo a loro il con tratto. Così impedisce di fare la guerra e offre la possibilità di fare la pace. Allora la guerra diventa un delitto e al suo posto un altro mezzo serve a fare la pace. Sostituire al delitto il contratto è, in parole povere, il programma del diritto”[4].
3. Le riflessioni di Carnelutti sulla funzione del diritto naturale, di attribuire una qualità all’azione, non di costringervi la volontà con la minaccia di una sanzione, che lo trasformerebbe in diritto positivo, sono attualissime. Così il rifiuto della concezione imperativistica è compiuto dal Carnelutti in nome del diritto naturale, tant’è vero che tale concezione mantiene per il Carnelutti la sua validità nell’ambito del diritto positivo. Quella dottrina dei comandi che, nella prima edizione, apriva la teoria generale del diritto, ora, nella terza edizione, costituisce solo una parte dell’analisi dell’ordinamento giuridico statale, che, come sappiamo, è il risultato del diritto.
Carnelutti precedentemente aveva considerato il comando come un precetto sanzionato e dalla unione di questi due elementi vedeva emergere la giuridicità; finché restavano divisi, il diritto ancora non esisteva. Con l’adesione al giusnaturalismo, il precetto diventa una proposizione di diritto naturale, quindi di per sé carico di giuridicità.
Scopo del diritto consiste nello sviluppare la sua potenza unitiva, componendo gli interessi delle parti. L’attenzione del Carnelutti si sposta dall’attività di coloro che producono le norme astratte di comportamento, a quella di coloro che queste norme devono trasformare in concreti atti di volontà, sperimentandone i vivi problemi e le reali antinomie.
L’antinomia tra diritto naturale e diritto positivo, tra natura e storia, tra immutabilità e mutevolezza, antinomia che tanti giuristi e filosofi ha scandalizzato, per Carnelutti non esiste[5]. In tal senso egli parla di «diritto naturale vigente», cioè di un diritto che sorge dalla concreta realtà della società, interpretata dalla ragione storica, un diritto su cui converge l’effettivo accordo dei consociati. Ma con ciò stesso Carnelutti stacca il diritto naturale dall’ideale della giustizia; ciò che è in cammino verso l’ideale non è l’ideale stesso.
Il vero e proprio contrasto che angoscia l’uomo-Carnelutti è il contrasto tra l’esigenza della giustizia e la sua mancata realizzazione. Per lui l’antinomia fondamentale non è tra diritto positivo e diritto naturale, che, dopo tutto, è anch’esso un complesso di regole, ma tra legge e fatto.
La legge, quindi anche quella naturale, è insufficiente al fatto, perché lo schematizza e perciò non è in grado di fornire una giustizia concreta. Carnelutti fa rilevare allora la necessità di salvare il valore rappresentato dal caso singolo, in antitesi alle valutazioni, per così dire, collettive dei problemi umani. Ma con ciò stesso Carnelutti teorizza la «morte del diritto» ed egli stesso ne è consapevole[6].
Si comprende così perché egli pervenga a questa conclusione, paradossale per un giurista: bisogna liberarsi del mondo del diritto e sostituire le sue leggi con quelle della morale, della carità, dell’amore[7].
Daniele Onori
[1] Tra le sue opere, fondamentali: Infortunî sul lavoro (2 voll., 1913-14); La prova civile (1915); Studî di diritto civile (1916); Studî di diritto industriale (1916); Studî di diritto commerciale (1917); Studî di diritto processuale (2 voll., 1925-28); Il danno e il reato (1926); Teoria generale del reato (1933); Teoria giuridica della circolazione (1933); Teoria del falso (1935); Sistema del diritto processuale civile (1936-38); Teoria cambiaria (1937); Metodologia del diritto (1939); Teoria generale del diritto (1940); Istituzioni del nuovo processo civile ital. (1941; 5a ediz., 1956); Arte del diritto (1949); Diritto e processo (1959: nel Trattato del processo civile da lui diretto); Principî del processo penale (1961); Verso la riforma del processo penale (1964).
[2] “Se fra un millennio tutte le opere della letteratura giuridica italiana contemporanea andassero perdute, e restassero i soli scritti di Francesco Carnelutti, basterebbero essi certamente per rappresentare degnamente l’attività scientifica di questo periodo storico. Basterebbero, non solo per la loro profondità, vigoria ed originalità, ma altresì per una vastità di contenuto che ben può dirsi comprenda tutto lo scibile al diritto attinente. Si tratta in verità di un ingegno che apparirebbe singolare e straordinario, anche se di tutte le doti di esso si volessero considerare soltanto l’attività multiforme e la versatilità prodigiosa, onde ha potuto estendere il suo dominio su presso che tutte quelle scienze particolari in cui lo studio del diritto è venuto distinguendosi […]. Carnelutti non è dunque un enciclopedico del diritto, nel senso di questa parola per cui all’estensione non si suole far corrispondere la profondità: al contrario, pur passando dall’uno all’altro dei campi più diversi del diritto, la sua autorità si pone subito in prima linea come di un maestro fra i maestri, che di quella singola disciplina hanno fatto l’obietto di tutto il loro studio”.
[3] Carnelutti, Matematica e diritto, in Discorsi intorno al diritto, II, op. cit,, p. 223.
[4] F. Carnelutti, La lotta del diritto contro il male, in Il Foro Italiano, Vol. 69, PARTE QUARTA: MONOGRAFIE E VARIETÀ (1944-1946) pp 1-16.
[5] Carnelutti, L’antinomia del diritto naturale, in Discorsi intorno al diritto,III, pp. 275-276.
[6] Carnelutti, La Morte del diritto, in Discorsi intorno al diritto, II, pp. 275-290.
[7] F. Viola, Metodologia, teoria ed ideologia del diritto in F. Carnelutti, in Estratto dalla Rivista di diritto processuale Anno XXII (1967) – Num, 1