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La filosofia era per Radbruch la scienza dei valori, del dovere: nella logica filosofica si insegna il giusto pensare; nell’etica filosofica il giusto operare, nell’estetica filosofica il giusto sentire. La filosofia è, dunque, contegno valorizzante, in quanto, appunto, distingue vero e falso, bene e male, bello e brutto. La filosofia del diritto, in particolare, era da lui intesa non come la ricerca del diritto positivo che, come ogni opera umana, è una manifestazione della cultura e, quindi, oggetto della scienza giuridica, ma come ricerca del «diritto giusto», cioè del diritto che «deve essere». Il diritto è infatti «la realtà che tende a servire la giustizia».

  1. Gustav Radbruch è stato un filosofo del diritto tedesco (Lubecca 1878). Uno dei massimi teorici contemporanei della filosofia del diritto, studiò a Lipsia e insegnò diritto penale, procedura penale e di filosofia del diritto a Heidelberg, a Königsberg e a Kiel. Fu membro del Partito Socialdemocratico tedesco ed ebbe un seggio nel Reichstag dal 1920 al 1924. Negli anni 1921-22 e fino al ‘23, fu Ministro della giustizia. Durante il suo ministero, fu approvato un cospicuo numero di leggi ancora oggi ritenute fondamentali per l’ordinamento giuridico tedesco. Convinto antinazista, nel 1933 fu allontanato dall’insegnamento. Subito dopo la fine della seconda guerra mondiale nel 1945, riprese l’attività di insegnamento e quella nel Partito Socialdemocratico di Germania. Morì a Heidelberg nel 1949. Meritevoli di particolare considerazione sono i seguenti suoi lavori: Grundzüge der Rechtsphilosophie (1914; II ediz. immut. 1924), Rechtsidee und Rechtsstoff – Eine Skizze (1923-1924), Die Problematik der Rechtsidee (1924), Rechtsphilosophie (1932, ult. ediz. cur. da R.), Klassenbegriffe und Ordnungsbegriffe im Rechtsdenken (1938), Gesetzliches Unrecht und übergesetzliches Recht (1946), Die Natur der Sache als juristische Denkform (1948), Vorschule der Rechtsphilosophie (1948).
  2. L’ispirazione di fondo della filosofia del diritto di R. proviene dal neokantismo sudoccidentale (Wilhelm Windelband, Heinrich Rickert, Max Weber e, soprattutto, Emil Lask), scuola di pensiero che, provenendo dalla filosofia della cultura e dalla teoria dei tipi ideali umani dello Spranger, rivestì un’importanza decisiva nella sua formazione spirituale e giuridica. Come tutti gli altri filosofi del neocriticismo, anche R. fu in netta antitesi con il positivismo e, in particolare, con il positivismo giuridico. Per il Nostro, infatti, il positivismo giuridico è «quella tendenza nella scienza del diritto che, partendo dal diritto positivo, con mezzi puramente intellettuali, senza un proprio sistema di valori, pensa di poter trovare una risposta ad ogni domanda giuridica»[1]. Se è vero, infatti che unica è la realtà, quella empiricamente còlta, è altresì vero che lo spirito umano la riconosce sovente carica di valore, cioè di un senso che trascende la sua pura immediatezza. Lo spirito umano può infatti: a) considerare la realtà nella sua immediatezza; b) risalire al valore cui essa ha mostrato timidamente di tendere; c) riconsiderare tutta la realtà alla luce di questo valore; d) contemplare la realtà nel suo trascendere il detto valore. Essere, valore, senso ed essenza sono dunque i quattro ambiti sui quali può soffermarsi lo sguardo dello spirito, che rispetto a ciascuno di essi assumerà rispettivamente le vesti delle scienze naturali, della riflessione filosofica, delle scienze culturali e della riflessione religiosa[2]. Quanto alla riflessione filosofica propriamente detta, R. scrive che la sua funzione non è la ricerca o la conoscenza, proprie delle scienze empiriche, dell’essere, della realtà, delle cause, della natura e delle sue leggi, ma quella del «dover essere», del valore, dei fini, del significato di tutte le cose. Qui R. fonderà l’alternativa tra il metodo monistico, che nega i problemi di valore, e il metodo dualistico, che afferma, invece, i valori, quali decisione primaria, semplicemente intuita, anziché fondata su argomenti di ordine razionale. Da qui anche la separazione fondamentale tra il mondo dei valori e il mondo della realtà, dei fatti[3]: essi sono contigui, ma chiusi in sé e privi di reciproche incidenze. Questo rapporto di valore e realtà, di dovere e di essere è, appunto, il dualismo metodico.
  3. Tuttavia, data l’inderivabilità logica del dover essere dall’essere, i discorsi relativi ai valori assoluti devono restare distinti dai discorsi relativi alla realtà naturale: il Sollen non può dedursi dal Sein (cd. principio del dualismo metodico). Nel caso dell’universo giuridico, poi, il diritto come valore culturale e il diritto come realtà culturale devono formare oggetto di epistemologie distinte. Più precisamente, mentre la filosofia del diritto ha il compito di analizzare il diritto come valore culturale, cioè la sua idea, alla scienza del diritto in senso stretto compete l’esame del diritto come realtà culturale, ossia l’insieme delle espressioni effettive della tensione dell’uomo all’idea del diritto. Ne consegue che, per il R., compito fondamentale della filosofia del diritto non è la ricerca del diritto positivo che, come ogni opera umana, è una manifestazione della cultura e, quindi, oggetto della scienza giuridica, ma come per lo Stammler è ricerca del «diritto giusto», cioè del diritto che «deve essere», del valore, del fine, del significato del diritto, ossia della Giustizia.
  4. Come per il Lask, anche per il R., intermedio tra il mondo della natura, ossia dei dati ciechi, e quello dei valori puri, c’è quello della cultura. È questo della cultura quel «terzo regno» come lo chiama il Münch (8), per cui, quando si considera, p. es., la scienza, anziché far riferimento al valore di verità, ci si riferisce al complesso di dati che, in un dato momento storico, hanno il significato di servire la realtà, indipendentemente dal fatto che la raggiungano o meno. Questa concezione della cultura di R. rientra, a sua volta, nel movimento della «filosofia della cultura», che ha avuto il suo sviluppo peculiare e più ampio proprio in Germania con Lask, Münch, Mayer. Infatti, in senso ampio, la filosofia della cultura è comune a tutto l’indirizzo neokantiano in quanto si riporta alla famosa distinzione kantiana fra il mondo della natura, la cui categoria è quella della causalità, e il mondo della cultura, la cui categoria è quella della libertà e in cui rientra il diritto. E, a differenza della fisica, scienza puramente classificatrice, e della scienza dei valori, scienza puramente valutativa, la cultura (Kulturwissenschaft), non può non riferire, in qualche modo, la sua realtà a «concetti di valore», ossia a ciò che, positivamente o negativamente, si deve sussumere in idee di valore. Per cui, in particolare, per quanto riguarda il diritto, ogni diritto, giusto o ingiusto, implica la intenzione di realizzare un valore di giustizia e, indipendentemente dal fatto che lo realizzi o meno, il significato di qualsiasi diritto è sempre lo sviluppo della giustizia. Il diritto è, dunque, quella specifica realtà culturale in cui rientrano tutti i tentativi, riusciti o meno, diretti alla realizzazione del valore giuridico
  5. Ma a differenza del neocriticismo, R. non si limita alla semplice rappresentazione formale della struttura del diritto ma ricerca il contenuto stesso dei valori giuridici. Ora, sebbene, come detto, la definizione del concetto del diritto debba incentrarsi sul riferimento alla giustizia, essa non ha uno svolgimento lineare, bensì riflette la dialettica che coinvolge la complessiva idea del diritto. In questo senso, l’idea del diritto, come ogni altra idea, non può essere pensata in sé, come pura forma, poiché ciò non esprime altro che una vuota pretesa alla correttezza del diritto. L’idea del diritto può essere piuttosto pensata solo in riferimento al proprio sostrato tipico, la convivenza umana. Questa dialettica, tra l’elemento regolante e quello regolato, ha un’importanza decisiva: è proprio alla luce di essa che è possibile comprendere come la questione fondamentale dell’opera radbruchiana sia quella, tipicamente ermeneutica, della correlazione tra elemento normativo ed elemento fattuale nella sfera giuridica. Il concetto del diritto va dunque definito in relazione all’idea di giustizia, ma quest’ultima, a sua volta, può essere afferrata, in una circolarità ermeneutica, solo riferendosi a quella convivenza umana che è costituita dal diritto stesso[4].
  6. Come l’essere sta al dovere, così il concetto del diritto sta all’idea del diritto, il cui elemento caratteristico è il principio di giustizia. Pur accettando la distinzione neokantiana fra concetto e idea del diritto, proprio per l’influenza, già posta in luce, della filosofia della cultura, induce R. ad assumere una posizione originale rispetto alle posizioni sia di Stammler che di Del Vecchio, in quanto da questi non accetta l’idea della perfetta autonomia del concetto del diritto. Per il R., cioè, il problema del concetto puro del diritto non può essere indipendente da quello dell’idea del diritto, in quanto si tratta di «un concetto culturale, ossia di un concetto di una realtà [necessariamente, n.d.r.] riferita a vaIori»[5]. Non si tratta, cioè, di un concetto chiuso, fondamento della costruzione scientifica e comprendente un numero ben preciso e definito di categorie giuridiche, ma è, invece, un concetto aperto, relativo, includente in sè un numero indeterminato di concetti particolari (norma e fonte del diritto, causa e conseguenza giuridica, soggetto e oggetto del diritto, legalità e illegalità). Più precisamente, mentre il diritto è un fatto, un fenomeno della cultura (Kulturerscheinung), il concetto de] diritto è un concetto della cultura e, come tutti i concetti della cultura, non né concetto di valore puro e semplice, né concetto puro dell’essere, ma «concetto riferito al valore». Di conseguenza il R. nega che sia possibile acquisire il concetto del diritto induttivamente, empiricamente o comparando i fenomeni giuridici, in quanto i fenomeni giuridici concreti sono tali solo in quanto è lo stesso concetto del diritto che li qualifica come fatti «giuridici» rendendoli comprensibili giuridicamente.
  7. Ora, posto che i sostrati di valore sono le singole personalità umane, le collettività umane e le opere umane, il diritto può tendere alternativamente a scopi individualistici, a scopi collettivistici o a scopi d’opera[6]. Ne consegue che il diritto dev’essere: a) positivo (legge o consuetudine); b) normativo, in quanto, come incarnazione dell’idea del diritto, si deve elevare al di sopra della restante realtà, valendo ed esigendo; c) di natura sociale in quanto, come voluta realizzazione della giustizia, deve regolare la vita collettiva; d) di natura generale dato che, ispirandosi alla giustizia, deve fondare per tutti l’eguaglianza. Il diritto, quindi, si può definire come il compendio degli ordinamenti generali per la coesistenza degli uomini, come il compendio di norme generali, positive, per la vita sociale[7].
  8. Per quanto riguarda, invece, il diritto naturale R., soprattutto dopo le tragiche esperienze del nazionalsocialismo e della Seconda guerra mondiale, viene a inaugurare in una posizione teorica assolutamente originale. Il R. prende, infatti, netta posizione contro ogni interpretazione naturalistico-causalistica tipicamente kantiana, per le quali è assolutamente impossibile non solo cogliere ogni criterio di valore ma anche il concetto del diritto. Come già notato, d’altra parte, però questo non significa che per il R. vi sia la possibilità di collocare il diritto in quel mondo dei valori assoluti e dei fini cui appartiene, positivamente, la Giustizia, o l’ideale del diritto totalmente giusto. A tal proposito si può criticamente osservare che «il ritorno a Kant» del neocriticismo implica, in realtà, una parziale fictio. Se è vero, infatti, che tanto le categorie kantiane quanto il concetto del diritto dei neokantiani sono precondizioni dell’esperienza, bisogna precisare che le dodici categorie o forme a priori o concetti puri, universali, trascendentali dell’intelletto sono, per Kant, condizioni a priori della esperienza, in quanto che, senza di esse, non è possibile alcuna conoscenza. Il concetto del diritto, per i neokantiani, è invece solo un concetto generale, che qualifica una data esperienza già costituita, già determinate e non ne è affetti la condizione della sua conoscenza: sono solo degli a priori relativi, pretesi, impropri dell’esperienza giuridica, in quanto, come ogni concetto generale delle scienze empiriche, sono tratti dall’osservazione dell’esperienza, con metodi astrattivi o induttivi o storico-comparativi. Di qui, da un lato, l’impossibilità, per il R., di una unità sistematica della scienza e, dall’altro, la conseguente necessità, per l’interprete, di rimediare all’incompletezza del sistema giuridico con la costituzione di un altro sistema, cioè quello degli scopi non contemplati nel primo.
  9. Per il R., il problema dello scopo del diritto finisce in realtà con l’identificarsi con lo scopo, in generale, della giustizia. Nel sistema di R., uno dei problemi più importanti è proprio quello che si riferisce all’elemento formale del diritto, ossia alla giustizia. Mentre per il Lask, il problema intorno all’idea del diritto, quale indagine critica del valore, non si identifica né si esaurisce con il problema della giustizia, ma bensì solo con l’indagine dell’ideologia politica, per il R., invece, questo problema acquista un’importanza così fondamentale che la giustizia si identifica con lo stesso principio specifico del diritto. Per R. è evidente che tale scopo coincide col valore etico del bene: tendere alla giustizia nella convivenza civile non può non implicare il perseguimento del bene degli uomini[8]. Sennonché, il giuspositivismo comunque professato da R. non gli consente di assegnare alla giustizia uno spazio operativo autonomo. Poiché egli ritiene fino all’ultimo che il diritto valido possa essere solo il diritto ordinamentalmente posto, anche la validità giuridica finisce per essere strettamente contenuta entro tali limiti. Così, oltre che guidare il legislatore nell’individuazione di normative internamente coerenti e congruenti con la materia da disciplinare, l’idea di giustizia o di diritto interamente giusto può, sì, costituire un ausilio dell’applicazione giuridica, e più precisamente un mezzo di interpretazione e di integrazione delle disposizioni positive, ma solo nella misura in cui queste ultime non vi si oppongano. Sotto il primo profilo, di fronte a eventuali dubbi esegetici, essa spingerà a scegliere l’assetto normativo che valorizza maggiormente l’idoneità del caso regolato a realizzare uno dei valori che compongono l’idea stessa del diritto. Sotto il secondo profilo, qualora la legge non offra una disciplina completa del caso concreto da decidere, l’interprete, nei modi e nei limiti già indicati, potrà costruire per esso un tipo ideale di istituto giuridico e ricavarne regole convenienti e congruenti con l’idea del diritto interamente giusto.

Antonio Casciano


[1] RADBRUCH, G., Vorschule der Rechtsphilosophie, Heidelberg, 1948, p. 75.

[2] RADBRUCH, G., Rechtsphilosophie (1932), hrsg. von R. Dreier y S.L. Paulson, C.F. Müller, Heidelberg, 2003, pp. 8-10.

[3] RADBRUCH, G., Einführung in die Rechtswissenschaft, 1925, p. 1 ss., Rechtsphitosophie, 3a ed., 1932, p. 1 ss.

[4] RADBRUCH, G., Grundzüge der Rechtsphilosophie (1914), in GRGA, Bd. 2, p. 58.

[5] Ivi, p. 63.

[6] RADBRUCH, G., Rechtsphilosophie (1932), cit., p. 54.

[7] CARLIZZI, G., “Gustav Radbruch e le origini dell’ermeneutica giuridica contemporanea”, PERSONA Y DERECHO, VOL. 64, 2011/1, pp.  83-119, p. 95.

[8] Ivi, p. 98.

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