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L’appuntamento periodico con questa rubrica presenta oggi uno sguardo d’insieme sulla questione etica in magistratura, sui rapporti tra codice disciplinare e codice etico e sulla loro evoluzione nel passaggio dal previgente sistema di illecito atipico all’attuale conformazione dell’illecito disciplinare tipico voluta dalla riforma del 2006.

1. Intervenendo al convegno Giudici senza limiti?, organizzato dal Centro Studi Livatino a Roma il 20 ottobre 2017, Anthony Borg Barthet, giudice della Corte di Giustizia dell’UnioneEuropea, raccontò come il quesito oggetto del convegno gli avesse riportato alla mente un pranzo di tanti anni prima a Malta «dove oltre a me partecipavano un giudice della Corte maltese di ultima istanza e un avvocato siculo-americano di una certa età, che parlava poco, ma quando parlava faceva effetto. Il giudice ad un certo punto, forse solo per fare conversazione, disse che essendo già giudice di ultimo grado da più di 10 anni, e non essendovi nessun altro grado di appello oltre i suoi giudizi, doveva sempre sforzarsi di ricordare che non era un dio nel giudizio di semplici mortali.

Il siculo-americano subito rispose: “Le consiglio, signor giudice, di cominciare ogni giornata leggendo uno o due dei suoi giudizi. Siccome le divinità sono per natura infallibili, subito si accorgerà che è umano!”.

È proprio nella nostra natura umana e fallibile con tutte le sue debolezze che si trova il limite del quale un giudice, sia nazionale che internazionale, deve sempre essere conscio. Come tutti, un giudice può essere afflitto da narcisismo, mancanza di coraggio, voglia di essere popolare, pigrizia o iperattivismo»[1].

Le pagine di cronaca degli ultimi anni hanno più volte raccontato quanto tale ultimo assunto sia vero. Una riflessione che nel contesto di questa rubrica si intende condurre sul piano della «declinazione culturale di analisi del tema», secondo un approccio che  – come è stato scritto – meglio «risponde anche alla necessaria esigenza di restare assolutamente distanti dal “gossip” mediatico, dalle chat e dai libri che le trascrivono. Si tratta di contesti che non appassionano e il continuare a richiamarli per giustificare la “questione etica” alimenta solo una perdurante, morbosa, curiosità che va stigmatizzata, in favore di una visione più generale, orientata verso un modus procedendi costruttivo e propositivo»[2].

2. Come noto, nello specifico ambito di cui ci stiamo occupando i parametri normativi di riferimento per la valutazione delle condotte dei magistrati sono due: il c.d. “codice disciplinare”, ovverosia il decreto legislativo 23 febbraio 2006 n. 109[3], e il c.d. “codice etico” elaborato dell’Associazione Nazionale Magistrati nel 1994, aggiornato nel 2010[4]. Si tratta di fonti che operano su piani diversi, seppur contigui, perché possono interessare una medesima condotta. Il rapporto tra codice disciplinare e codice etico, nel contesto attuale e nella sua evoluzione storico-normativa, ci aiuta a comprendere perché il Presidente della Repubblica, nel sopra richiamato intervento, abbia utilizzato il verbo rivitalizzare con riferimento al profilo deontologico. Da qui dobbiamo prendere le mosse.

Scrive Mario Fresa che «Il Codice disciplinare del 2006 trae origine, invero, da un ampio dibattito politico, culturale e associativo, teso al definitivo superamento del sistema disciplinare tradizionale che trovava la sua regolamentazione nella legge delle guarentigie della magistratura 31 maggio 1946, n. 511 (artt. 17, 18, 19, 20, 21, 27, 28, 29, 30, 31, 32, 33, 34, 35, 36, 37 e 38), nella legge istitutiva del Consiglio superiore della magistratura 24 marzo 1958, n. 195 (artt., 10, primo comma, n. 3, 14, primo comma, n. 1) e nel relativo regolamento di attuazione e coordinamento 16 settembre 1958, n. 916 ( artt. 57, 58, 59, 60, 61 e 62).

Questo ordinamento era improntato, sino al 2006, sui principi della atipicità dell’illecito disciplinare, della discrezionalità nell’esercizio della relativa azione e della riconducibilità delle regole processuali all’abrogato codice di procedura penale di tipo inquisitorio.

Su questo assetto normativo è intervenuta la riforma del 2006, attuativa della legge delega 25 luglio 2005, n. 150, prima con il decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109 (la c.d. legge Castelli) e, poi, con le modifiche ad esso apportate dalla legge 24 ottobre 2006, n. 269 (la c.d. legge Mastella) e dalla legge 30 luglio 2007, n. 111.

Il nuovo sistema normativo – un vero e proprio codice disciplinare dei magistrati ordinari – si è sostituito integralmente al vecchio, con l’abrogazione (art. 31, d.lgs. 109) delle relative disposizioni contenute nel r.d.lgs. del 1946 (artt. 17, 18, 19, 20, 21, 27, 28, 29, 30, 31, 32, 33, 34, 35, 36, 37 e 38), nella legge n. 195 del 1958 (art. 14, co. 1, n. 1) e nel d.P.R. n. 916 del 1958 (artt. 57, 58, 59, 60, 61, e 62)»[5].

3. Il decreto legislativo 23 febbraio 2006 n. 109 individua all’art. 1 i doveri del magistrato («il magistrato esercita le funzioni attribuitegli con imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo e equilibrio e rispetta la dignità della persona nell’esercizio delle funzioni») e sviluppa – ai successivi artt. 2, 3 e 4 – tre categorie di illeciti disciplinari tipici: gli illeciti disciplinari nell’esercizio delle funzioni (art. 2), gli illeciti disciplinari fuori dell’esercizio delle funzioni (art. 3) e gli illeciti disciplinari conseguenti a reato (art. 4). Con il vigente sistema disciplinare tipizzato «si procede a una valutazione ex ante dei fatti suscettibili di dar luogo alla violazione, per cui si ha illecito soltanto quando c’è violazione dei doveri fondamentali di cui all’art. 1 del Codice disciplinare e ricorre una delle ipotesi previste nei successivi artt. 2 (illeciti posti in essere nell’esercizio delle funzioni), 3 (illeciti posti in essere fuori dell’esercizio delle funzioni) e 4 (illeciti conseguenti a reato), non ricorrendo al contempo l’ipotesi di cui all’art. 3 bis[6] (irrilevanza disciplinare della condotta)»[7].

Secondo l’attuale Presidente aggiunto della Cassazione Margherita Cassano la dimensione disciplinare costituisce il riflesso patologico dell’incapacità di garantire l’effettività dei valori che integrano lo statuto costituzionale della magistratura: «un efficace sistema ordinamentale dovrebbe, infatti, essere in grado di cogliere con immediatezza specifiche situazioni problematiche e di porvi rimedio prima ancora che esse sfocino in comportamenti disciplinarmente rilevanti.

I valori cui faccio riferimento sono quelli di autonomia, indipendenza (interna ed esterna), imparzialità, soggezione esclusiva alla legge. Il requisito essenziale posto dalla Costituzione a presidio del corretto esercizio della funzione giurisdizionale è quello dell’indipendenza del giudice, la cui attività deve essere immune da vincoli che possano comportare la sua soggezione formale o sostanziale ad altri organi e deve essere altresì libera da prevenzioni, timori, influenze, che possano indurre il giudice a decidere in modo diverso da quanto a lui dettano scienza e coscienza. Il principio dell’indipendenza è il presupposto di quello dell’imparzialità. È il giudice indipendente quello che assolve in mancanza di prove, quando l’opinione comune vorrebbe la condanna, o condanna in presenza di prove, quando la medesima opinione pubblica invoca, invece, l’assoluzione. Ciò significa che i magistrati sono autonomi e liberi nella loro quotidiana attività di interpretazione e applicazione della legge, non possono essere sottoposti a influenze interne o esterne, hanno la potestà di organizzarsi al di là di ogni eventuale condizionamento.

L’indipendenza e l’imparzialità non costituiscono prerogative di casta, ma sono funzionali all’inveramento di altri precetti fondamentali: l’uguaglianza sostanziale di tutti i cittadini dinanzi alla legge; l’osservanza del metodo del contraddittorio quale valore fondante della ricerca della verità nel processo; il rispetto delle parti, protagoniste ineliminabili della dialettica processuale; la legalità e la razionalità quale indispensabile tessitura della decisione giudiziaria; l’attenzione a nuove forme partecipative di organizzazione interna, dirette all’attuazione concreta dei principi contenuti nell’art. 111 Cost, a partire da quello di ragionevole durata del processo.

Tali valori, la cui tutela rientra nelle attribuzioni del Csm, non riguardano solo l’ordine giudiziario, riduttivamente inteso come corporazione professionale, ma appartengono alla generalità degli individui e costituiscono il presidio dei diritti dei cittadini. L’interesse pubblico in gioco riguarda il corretto svolgimento della funzione giurisdizionale, assistito dalla speciale garanzia di autonomia e indipendenza ex art. 101, comma secondo, Cost.

La magistratura trova nella professionalità la sua esclusiva legittimazione e, pertanto, per la sua credibilità è essenziale, per un verso, la salvaguardia di questi valori, insieme a quelli di diligenza, laboriosità, lealtà, probità, correttezza, e, per altro verso, la consapevolezza della dimensione di servizio insita nell’attività giudiziaria»[8].

4. Corollario di tale assunto è che «questa legittimazione della Giustizia deve misurarsi, prima ancora che attraverso il sistema sanzionatorio disciplinare, attraverso un credibile sistema di governo autonomo della magistratura e attraverso un efficace controllo dell’A.N.M. sulle condotte dei propri associati, che rappresentano la quasi totalità dei magistrati italiani (oltre il 90%).

E’ dunque essenziale che ogni magistrato conosca e rispetti non soltanto il Codice disciplinare, ma anche il codice deontologico (Codice etico), che lo precede sul piano logico. E’ dunque essenziale la diffusione di una cultura nuova dell’etica nell’A.N.M. e nella magistratura»[9].

Ancorato a un presupposto normativo (l’art. 58-bis del d.lgs. 3 febbraio 1993 n. 29) e varato nel contesto dell’Associazione Nazionale Magistrati il 7 maggio 1994, il codice etico è stato successivamente aggiornato il 13 novembre 2010 e contiene regole di condotta che trovano però la loro sanzione solo in ambito associativo, secondo quanto stabilito dallo Statuto dell’A.N.M. e, in particolare, dall’art. 10, che prevede quali sanzioni la censura, l’interdizione dai diritti sociali e l’espulsione. L’esperienza, peraltro, ci mostra come l’A.N.M. non abbia mai avuto particolare premura nel sanzionare i suoi iscritti, almeno sino alle più eclatanti vicende degli ultimi anni.

Con riguardo ai precetti contenuti nel codice etico, ricorda sempre Fresa che «sin dalla sua prima approvazione del 1994, l’A.N.M. ha precisato che “si tratta di indicazioni di principio prive di efficacia giuridica, che si collocano su un piano diverso rispetto alla regolamentazione giuridica degli illeciti disciplinari. La operata individuazione di norme di comportamento, ispirate all’attuazione di valori morali fondamentali propri dell’ordinamento di categoria, è inevitabilmente condizionata dall’assetto normativo vigente e dalla ricognizione delle questioni di maggiore rilevanza attuale: per ogni eventuale modifica e aggiornamento delle norme così individuate sarà seguita la medesima procedura”»[10]. Una impostazione confermata dalla successiva delibera del C.S.M. del 12 luglio 1994.

5. Il nodo della questione è ancor meglio inquadrato in questo frammento di Cassano: «il precetto etico-professionale è ontologicamente diverso, per funzione e per natura, dal precetto giuridico; pertanto, anche quando il piano etico e quello giuridico-disciplinare si intersecano, non sussiste necessaria coincidenza fra i due tipi di norme. In alcune fattispecie la violazione del codice etico può costituire l’indice o il riscontro di una violazione di regole disciplinari (si pensi ai precetti del codice etico in materia di indipendenza, imparzialità e correttezza), mentre in altre la violazione delle norme etiche si pone al di sotto della soglia dell’illecito disciplinare (si pensi, a mero titolo esemplificativo, alla prescrizione di comportamenti di disponibilità nei confronti degli utenti o di obblighi di aggiornamento professionale e di oculata utilizzazione delle risorse o all’obbligo del dirigente dell’ufficio di consultare il personale amministrativo, gli avvocati e gli stessi magistrati sulle questioni d’ufficio).

La sanzione disciplinare è giustificata per la violazione, per così dire, del minimo etico, mentre il precetto etico-professionale indica agli associati obiettivi che comportano la tensione verso i livelli più elevati, appunto, di etica professionale (Sez. Un. 12 aprile 2005, n. 7443)»[11].

Nel passaggio dal sistema disciplinare improntato alla atipicità dell’illecito, quale era quello di cui alla legge delle guarentigie del 1956, al sistema attuale – caratterizzato, come detto, dalla tipicità dell’illecito – la possibilità di valorizzare anche in sede disciplinare le prescrizioni contenute nel codice etico si è di fatto ridotta, se è vero che nel previgente sistema si era formato un orientamento giurisprudenziale secondo cui «il giudice investito dell’accertamento in ordine alla sussistenza, o meno, dell’illecito disciplinare ascritto ad un magistrato, è tenuto, nonostante l’atipicità dell’illecito stesso come descritto dall’art. 18 r.d.lgs. n. 511 del 1946, ad un’attività ermeneutica, consistente nello stabilire se la condotta oggetto di incolpazione rientri o meno nel paradigma normativo posto dal legislatore, ed al riguardo ben può far riferimento anche a norme interne alla Magistratura, quale il codice etico dei magistrati»[12].

6. Un dato va, dunque, tenuto ben presente: con la tipizzazione dell’illecito disciplinare, in detta sede il richiamo ai canoni del codice etico è di fatto solo ancillare rispetto all’aver la condotta giudicata già compiutamente integrato almeno una delle fattispecie previste dal d. lgs. 109/2006. D’altro canto «avere ben chiara la distinzione tra etica, deontologia e disciplina è il punto di partenza per mantenere il dibattito pubblico nell’alveo dei riferimenti costituzionali.

Etica e deontologia costituiscono la base, il presupposto fondativo della disciplina, ma solo in quanto esse siano poi sussunte in fattispecie legali e – nell’attuale ordinamento – anche tipiche.

Le regole di condotta che si impongono ai destinatari del precetto nell’ambito del diritto c.d. punitivo hanno, di regola, radice nella morale, ma assumono rilevanza giuridica esclusivamente nei limiti in cui risultano recepite in specifici precetti, non essendo dato al giudice professionale di applicare regole della morale non sussunte in norme di legge.

Con la tipizzazione, è stata dunque portata a compimento la distinzione tra regola deontologica e regola disciplinarmente sanzionabile già profilatasi con la previsione del codice etico dei magistrati e l’attribuzione all’Associazione Nazionale Magistrati del potere di approvarlo. Le regole del codice etico costituiscono infatti parametri utilizzabili dal giudice disciplinare esclusivamente nell’attività di riempimento delle residue clausole generali contenute nelle disposizioni del D.Lgs. n. 109 del 2006, ma certo, come è stato convincentemente sottolineato, non possono costituire “parametri per incolpazioni disciplinari”, in grado di permettere la qualificazione come illeciti disciplinari di “fatti di diretta violazione di norme deontologiche, con un chiaro stravolgimento della loro natura e della loro funzione”»[13].

E tuttavia, se il codice disciplinare sanziona la violazione del c.d. “minimo etico” sembra auspicabile attendersi la tensione verso i livelli più elevati di etica professionale cui prima si faceva richiamo, perché se c’è un problema «è piuttosto un problema di deontologia, di professionalità, che anticipa l’aspetto prettamente disciplinare. Tra deontologia, professionalità e rispetto del codice disciplinare vi è un rapporto di specialità, essendo la materia disciplinare una specie del più ampio genere corrispondente al modello di magistrato che la società pretende. Vale a dire un magistrato deontologicamente ineccepibile e professionalmente attrezzato»[14].

Vedremo nei prossimi contributi di questa rubrica ove ancor oggi è possibile una valorizzazione dei canoni etici, pur nel contesto di un sistema di illecito tipizzato; vedremo cioè dove è ancor oggi possibile la sopra menzionata attività di riempimento delle residue clausole generali contenute nelle disposizioni del D.Lgs. n. 109 del 2006, che cosa ben diversa sono rispetto al “modello aquiliano” di illecito disciplinare atipico di cui al previgente R.d.lgs. 31 maggio 1946 n. 511.

Angelo Salvi


[1] A. Borg Barthet, Il giudice e i suoi limiti, in L-JUS, Rivista telematica (www.l-jus.it), 2019, 1, pp. 14 e ss.

[2] G. Campanelli, La questione dell’etica giudiziaria tra l’allargamento delle fonti di cognizione e le risposte dell’ordinamento (quelle “successive” interne, quelle, possibili, “preventive” esterne e quelle, ipotetiche, future), in L’Ordinamento Giudiziario, quaderno 9,Scuola superiore della magistratura, Roma 2022, pp. 153 e ss..

[3] Testo consultabile al seguente link: https://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:decreto.legislativo:2006-02-23;109!vig=.

[4] Testo consultabile al seguente link: https://www.associazionemagistrati.it/codice-etico.

[5] M. Fresa, La giustizia disciplinare, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2022, pp. 17-18.

[6] Art. 3 bis : «l’illecito disciplinare non è configurabile quando il fatto è di scarsa rilevanza».

[7] M. Fresa, op. cit., p. 30.

[8] M. Cassano, Gli illeciti disciplinari dei magistrati, in Il procedimento disciplinare dei magistrati, quaderno 8,Scuola superiore della magistratura, Roma 2022, pp. 126 e ss..

[9] M. Fresa, op. cit., p. 42.

[10] M. Fresa, op. cit., p. 45.

[11] M. Cassano, op. cit. , pp. 127-128.

[12] In tal senso, Cass. Civ., Sez. Unite, 20 novembre 1998 n. 11732, la quale in altro passaggio afferma che il precetto di cui all’art. 18 del R.d.lgs. n. 511 del 1946 è «enunciato secondo la formula della “atipicità” dell’illecito (disciplinare), non diversa – come si è or ora accennato – da quella tradizionalmente adottata in tema di illecito civile (art. 2043 c.c., corrispondente all’art. 1151 del c.c. 1865)»; Più di recente, un principio pressoché analogo è stato espresso anche in Cass. Civ., Sez. Unite, 29 gennaio 2007 n. 1821: «nei comportamenti riconducibili all’illecito disciplinare previsto dall’art. 18 del r.d.lgs. n. 511 del 1946 (successivamente abrogato per effetto del d. lgs. n. 109 del 2006) rientravano tutti quei comportamenti che implicavano una immeritevolezza della fiducia e della considerazione di cui deve godere un magistrato alla quale conseguiva una compromissione del prestigio e della credibilità del singolo appartenente all’Ordine giudiziario nonché dello stesso intero Ordine, che si concretizzavano con il venir meno, nell’esercizio delle proprie funzioni, ai doveri di correttezza e di imparzialità, oltre che degli analoghi precetti dettati in materia dal Codice etico della magistratura, approvato dal C.D.C. dell’A.N.M. in data 7 maggio 1994».

[13] G. Salvi, Le ragioni costituzionali dell’ordinamento disciplinare dei magistrati, in Diritto penale e processo,4/2022, pp. 436 e ss. Secondo l’autore, attualmente Procuratore Generale della Cassazione, «la separazione delle regole della deontologia dai precetti della responsabilità disciplinare costituisce profilo peculiare rispetto alla regolamentazione stabilita per altre categorie di dipendenti e per gli appartenenti agli ordini professionali, ma è rispettosa dei principi costituzionali, come ha ben messo in luce la già citata giurisprudenza del Giudice delle leggi»; in effetti, a tal proposito abbiamo già visto come l’art. 3, comma 3, della Legge 31 dicembre 2012, n. 247 (legge professionale forense) faccia proprio il ben diverso criterio della tipizzazione dell’illecito disciplinare per quanto possibileIl codice deontologico espressamente individua fra le norme in esso contenute quelle che, rispondendo alla tutela di un pubblico interesse al corretto esercizio della professione, hanno rilevanza disciplinare. Tali norme, per quanto possibile, devono essere caratterizzate dall’osservanza del principio della tipizzazione della condotta e devono contenere l’espressa indicazione della sanzione applicabile»).

[14] M. Fresa, op. cit., p. 41.

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