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Diretto e interpretato da Alberto Sordi con Joe Pesci e Dalila Di Lazzaro, questo film ha in qualche modo anticipato quella che sarebbe stata la Tangentopoli italiana. Alberto Sordi è un magistrato che eredita una grande inchiesta sulla corruzione da un anziano consigliere che gli raccomanda, citando Talleyrand, pas trop de zèle. Ma lui di zelo ne ha troppo, firma centinaia di mandati di cattura, fa arrestare politici, faccendieri, imprenditori, massoni, uomini di chiesa e di spettacolo, finché il suo metodo fondato sulla cultura del sospetto non gli si ritorce contro: lo trovano a cena con due indagati e finisce in manette.

1. Annibale Salvemini (Alberto Sordi) è un giudice incorruttibile e intransigente. Sta compiendo un’inchiesta su tangenti per affari “sporchi” legati al mondo petrolifero, che vedono coinvolti esponenti del jet set e della politica. Per caso in un locale incontra un suo vecchio amico, Corrado Parisi (Joe Pesci): costui, spacciandosi per un uomo d’affari a livello internazionale, lo invita a passare un week-end in una villa di un ricco connazionale in Costa Azzurra. Lì tutti cercano di ingraziarselo per paura di essere inquisiti. Andato in pensione il Consigliere istruttore, Salvemini si vede affidato l’incarico di concludere il caso e, in base al materiale che ha raccolto, emette 150 mandati di cattura. Vengono arrestate molte persone famose tra cui un presentatore televisivo, una cantante di “Night-Club”, molti pseudo-finanzieri che il giudice aveva conosciuto in Costa Azzurra, compreso il traffichino Corrado.

I fermi provocano molto clamore anche se molti degli arrestati tornano presto in libertà oppure, come Parisi, scappano dall’Italia. Salvemini lo rincontrerà di nuovo in Marocco e nel tentativo di incriminarlo definitivamente, viene accusato egli stesso di corruzione e arrestato: tutti dentro, quindi, a prezzo della stessa giustizia.

2. Prima del voto sulla dichiarazione a procedere nei suoi confronti, l’on Bettino Craxi interrogò l’emiciclo composto dai colleghi parlamentari in merito al sistema di finanziamento dei partiti politici: inutile fare gli ipocriti o i moralisti, tutti sapevate e tutti partecipavate a esso. Partendo quindi dal presupposto che tutti sanno, sapevano e sapranno come gira il mondo, Alberto Sordi anticipa di otto anni Mani Pulite, proponendo la vicenda di un giudice castigatore, che entra in una vicenda giudiziaria più grande di lui per protagonismo, rampantismo e carrierismo. 

Parlando della genesi e della fisiognomica del personaggio, Sordi, interpellato da Nevio Boni de La Stampa, disse: “m’è venuta così. Quando ho cominciato a masticare sto magistrato, che vedi caso se assomiglia un po’a De Michelis: i capelli lunghi che escono dai lati della capoccia…beh me pareva un po’ esagerato…invece apri il giornale e te vedi gente in manette, li vonno carcerà e va bene e poi li mettono fuori e rientrano dentro…insomma devo dire che forse il personaggio ottenuto è più debole di quanto sia la realtà”.

La descrizione grottesca messa in campo dal regista e attore romano passa in modo singolare dallo schermo ai titoli dei giornali.

3. Oltre ad anticipare quel che poi sarebbe accaduto, il film delinea la figura di un magistrato sconosciuto ai tempi alle cronache. Lo assemblarono pezzo per pezzo, grazie alla capacità recitativa  di Alberto Sordi: nonostante la passione per le discoteche, i modi professionali ne fecero l’esemplare del giudice “bocca della legge”. Sapeva dialogare vezzosamente con i giornalisti sulle scale del tribunale, è vero, ma avrebbe salvaguardato il segreto istruttorio anche sotto tortura. Perfino il suo nome era un cadavre exquis non privo di genio, Annibale Salvemini, incrocio tra il condottiero cartaginese che voleva marciare sull’Italia con i suoi elefanti e l’uomo politico battagliero che scrisse Il ministro della malavita. Ecco, l’attrito tra il funzionario dello Stato e una sorta di showman sui generis, quali mutazioni generò nella figura pubblica del magistrato?

Il film di Sordi e Sonego faceva ridere nel 1984, ora fa tremare i polsi. Si dice spesso che la formula della commedia è “la tragedia, più il tempo”. Sarà forse vero altrove: in Italia è accaduto il contrario. Qui la formula della tragedia è: la commedia, più il tempo. Lo aveva ben chiaro Ennio Flaiano, quando scrisse che nel nostro paese la forma più comune di imprudenza è quella di ridere, ritenendole assurde, delle cose che poi si avvereranno.

Daniele Onori

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