La decisa opposizione al riduzionismo, onto-teleologico, prima ancora che teoretico, operato dal positivismo giuridico, inidoneo a cogliere l’esistenza delle cause finali; il disconoscimento del primato della prassi, a discapito dell’orizzonte speculativo del pensiero teoretico; il richiamo alla conflittualità del reale, in vista dell’esatta definizione del ruolo del giurista pratico, la cui mediazione culturale attua la natura “politica” del diritto; la fiera avversione ai portati estremi del soggettivismo giuridico odierno; la critica alla montante retorica del pan-dirittismo sotteso della moderne dichiarazioni di “diritti umani”, collocano il Nostro nell’orizzonte dei pensatori rimasti fedeli al realismo analitico-metafisico di matrice aristotelico-tomista, in antitesi al volontarismo di matrice agostiniana, per arginare lo sfaldamento in atto del pensiero giuridico classico.
1. Filosofo e storico del diritto, Michel Villey nacque a Caen, in Normandia, nel 1914. Appartenente ad una illustre famiglia di accademici e docenti, fu professore dapprima all’Università di Strasburgo (1949) e poi, per lungo tempo, all’Università Paris II Panthéon-Assas. Nel 1959 fonda gli Archives de Philosophie du droit, che dirigerà personalmente per molti anni. Cattolico intellettualmente impegnato, in un contesto culturale, quello francese degli anni ’60, dominato dalle arrembanti mode contestatarie, fu amico di molti intellettuali cattolici, tra i quali Georges Kalinowski e Sergio Cotta. Muore a Parigi nel 1998. Tra le sue maggiori pubblicazioni, si ricordano in particolare: Philosofie du droit. Définitions et fins du droit; Les moyens du droit (Dalloz, 1986); Critique de la Pensée juridique moderne (Dalloz, 1973); La Formation de la Pensée juridique moderne (Jaca Book, 1986), il suo lavoro più importante.
2. L’orizzonte teoretico entro cui si svolse la sua riflessione – volta alla riscoperta dei fondamenti, delle categorie e dei fini del diritto – postulava tre distinti assunti epistemologici, rappresentati, rispettivamente, dall’opera di osservazione e conoscenza di Aristotele, dalla giurisprudenza romana d’età repubblicana e dal realismo metafisico-analitico di Tommaso d’Aquino. Né il platonismo, né lo stoicismo assursero mai, agli occhi di Villey, a modelli epistemologici utili a fondare il sapere giuridico nella peculiare forma proposta dai giuristi romani, i quali, ne fossero o meno consapevoli, erano per il Nostro autentici aristotelici ante litteram: la funzione che per essi la iurisprudentia era chiamata ad assolvere era infatti in tutto e per tutto assimilabile a quella che Aristotele avrebbe attribuito alla giustizia, quella cioè di addivenire alla retta determinazione del giusto, naturalmente esistente nell’ordine stesso delle cose, attraverso l’attribuzione dei beni controversi tra i consociati[1].
Ecco allora che proprio nell’Etica a Nicomaco (libro V), così come nell’insegnamento giurisprudenziale romano tardo-repubblicano (rappresentato dallo ius civile casistico) e in alcuni passi della Summa dell’Aquinate (il Trattato sulle Leggi ed il Trattato sulla Giustizia nella Secunda Secundae), Villey individuerà i presupposti teorici necessari a conseguire un’esatta definizione di che cosa sia veramente giusto. Una definizione, questa, mai determinabile in astratto, ma rintracciabile a partire da un’attenta interrogazione del caso concreto, essendo la ragione giuridica non una ragione formale, ma pur dialettica, che muove dal constatare le antitesi e le contraddizioni presenti nella realtà, in vista, appunto, della determinazione, ad opera del giudice, del giusto per il caso specificamente vagliato[2].
3. In vista di ciò, tuttavia, le regole giuridiche rivestiranno un ruolo puramente accessorio, dovendo l’operatività della norma scritta essere pur sempre pensata in relazione al caso concreto. Realizzare il contrario, infatti, partire cioè da una formula giuridica astratta per giungere ad incasellare induttivamente la varietà del reale, non permetterebbe di pervenire al giusto, al diritto naturale oggettivamente inteso. Fondamentale, in tal senso, è allora la preliminare, attenta, giusta osservazione delle cose da parte dell’operatore pratico del diritto. La legge, infatti, è sempre interpretata, sempre discussa: “Se è vero che apparentemente il giudice d’oggi emette la sua sentenza sotto forma di sillogismo, di fatto il suo lavoro consiste, per la maggior parte, nella ricerca delle premesse di questo apparente sillogismo, nella scelta dei testi che serviranno a fondare la sua decisione e nella ricerca del senso da dare a questi testi, ciò che si chiama interpretazione”[3].
Eppure, l’operazione ermeneutica compiuta dall’operatore pratico del diritto, dato il carattere comunque limitato della conoscenza umana, sarà sempre incompleta, contingente, parziale: il giurista estrapolerà dalla natura delle cose alcuni elementi particolarmente evocativi, denotativi, significativi, senza tuttavia mai conoscere a fondo tutto ciò che costituisce l’ordine finalistico, che rimarrà per la sua gran parte ignoto. E lo farà attraverso l’ausilio della ragione.
4. L’importanza dell’attività ermeneutica, più in generale, della deduzione filosofica nel metodo di Villey – al fine di stabilire un rapporto tra una data situazione di fatto e le regole generali da inferire in vista della determinazione del diritto concretamente applicabile – dà altresì contezza dell’armonia che egli ritiene esistente tra la natura propria delle cose (to dikaion phusikon) e il diritto positivo (to dikaion nomikon), che con linguaggio aristotelico egli definisce “politico” (to dikaion politikon). Il suo metodo muove, cioè, dall’osservazione più obiettiva possibile della natura per volgere poi verso una calibrata e verosimile elaborazione concreta del diritto, mediante un procedimento dialettico sempre in fieri, parziale e fisiologicamente incompleto, mai definito, fisso, astratto.
Nella visione del Nostro, allora, il diritto è una promanazione finalistica e onto-teleologica della natura, che postula una disposizione (hexis) naturale e ordinata di equilibri fra le cose e le persone. Ma tale disposizione non è mai un ordine perfetto nelle sue immediate e dirette manifestazioni, domandando sempre di essere riequilibrato dall’intervento del giudice chiamato a dare il diritto nel caso concreto. Il giudice, cioè, non fa altro che derivare, a partire dalla contingenza dei fenomeni sociali, un ordine strutturale e immanente (cosmos) agli elementi naturali, fatto di cause finali, che forma la contingenza stessa del fatto particolare[4].
5. Da ciò risulta evidente che il diritto naturale classico, nella concezione villeyana, non può non avere una preponderante componente assiologica, dal momento che la struttura ontologica che si ricava dalle realtà sociali contemplate, contiene ipso facto anche un valore insito, denotante ciò per cui esse finalisticamente sussistono. Un diritto che sempre si traduce, attraverso i passaggi ermeneutici computi dagli operatori pratici, in diritto politico, in una norma che informa e regola la vita associata della polis. È per questo che nella sua prospettiva, il diritto o è politico, risultante cioè da un confronto coi fini naturali dell’organizzazione sociale, tratto dalla natura e aperto alla ragione degli uomini, di tutti gli uomini, o non è affatto.
Il Nostro si pone, dunque, quale continuatore diretto di concezioni del diritto opportunamente descritte come «astoriche» ed «anonime»[5], a sottolineare il carattere eminentemente universale e perenne di tali concezioni, e tutto lo sforzo teoretico da lui compiuto è stato diretto a difenderle tanto dall’attacco della montante corrente positivista, legalistica e volontaristica, quanto dall’influenza dei contingenti costrutti etico-religiosi.
6. Quanto a quest’ultimo aspetto, in particolare, Villey muoveva dalla convinzione per cui Dio non ha creato un cosmo animato da irrazionalità o arbitrio, ma una natura ordinata, che l’uomo abita ed “utilizza”. L’opera del giurista non in altro consiste che nel prendere sul serio il dato di natura, per ripartire secondo giustizia tra gli uomini i beni esteriori contesi. Della natura, della sua immanente struttura nomo-poietica, e quindi della possibilità stessa di esistenza del diritto, Dio è in qualche modo responsabile e garante[6].
Appartiene ovviamente all’idea cristiana di Dio quella secondo cui Egli è il legislatore dell’universo. Eppure, come legislatore, Dio può operare secondo modalità molto diverse. Se per l’Aquinate l’immagine di un Dio legislatore nulla toglie all’autonoma ricerca da parte dell’uomo dello jus, per S. Agostino questa immagine necessariamente si fonde e si confonde con l’immagine paterna di Dio: un’immagine che fa di Dio una presenza costante, irrinunciabile nell’esperienza umana, a conferma del fatto che la ragione giuridica naturale non può fare a meno di un radicamento teologico, senza il quale il sapere giuridico semplicemente non si darebbe. In tal senso, Villey rileva come Sant’Agostino sia stato intento a dimostrare con ogni mezzo l’ingiustizia del diritto romano, il cui ordinamento non annoverava tra i doveri fondamentali dell’uomo quello della pietà nei confronti di Dio. Da rigoroso tomista, Villey difende l’ordinamento giuridico romano e non esita a qualificare il ragionamento agostiniano come sofistico. Da esso, infatti, sarebbe scaturito quello che Villey definirà come agostinismo giuridico, un orientamento apparentemente sconfitto dall’aristotelismo tomistico, ma poi ripreso dalla scuola francescana, da Scoto, da Ockham, da Lutero. Ed è proprio “sui principi paradigmatici dell’agostinismo giuridico, sul suo profondo anti-giusnaturalismo, sulla sua incapacità di pensare ad una natura come criterio di orientamento per una ragione giuridica naturale laica capace di accomunare credenti e non credenti, che si fonda il pensiero giuridico moderno ‒ come Villey torna continuamente a dimostrare con rigoroso piglio storiografico”[7].
7. Tra spirito classico e spirito romantico (o, se si preferisce, tra giusnaturalismo classico e volontarismo giuridico moderno), non esiste possibilità alcuna di mediazione[8]. Anzi, proprio presagendo l’insuperabilità di tale antinomia, esacerbata dal solipsismo epistemologico di matrice cartesiana, consacrato dalla modernità, il Nostro sarà portato, in un testo poco noto, Le droit et les droits de l’homme (1983), a ribadire la sua convinzione di fondo circa la fragilità del fondamento volontaristico del pan-dirittismo multiculturalista odierno[9]. La retorica montante delle “magnifiche sorti e progressive” dei diritti umani rinvierebbe, ad avviso del Nostro, a mere dichiarazioni di principio e non a veri diritti. Nella prospettiva villeyana, infatti, i diritti umani e il loro linguaggio, si costituirebbero, non solo strumentalmente, come la punta di diamante, il portato ultimo dell’elaborazione dottrinale del diritto soggettivo, la frontiera teorica più avanzata del soggettivismo giuridico moderno, radicalizzandosi in istanze di potere, facoltà e libertà che “naturalmente” scaturenti dall’individuo stesso, giungono a farsi sistema ed ideologia[10]: “Purtroppo siamo a questo punto: tutti – i sindacati, le donne, i disabili – hanno preso l’abitudine di calcolare i loro diritti in base all’unica considerazione narcisistica di se stessi e di sé soltanto. Per questa via, a partire dal soggetto Uomo e senza riguardo per la natura politica e sociale “degli” uomini, nacquero i diritti dell’Uomo, infiniti: “felicità”, “salute”, diritto di possedere una cosa totalmente, a proprio esclusivo beneficio, libertà perfette. Ecco il punto di vista del soggetto! Ma sono false promesse, impossibili da mantenere, irreali, ideologiche”[11].
8. Se guardiamo, infatti, alla loro genesi storica, questi diritti, pur essendo un prodotto della tarda modernità, avrebbero ricevuto, a detta di Villey, un impulso determinante proprio ad opera della teologia cristiana, a dire che le ragioni profonde del trionfo del volontarismo giuridico, in voga nell’odierna società della giuridicizzazione dei desideri, non sarebbero teoretiche, bensì storiche. E oltre alla significativa dote apportata sul punto dalla riflessione teologico-cristiana, vi è stata un’eredità ben più pesante, risalente al XVII secolo, che ha contributo più direttamente alla nascita di questa tipologia di diritti: la dottrina giusrazionalistica di John Locke. Questo primo e piccolo nucleo di proto-diritti naturali, per lo più afferenti alla sfera della proprietà delle cose individuali e di quelle prodotte per mezzo del proprio lavoro, assurse ben presto a base teorica generale per la stesura, a distanza di circa un secolo, della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino. Sarebbe stato proprio il carattere mistificatorio, astratto, idealistico dei diritti inalienabili, formulato degli intellettuali rivoluzionari, a fungere da base teorica per le proclamazioni universali successive avutesi a livello planetario, tutte univocamente informate tanto ad un’idea falsata della giustizia e della sovranità popolare, quanto alla concezione dei diritti dell’uomo come frutto del paradigma progressivo ed evolutivo dell’umanità[12].
9. Da qui la conseguente convinzione di Villey circa l’irrealtà e l’impotenza delle odierne proclamazioni di diritti, viste come mere petizioni di principio, ottative, indeterminate, aleatorie, completamente prive di aderenza alla complessità del reale, nel loro intento egalitaristico, supererogatorio, universalizzante[13]. Il loro contenuto, in particolare, sarebbe eterogeneo e contraddittorio, data l’indebita stratificazione in esse di diritti formali, quali il diritto alla libertà o alla proprietà, e di diritti sostanziali frazionati, quali il diritto alla salute, al lavoro, alla cultura, al tempo libero, alla felicità, alla diversità. Il vero problema, allora, con questa tipologia di diritti umani sarebbe data proprio dal fatto che “che nessuno potrebbe servirsene se non a detrimento di certi uomini”[14]. Solo partendo dal metodo giuridico inizialmente tratteggiato, ovvero, dall’osservazione dei valori e dei fini iscritti nella natura delle cose, si potrà finalmente distinguere il diritto da ciò che gli è estrinseco, vincendo definitivamente le istanze uniformanti e livellanti dei pretesi diritti universali, che riducono la realtà ad un’idea, o meglio, ad una lettura ideologica della realtà, piuttosto che rinvenire in essa il dato giuridico insito e proprio delle forme e delle istituzioni sociali, politiche e culturali dei vari popoli e delle varie comunità.
Antonio Casciano
[1] D’Agostino, F., “Michel Villey: Cristianesimo e diritto”, in Revista Europea de Historia de las Ideas Políticas y de las Instituciones Públicas, nº 7 (settembre 2014), pp. 65 – 72; p. 67.
[2] Villey, M., Philosophie du droit, I volume, Dalloz, Paris, 1975, pp. 110 e ss.
[3] Villey, M., Archives de Philosophie du Droit, 1996, Dalloz, Paris, p. XII.
[4] Viggiani, G., Profili di problematicità ed “antigiuridicità” dell’attuale concezione dirittumanista secondo il pensiero giuridico di Michel Villey. Il contributo è reperibile online al seguente indirizzo web: La retorica contemporanea dei diritti dell’uomo (diritto.it).
[5] Villey, M., La formazione del pensiero giuridico moderno, Jacabook, Milano,1986; Prefazione di F. D’Agostino, p. XI.
[6] D’Agostino, F., “Michel Villey”, cit., p. 69.
[7] Ivi, p. 70.
[8] D’Agostino, F., “Michel Villey”, cit., p. 71.
[9] Villey, M., Le droit et les droits de l’homme, Presses universitaires de France, Paris, 1983, pp. 24.
[10] Ivi, pp. 19 e ss.
[11] Ivi, p. 117.
[12] Ivi, p. 133.
[13] Viggiani, G., Profili di problematicità, cit.
[14] Ivi, p. 182.