Alla dottrina giusromanistica non è certo sfuggita la peculiare conoscenza virgiliana in materia giuridica. Nell’Ottocento si era occupata del tema sia nell’ambito di ricerche specificamente dedicate allo studio dell’opera virgiliana, sia in sillogi di carattere più generale, volte all’analisi complessiva della conoscenza del diritto da parte dei poeti latini. Di particolare rilievo l’atteggiamento culturale e poetico di Virgilio nei confronti della guerra concepita dai Romani come una rottura traumatica delle naturali relazioni pacifiche tra i popoli: che ha sempre necessità di una giustificazione, bellum iustum piumque, cioè avere una giusta causa.
Publio Virgilio Marone nacque ad Andes (oggi Pietole), presso Mantova, da un’agiata famiglia di agricoltori, nel 70 a.C. Ebbe la sua prima educazione a Cremona, a Milano, e specialmente a Roma (dove apprese la retorica da Epidio, maestro anche di Ottaviano) e a Napoli (dove apprese la filosofia sotto l’epicureo Sirone). Il fatto fondamentale della vita di Virgilio è rappresentato dalla perdita del podere, in seguito alla distribuzione delle terre ai veterani (la questione agraria è sempre la questione più assillante della politica interna di Roma): -una prima volta (41 a.C.), distribuendosi le terre ai veterani delle guerre civili, il poeta si vide tolto il podere; tuttavia poté riaverlo appellandosi ad Asinio Pollione, allora governatore della Gallia Cisalpina (cfr. Ecloga I); -una seconda volta (40 a.C.), distribuendosi le terre ai veterani dopo la guerra di Perugia (combattuta da Ottaviano contro il fratello di Antonio; questi, mentre Antonio era in Asia, sollevò contro Ottaviano gran parte dell’Italia centrale), lo perse definitivamente e, poiché tentò di opporsi con la forza al centurione che doveva entrane in possesso, corse serio pericolo di vita (cfr. Ecloga IX). Venne allora a Roma, dove conobbe Mecenate e Ottaviano, che gli donarono censo e ville a Nola, a Taranto e in Sicilia, ma si stabilì definitivamente a Napoli, dove comprò la villa di Sirone che nel frattempo era morto. Neppure ciò valse pero a dare pace e soddisfazione al suo animo, tutto preso dalle campagne della sua Mantova: da questo deriva quella che fu chiamata malinconia virgiliana, o dissidio romantico tra ideale e reale, tra l’aspirazione a un bene irrevocabilmente perso e la nuda prosaica realtà della vita (cfr. Il dramma spirituale di Didone). Nell’ultimo anno di vita compì un viaggio in Grecia per conoscere da vicino i luoghi descritti nell’Eneide, ad Atene incontrò Augusto che proveniva dall’Oriente, e con lui compì il viaggio di ritorno. A Brindisi, colpito da mal di stomaco, moriva nel 19 a.C. Fu sepolto sulla via di Pozzuoli, presso Napoli; ma un ignoto cataclisma, avvenuto nel Medioevo, fece inghiottire strada e tomba dal mare.
Sulla base dei testi si può sostenere, non senza ragione, che il poeta provasse quasi ripugnanza ad accostare bellum a ius: sorprendentemente nell’opera virgiliana non esiste un’occorrenza di bellum qualificato iustum, né per il termine è mai utilizzato l’aggettivo pium, così come sono evitati anche i contrari iniustum e impium[1].
Assai significativo per questo discorso si presenta il passo dell’Eneide in cui bellum e ius si ritrovano insieme: Macte nova virtute; puer: sic itur ad astra, dis genite et geniture deos. Iure omnia bella gente sub Assaraci fato ventura resident nec te Troia capit[2]. Evidentemente ispirati all’ideologia augustea della pace[3], questi versi costituiscono la parte più significativa della profezia, indirizzata a Iulo dal dio Apollo, riguardante l’avvento di un’età senza guerre per i futuri discendenti del giovane troiano.
Ruggero Fauro Rossi ha evidenziato che nell’opera virgiliana la parola pax ricorre 39 volte: 2 nelle Georgiche e 37 nell’Eneide[4]. Del resto, come ha sottolineato altresì Sini, Virgilio può essere considerato come il ‘poeta della pace’ poiché, rivolgendosi ai concittadini, «ha cantato i benefici della pace ritrovata, della nuova età dell’oro: in sintonia con una delle idee portanti della politica di Augusto»[5].
Il termine assume significati diversi: può indicare semplicemente uno stato opposto a quello di guerra, ma anche una condizione di prosperità, un’amicizia o un’alleanza che segue un patto, una resa, la pax deorum, la pax Romana.
Soffermiamoci, anzitutto, su quest’ultimo significato. In un passo celebberimo, Aen. 6.851 ss., si legge: tu regere imperio populos, Romane, memento / (haec tibi erunt artes) paci que imponere morem, / parcere subiectis et debellare superbos‘.[6]
Anchise si rivolge ai Romani affermando che essi hanno il compito di dominare i diversi popoli, stabilire norme di pace (imponere morem paci), risparmiare i sottomessi e debellare i superbi.
Sono parole celebri, come ben noto. Il passo – studiatissimo – è stato oggetto di attenta analisi dal punto di vista giuridico da parte di Sini il quale ha spiegato come Aen. 6.852 chiarisca, forse più di ogni altro testo antico, la nozione “romana” della pace intesa nei suoi aspetti religiosi e giuridici[7]. Cerchiamo quindi di sottolinearne i punti principali. Anzitutto – rileva Sini[8] – emerge dal passo il carattere bilaterale ed imperativo della nozione di pax. Al carattere imperativo rimandano sia il termine mos, connesso con lex dal grammatico Servio nel suo commento al verso in esame: Pacim morem leges pacis, sia il verbo imponere.
Nella pace e nella sua conservazione risiedono, quindi, per Virgilio le motivazioni teologiche e storiche dell’espansione mondiale dell’imperium populi Romani. La bilateralità risulta, invece, alla luce di altri passi virgiliani: Aen. 12.110-112; 12.821-822; 7.284-285 ove si rinviene una connessione etimologica del temine pax con le parole pactio e pactum che indicano un accordo fra le parti[9].
In secondo luogo, il termine pax assume il significato religioso di pax Romana, intesa come un ritorno all’età dell’oro, caratterizzata soprattutto dalla cessazione delle guerre fratricide e la presenza di una concordia civium.
Come si vede, nel passo in esame la pace invocata da Virgilio assume contestualmente un significato religioso e giuridico: nessuna pace può realizzarsi senza il diritto e solo la pace permette il ripristino dell’antica età dell’oro ritenuta dal poeta la missione assegnata dagli dei al popolo romano.
Daniele Onori
[1] Vedi H. MERGUET, Lexikon zu Vergilius, cit., pp. 88 ss
[2] Aen. 9.641-644. Trad: “Che bel saggio, piccolo, evviva! Agli astri si arriva così, frutto e seme di dèi. È giusto, è fatale che tutte le guerre a venire si plachino sotto gli eredi di Assàraco. A te Troia non basta”
[3] A.M. GUILLEMIN, Virgile. Poète, artiste et penseur, Paris 1951, pp. 283 ss., coglie assai bene l’aspetto religioso e politico della profezia e sottolinea la funzione pacificatrice dell’impero del popolo romano insita nei vv.; anche il commento di E. PARATORE, Virgilio, Eneide, V (Libri IX-X), Milano 1982, p. 197, si orienta nel medesimo senso: «Il poeta, invece d’insistere sull’idea dei trionfi e delle vittorie, mette in primo piano quella della pace, più consona al suo sentimento».
[4] R.F. ROSSI, s.v. “Pace” in Encicl. Virgil. III (1987)
[5] F. SINI, A quibus iura civibus praescribebantur. Ricerche sui giuristi del III sec. a. C., Torino 1995
[6] Trad: tu ricorda, Romano, di governare i popoli; questa la tua vocazione: imporre norme alla pace, risparmiare chi si arrende e debellare i superbi”.
[7] F. SINI Bellum nefandum, Virgilio e il problema del ‘diritto internazionale antico’, Sassari 1991
[8] F. SINI idem , cit. 239 ss.
[9] Sul punto vd. ancora SINI, Bellum Nefandum cit. 244 ss. ove è spiegata l’etimologia di pax , che collega anche con l’arcaico pacere delle XII Tavole.