Trent’anni fa come oggi un attentato all’altezza di Capaci stronca la vita di Giovanni Falcone: a lui e all’amico e collega Paolo Borsellino, che avrà la medesima sorte a distanza di appena tre mesi, è dedicato il film Giovanni Falcone (1993), rievocazione cronachistica, aderente ai fatti degli ultimi dieci anni di attività come giudice e dirigente del ministero.
1. Tragico e coinvolgente, il film di Giuseppe Ferrara ci riporta a uno dei periodi piú bui della nostra Repubblica. Nonostante tutto, non è la cronaca di una sconfitta: racconta la straordinaria avventura dell’uomo che, con la sua azione, ha segnato il declino di Cosa nostra. Un’indagine nella Storia, che rivela la condizione di accerchiamento in cui si è trovato il giudice palermitano[1], stretto tra mafiosi, avversari interni al mondo della magistratura e una classe politica spesso irresponsabile. E individua coloro che, nascosti dietro il paravento del «rispetto delle regole», lo contrastarono, tentarono di delegittimarlo e lo isolarono fino a trasformarlo nel bersaglio perfetto per i ‘corleonesi’ di Totò Riina.
Il film copre l’arco di tutto un decennio, dagli inizi della seconda guerra di mafia per l’egemonia sul traffico di stupefacenti con gli omicidi dei boss Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo, passando – fra gli altri – per i delitti “eccellenti” del prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa (3 settembre 1982) e del consigliere istruttore di Palermo Rocco Chinnici (29 luglio 1983), quest’ultimo ideatore del ‘pool antimafia’, alla cui guida subentrò Antonino Caponnetto.
2. L’opera di Ferrara rende altresì omaggio alla memoria del vice questore aggiunto Ninni Cassarà (assassinato il 6 agosto 1985), il quale lavorava a stretto contatto con i magistrati titolari delle inchieste e al fido collaboratore Calogero Zucchetto, agente di polizia tristemente poco ricordato, con il quale Cassarà attraversava le borgate di Palermo in sella ad un motorino per dare la caccia ai ricercati. In un crescendo di indagini, colpi di scena e boicottaggi – come quello ai danni dello stesso Falcone per impedirgli dapprima la nomina dapprima a capo dell’ufficio istruzione di Parlermo, e poi l’elezione al CSM – la narrazione prosegue fino alla tragedia annunciata, quei 1000 chili di tritolo nascosti sotto l’autostrada A29 nei pressi dello svincolo di Capaci, che alle 17:58 del 23 maggio 1992 colpirono le auto su cui viaggiavano il magistrato, la moglie e collega Francesca Morvillo e i tre agenti di scorta Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo. Poco meno di due mesi più tardi la mafia si accanirà ancora sui servitori dello Stato. Il 19 Luglio 1992 cadevano nell’attentato di via Mariano D’Amelio a Palermo il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta: gli agenti Vincenzo Li Muli, Eddie Walter Cosina, Emanuela Loi, Claudio Traina e Agostino Catalano.
L’allarme rosso era scattato quando il ‘pool’, dopo avere tratto in arresto centinaia di esponenti dei quadri intermedi e di comando della mafia militare, aveva attinto con le indagini anche ai livelli superiori che coinvolgevano il mondo politico ed economico, varcando così le colonne d’Ercole che presidiavano un confine invisibile ma tacitamente ritenuto invalicabile: il 3 novembre 1984 era stato arrestato Vito Ciancimino, il successivo 12 novembre le manette si erano strette ai polsi dei cugini Ignazio e Nino Salvo, terminali regionali di un ramificato sistema di potere nazionale. La stagione degli intoccabili sembrava volgere alla fine. Molti a Palermo e a Roma cominciarono a temere il peggio.
3. A chi sarebbe toccato dopo i Salvo e Ciancimino? Per di più si stava verificando un fenomeno inedito e, se possibile, ancor più preoccupante. Una parte della società civile – quella che non si ingrassava grazie all’indotto del sistema di potere mafioso, quella che non accettava di «farsi i fatti propri», quella di coloro che non rinunciavano al proprio statuto di cittadinanza per divenire clienti, sudditi di padrini politici e mafiosi – per la prima volta trovava in quei magistrati la possibilità di identificarsi con uno Stato finalmente affidabile. Falcone e Borsellino stavano divenendo le icone di questa Italia seria. È l’inizio della fine. Sugli uomini dell’Ufficio istruzione si scatena una campagna politica mediatica micidiale, che li sommerge quotidianamente sotto una coltre di accuse infamanti, di calunnie. La loro delegittimazione tende a distruggere la possibilità della gente di identificarsi con istituzioni credibili.
Il 6 maggio 2004, a dodici anni dalla strage di Capaci, la seconda sezione penale della Corte di Cassazione ha scritto nella sentenza che ha reso definitive alcune condanne per l’attentato dell’Addaura: Non vi è dubbio che Giovanni Falcone fu sottoposto a un infame linciaggio – prolungato nel tempo, proveniente da piú parti, gravemente oltraggioso nei termini, nei modi e nelle forme – diretto a stroncare per sempre, con vili e spregevoli accuse, la reputazione e il decoro professionale del valoroso magistrato. Non vi è alcun dubbio che Giovanni Falcone – certamente il piú capace magistrato italiano – fu oggetto di torbidi giochi di potere, di strumentalizzazioni a opera della partitocrazia, di meschini sentimenti di invidia e gelosia (anche all’interno delle stesse istituzioni), tendenti a impedirgli che assumesse quei prestigiosi incarichi i quali dovevano, invece, a lui essere conferiti sia per essere egli il piú meritevole, sia perché il superiore interesse generale imponeva che il crimine organizzato fosse contrastato da chi era indiscutibilmente il piú bravo e il piú preparato, e offriva le maggiori garanzie – anche di assoluta indipendenza e di coraggio – nel contrastare, con efficienza e in profondità, l’associazione criminale.
4. Giovanni Falcone fu un uomo solo in vita è aprì, in solitudine, strade che ancora oggi vanno fino in fondo esplorate, se si ha in animo di distruggere la mafia, le mafie. Nessun uomo nel nostro Paese ha accumulato nella sua vita sconfitte più di lui. Il CSM lo ha bocciato come consigliere istruttore; lo ha scartato quale come procuratore della Repubblica di Palermo; nelle lezioni del CSM, candidandosi in una «corrente» che aveva contribuito a fondare, non riceve i voti sufficienti per essere eletto. Innova le strutture dello Stato dedicate al contrasto di Cosa nostra e delle mafie ideando la procura nazionale antimafia.
Nata quella sua «creatura», sarebbe stato il naturale capo dell’ufficio. Non c’è stato tempo per bocciarlo, in quest’occasione. Il 23 maggio del 1992 i ‘corleonesi’ si incaricano di ucciderlo. Qualche giorno dopo, esasperato dall’unanimità del cordoglio, dalle troppe ipocrite voci di dolore e di rimpianto, Mario Pirani ricorre a un personaggio letterario, all’Aureliano Buendìa di Cent’anni di solitudine che dette trentadue battaglie e le perdette tutte, per dar conto del rosario ineguagliato di sconfitte subìto da Giovanni Falcone e denunciare il tentativo «d’impadronirsi, annullare e distruggere definitivamente quel poco che potrebbe resistere dell’eredità di Falcone».
Timore lungimirante. Acuminato vaticinio, perché negli anni a seguire è appunto quel che accadrà. Umiliata in vita l’eccentricità «rivoluzionaria» del suo riformismo rispetto a un modo di essere magistrato in Italia o all’idea subalterna della funzione giudiziaria coltivata dalla politica, la diversità di Falcone – in morte – viene indebolita, snervata. Ora che non bisogna più fare i conti con quel giudice, con la sua passione civile, il talento investigativo, l’estro, la tenacia, la forza delle sue idee, ora che ci si è liberati, con la sua presenza fisica, della sua testimonianza e del suo esempio si può prendere possesso della sua memoria.
O meglio, ci si può impadronire – nella sua storia, nelle sue parole e nelle sue decisioni – di qualche brano, di qualche passo, di quella scelta e non di quell’altra, di quel che è utile oggi e ora nella mischia quotidiana e agitarlo contro gli antagonisti del momento. Così taluni fra gli stessi magistrati che lo hanno denigrato in vita lo esaltano oggi, da morto, per difendere se stessi, le proprie idee o errori o iniziative, e politici che, in vita, hanno lavorato al suo ostracismo oggi ne esaltano i pensieri e i metodi, in quei segmenti che più tornano comodi.
Daniele Onori
[1] Giovanni Falcone (1939-1992) entrò in magistratura nel 1964. Dopo essere stato pretore a Lentini e pubblico ministero e giudice a Trapani, fu dal 1978 al marzo 1991 giudice istruttore e procuratore aggiunto della Repubblica a Palermo. Nel marzo 1991 fu nominato direttore generale degli Affari penali del ministero di Grazia e giustizia. È stato assassinato il 23 maggio 1992.