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Il canone dell’imparzialità del giudice, posto dalla Costituzione, si definisce in concreto nei princìpi di carattere etico che orientano il comportamento del magistrato nell’esercizio delle funzioni, e fuori da tale esercizio. Qui il tema è trattato con riferimento all’attributo della apparenza di imparzialità, e al suo rapporto con la neutralità culturale e politica del giudice, muovendo da quanto affermato in alcune recenti decisioni. 

1. Il magistrato «esercita le funzioni attribuitegli con imparzialità». Così si apre l’art. 1 del decreto legislativo 23 febbraio 2006 n. 109. Il principio è valorizzato anche nel c.d. codice etico approvato dall’Associazione Nazionale Magistrati il 13 novembre 2010, al cui art. 9 si legge: «Il magistrato rispetta la dignità di ogni persona, senza discriminazioni e pregiudizi di sesso, di cultura, di ideologia, di razza, di religione. Nell’esercizio delle funzioni opera per rendere effettivo il valore dell’imparzialità, agendo con lealtà e impegnandosi a superare i pregiudizi culturali che possono incidere sulla comprensione e valutazione dei fatti e sull’interpretazione ed applicazione delle norme. Assicura inoltre che nell’esercizio delle funzioni la sua immagine di imparzialità sia sempre pienamente garantita. A tal fine valuta con il massimo rigore la ricorrenza di situazioni di possibile astensione per gravi ragioni di opportunità».

Il tema dell’imparzialità del giudice – dai contenuti, prima facie, scontati (chi può revocare in dubbio il principio sancito all’art. 111 co. 2 della Costituzione, secondo cui «ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale»?) – nasconde in realtà più di una insidia, quando si passa dalla astratta petizione di principio alla sua concreta declinazione.

Il dovere di imparzialità condiziona infatti sia il momento più strettamente funzionale che quello extra-funzionale, intrecciandosi con l’esercizio di diritti e libertà fondamentali, riconosciuti al magistrato così come a qualsiasi altro cittadino, che impongono di districare i conseguenti nodi.

E’ interessante notare come nella recente esperienza l’attributo più discusso sia quello della immagine di imparzialità, la c.d. neutralità dell’apparenza come garanzia di imparzialità per chi si appresta a essere giudicato, di cui il codice etico si interessa con specifico riferimento all’ambito funzionale[1] e il codice disciplinare in alcune previsioni inerenti agli illeciti extra-disciplinari[2].

Sul piano dei contenuti, i profili da considerare sono due: quello concernente la neutralità politica del magistrato, e quello che attiene alla contigua sfera della neutralità culturale.

2. Sotto il primo profilo, va tenuto presente che l’art. 3 co. 1 lett. h) del decreto legislativo 23 febbraio 2006 n. 109 prevede espressamente tra gli illeciti disciplinari extra-funzionali due fattispecie : 1. l’iscrizione a un partito politico; 2. la partecipazione sistematica e continuativa a partiti politici.

Come noto, della norma in questione si sono di recente occupate sia la Corte costituzionale che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, nel caso del magistrato Michele Emiliano, già sindaco di Bari e attuale presidente della Regione Puglia. Possiamo allora partire da qui, e in particolare dall’affermazione delle Sezione Unite secondo cui «il magistrato può (…) partecipare ai partiti politici purché in maniera “non sistematica né continuativa”. Egli, tuttavia, finché rimane magistrato, non può sottrarsi ai doveri inerenti alla sua posizione istituzionale; e, seppur collocato fuori dal ruolo organico della Magistratura, è tenuto a salvaguardare la propria indipendenza e la propria imparzialità, nonché la stessa apparenza di queste ultime, in modo da non compromettere la fiducia di cui – in una società democratica fondata sul principio di legalità – l’ordine giudiziario deve godere presso l’opinione pubblica»[3]; e ancora: «è incomprimibile il diritto dei magistrati a partecipare alla vita politica della società; ed è pura illusione immaginare la loro indifferenza ai valori, come la loro neutralità culturale. Occorre, tuttavia, tener distinta la “politica delle idee” – che, come tale, non contrasta con il dovere di imparzialità del magistrato ed è, perciò, ad esso consentita, sia pure col necessario equilibrio e la dovuta moderazione – dalla “politica partitica”, dalla lotta tra gruppi contrapposti, alla quale il magistrato, per la particolare collocazione costituzionale dell’ordine giudiziario cui appartiene, deve astenersi dal partecipare, a tutela di quella “immagine pubblica di imparzialità” che è coessenziale all’esercizio della funzione giurisdizionale che gli è demandata».

Le Sezioni Unite hanno ripreso e sviluppato argomentazioni già poste dalla Corte costituzionale, secondo cui «come del resto qualunque cittadino, anche (e a maggior ragione) il magistrato ben può, ad esempio, svolgere una campagna elettorale o compiere atti tipici del suo mandato od incarico politico senza necessariamente assumere, al contempo, tutti quei vincoli (a partire dallo stabile schieramento che l’iscrizione testimonia) che normalmente discendono dalla partecipazione organica alla vita di un partito politico»[4].

Al di là delle considerazioni critiche svolte da alcuni costituzionalisti rispetto agli approdi cui sono giunte Corte costituzionale prima e Sezioni Unite poi[5], occorre peraltro rilevare che le aperture della Suprema Corte alla “politica delle idee”, così come la lucida presa d’atto che è pura illusione attendersi dal giudice una neutralità culturale, inducono a una più puntuale riflessione sul rapporto tra la legittima adesione da parte del magistrato a un ben preciso sistema di valori (e la conseguente partecipazione al relativo dibattito pubblico) e le nozioni di apparenza di imparzialità e immagine pubblica di imparzialità, sopra richiamate.

Il terreno su cui valutare la portata di tali nozioni è quello dei c.d. nuovi diritti, «incrocio fra scienza, diritto e persona. A differenza dell’attività politica tradizionalmente intesa, la conflittualità in questo campo attinge a livelli di maggiore profondità, coinvolgendo la stessa dimensione antropologica. La conflittualità è, inoltre, acuita dal fatto che si tratta di questioni che registrano la mancanza di condivisione nel corpo sociale nonché sovente l’assenza del legislatore; un’assenza, quest’ultima, che una parte consistente della dottrina (cf., fra gli altri, Vittorio Zagrebelsky, ne Il diritto mite) tende a giustificare preferendo che determinate materie vengano trattate dal giudice, essendo egli tecnico più raffinato e affidabile rispetto alle “mutevoli maggioranze parlamentari”»[6].

3. Immanenti, al contempo, all’ethos del cittadino, magistrato compreso, e  al logos politico, anche nella forma più accesa del confronto tra partiti, è innegabile che i c.d. nuovi diritti abbiano negli anni recenti ricevuto maggiore impulso nelle aule di tribunale, piuttosto che in quelle ove si svolge il dibattito parlamentare finalizzato all’approvazione delle leggi; ciò benché «in un sistema di diritto legislativo “giurisprudenza creativa” è un ossimoro: se è giurisdizione non è creativa, se è creativa non è giurisdizione»[7].

Nell’esercizio delle funzioni di magistrato, i precetti stesi nelle menzionate disposizioni di carattere deontologico operano su i due piani del foro interno, chiedendo al magistrato di impegnarsi a «superare i pregiudizi culturali» che lo possono condizionare, e del foro esterno, ove egli è tenuto a assicurare «la sua immagine di imparzialità».

Fuori dallo specifico ambito definito dall’esercizio delle funzioni, i suddetti precetti sembrano invece lasciare spazio ai quei “pregiudizi culturali”, in cui si estrinseca l’adesione ideologica a un determinato sistema di valori, che il magistrato – come ogni altro cittadino – può esercitare e perorare nel dibattito pubblico, facendo esercizio della libertà di manifestazione del pensiero che la Carta costituzionale gli riconosce. E’ la “politica delle idee” di cui scrive la Cassazione, rispetto alla quale occorre però interrogarsi per definirne i limiti, ovverosia per capire sino a che punto può essere contratta la legittima aspirazione del magistrato a praticare detta “politica delle idee” fuori dall’esercizio delle funzioni.

Le Sezioni Unite hanno precisato che «l’esercizio della funzione giurisdizionale impone al giudice il dovere non soltanto di “essere” imparziale, ma anche di “apparire” tale; gli impone non soltanto di essere esente da ogni “parzialità”, ma anche di essere “al di sopra di ogni sospetto di parzialità”. Mentre l’essere imparziale si declina in relazione al concreto processo, l’apparire imparziale costituisce, invece, un valore immanente alla posizione istituzionale del magistrato, indispensabile per legittimare, presso la pubblica opinione, l’esercizio della giurisdizione come funzione sovrana: l’essere magistrato implica una “immagine pubblica di imparzialità”»[8].

Con quest’ultimo inciso le Sezioni Unite si spingono oltre il dettato dell’art. 9 co. 3 del codice etico, tratteggiando la nozione di apparenza di imparzialità come valore immanente alla posizione istituzionale del magistrato, dilatabile oltre lo stretto perimetro dell’esercizio delle funzioni e debordante quindi anche nella sfera extra-funzionale.

E tuttavia, in chiave ermeneutica una sintesi tra il dato testuale ritraibile dal codice etico e il principio enucleato dalle Sezioni Unite appare necessaria al fine di non frustrare la posizione di chi – pur indossando la toga – intenda partecipare al dibattito pubblico sui temi etici[9]. In tale prospettiva, sembra condivisibile quanto già prospettato su questo sito: «sostenere, anche nel dibattito pubblico, una determinata visione con riferimento alle questioni eticamente sensibili, oggetto di dibattito politico e di pressione sul versante legislativo, non è di per sé pregiudizievole per l’imparzialità del magistrato. Lo diviene in due ben precise circostanze.

La prima si ha quando quella visione condiziona a tal punto l’esercizio della funzione da condurre il magistrato, nell’ambito di una concreta vicenda sottoposta al suo giudizio, all’adozione di una determinata decisione ultra se non proprio contra legem, assumendosi il compito di attribuire meritevolezza di tutela a istanze che non hanno trovato copertura legislativa. La seconda si ha quando, al di fuori di concrete vicende processuali, nel partecipare al dibattito pubblico il magistrato tenga una condotta incompatibile con il suo status, che impone di osservare sempre uno stile improntato a equilibrio e a serietà di argomentazioni»[10].

Nel primo caso si contravverrebbe infatti l’art. 9 co. 2 del “codice etico”; nel secondo, a venire in questione sarebbe invece il co. 3 della medesima disposizione, di cui va data una lettura sistematica con i princìpi posti dalle Sezioni Unite, che ne rendono legittima l’applicazione anche fuori dallo stretto ambito funzionale.

Resta invece aperta la questione concernente quelle – sempre più frequenti – sentenze ove il giudice, dopo aver deciso il caso facendo applicazione della vigente normativa, lamenta l’inadeguatezza della stessa, l’inerzia del legislatore, e così via. In questi casi il magistrato si lascia andare a considerazioni che vanno oltre il thema decidendum e versa le proprie opinioni in un documento reso “in nome del popolo italiano”, così contaminandone il contenuto e le finalità, atteso che al potere giudiziario non può certo essere riconosciuta alcuna prerogativa di monitoraggio, approvazione o censura dell’attività legislativa riservata al Parlamento.

Il punctum dolens è, in questo caso, non il contenuto delle opinioni espresse dal magistrato, ma la sede ove dette opinioni sono manifestate: quando la cornice è un convegno o una rivista giudica nulla quaestio, sempre che tali opinioni siano espresse con stile equilibrato e serietà di argomentazioni, ma poiché qui si tratta del testo di una sentenza e, dunque, di un documento steso dal magistrato nell’esercizio delle proprie funzioni, il canone dell’imparzialità di cui ai co. 2 e 3 dell’art. 9 del codice etico dovrebbe operare in tutta la sua pienezza, non concedendo in detta sede alcuno spazio alla c.d. “politica delle idee”.

4. Da ultimo, sotto altro profilo, ma sempre nell’ambito della riflessione sulla nozione di apparenza di neutralità, è opportuno fare cenno al tema dell’abbigliamento del magistrato in udienza. L’argomento è stato posto con riferimento al legittimo esercizio del diritto alla libertà religiosa, nella forma del simbolismo (abbigliamento di segno religioso) e, per il vero, la questione ha sinora interessato soggetti diversi dal magistrato presente in aula (avvocati, imputati, testimoni)[11].

Pur rinviando ai più specifici approfondimenti sul tema reperibili sul questo sito, si deve qui dare atto che in generale gli ordinamenti europei ed extraeuropei condividono l’orientamento che coloro che occupano ruoli pubblici rappresentativi al massimo grado dell’interesse statale alla neutralità vadano assoggettati a maggiori limitazioni della loro libertà di espressione religiosa, a garanzia della imparzialità e indipendenza del sistema giudiziario: «siffatta restrizione viene però giustificata solo ed esclusivamente con riguardo a coloro che detengono il potere di sanzionare il comportamento altrui e di imporre forme di coercizione (giudici, guardie carcerarie, ufficiali della polizia), in quanto, in tali casi, il dovere di mantenere una “apparenza di neutralità” dovrebbe essere elevato ai massimi livelli. In questa prospettiva, il pubblico ufficiale viene infatti percepito non solo come una sorta di personificazione del soggetto-Stato, in cui si incarnano i doveri statali, compreso quello della neutralità, ma pure il garante del diritto di ogni cittadino ad accedere liberamente a un pubblico servizio e a ricevere un equo trattamento, indipendentemente dalla sua appartenenza fideistica. Quest’ultima non può determinare forme di pregiudizio a suo danno o di parzialità a suo favore. Il porto di simboli religiosi potrebbe, al contrario, instillare nel cittadino il timore di diseguaglianze di trattamento sulla base dell’aderenza confessionale, o l’impressione di forme di indebita pressione o proselitismo, e affievolire la fiducia pubblica sul retto funzionamento della giustizia in una società democratica»[12].

Si è peraltro anche qui nell’ambito dell’esercizio delle funzioni, ove l’art. 9 del “codice etico” deve operare in tutta la sua portata, benché questo in astratto non escluda che determinate condotte potrebbero a buon diritto ritenersi non in contrasto con la menzionata disposizione; si pensi, per esempio, al magistrato che intenda indossare il crocifisso in una udienza ove si celebra un processo civile in materia societario, fallimentare o condominiale[13].

Angelo Salvi


[1] V., in proposito, il menzionato art. 9, co. 3.

[2] V., in proposito, l’art. 3, co. 1, lett. h) del decreto legislativo 23 febbraio 2006 n. 109.

[3] V., in proposito, Cass. Civ., Sez. Unite, sentenza 14 maggio 1998 n. 8906.

[4] V., in proposito, Corte cost., 14 maggio sentenza 20 luglio 2018 n. 170.

[5] In tal senso rimando a O. Caramasci, L’annoso problema dell’iscrizione dei magistrati ai partiti politici e della loro partecipazione alla vita politica: il c.d. caso Emiliano tra conferme giurisprudenziali e questioni irrisolte (a margine della sent. n. 8906/2020, Corte di Cassazione, sez. Unite Civili), in Osservatorio Costituzionale, Rivista telematica (www.osservatorioaic.it), 2020, 5, p. 92, secondo cui «La Cassazione e prima la Corte costituzionale non risolvono la contraddittorietà, che già la Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura aveva evidenziato, tra una legislazione che consente ai magistrati di collocarsi fuori ruolo per motivi elettorali e di candidarsi alle elezioni (nonché, nel caso, di ricoprire il relativo mandato elettivo) e, contestualmente, prevede come illecito disciplinare l’adesione (o una partecipazione organica) di questi ad un partito politico».

[6] Rimando, in proposito, a D. Airoma, Magistratura, imparzialità e manifestazione di idee, articolo reperibile al seguente link: https://www.centrostudilivatino.it/magistratura-imparzialita-e-manifestazione-di-idee/

[7] A. Gentili, Crisi delle categorie e crisi degli interpreti, in Rivista di Diritto Civile, n. 4, 1 luglio 2021, p. 633.

[8] V., in proposito, Cass. Civ., Sez. Unite, sentenza 14 maggio 1998 n. 8906.

[9] Le stesse Sezioni Unite affermano che «in un sistema costituzionale maturo, la condivisione di un’idea politica, di per sè incomprimibile, e persino la manifestazione espressa di appartenenza ad un partito politico non sono, in quanto tali, incompatibili con l’esercizio imparziale dell’ufficio pubblico ricoperto, purché ovviamente l’attività politica sia svolta al di fuori del servizio e senza contaminazioni tra gli interessi perseguiti nell’esercizio delle pubbliche funzioni e quelli privatamente coltivati».

[10] V., in proposito, a D. Airoma, cit..

[11] Eccezion fatta per il caso di Raffia Arshad (https://www.dailymuslim.it/2020/05/raffia-arshad-e-il-primo-giudice-con-hijab-nel-regno-unito/), rispetto al quale comunque non si registrano questioni aperte.

[12] A. Madera, Il porto di simboli religiosi nel contesto giudiziario, in Stato, Chiese e Pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), 2020, 4, pp. 11-12

[13] Diverso sarebbe, sempre a titolo esemplificativo, il discorso nel caso di processo penale con implicazioni più specificamente religiose, rispetto al quale andrebbe condotta una più puntuale riflessione sull’eventuale lesione dell’immagine di imparzialità del giudice.

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