Nella commedia Le Vespe Aristofane prende di mira la proliferazione dei processi dell’Atene dei suoi tempi (V sec. a. C.). A fronte di Ateniesi assai litigiosi, che per questo e ricorrevano spesso alla giustizia di Stato, l’interminabile guerra del Peloponneso aveva reso le giurie popolari composte quasi esclusivamente da persone anziane, che si illudevano di “pungolare” come le vespe, ovvero svolgere ancora una funzione sociale importante. Per Aristofane essi sono invece soltanto uno strumento nelle mani del potere, in particolare di Cleone, uomo politico ateniese bersaglio dei suoi strali. Cleone aveva portato da due a tre oboli il compenso per i giudici popolari, oltre la metà dello stipendio mensile di un operaio, e questo accresceva il desiderio degli Ateniesi d far parte delle giurie e di moltiplicare i processi.
1. Tra le fonti dalle quali si possono attingere notizie sul diritto attico vi è certamente il teatro: ciò vale in particolare per il V secolo a. C., periodo riguardo al quale le testimonianze sono inferiori rispetto al IV sec. a.C., che vedrà fiorire la grande oratoria giudiziaria attica[1]: se il teatro non ha il valore documentario di testimonianze più dirette – come le epigrafi riportanti leggi e decreti o le arringhe giudiziarie – esso reca con sé il grande vantaggio di offrire, accanto al nudo dato, uno spaccato delle reazioni e dei dibattiti sorti attorno a determinati provvedimenti legislativi[2]. Un autore di teatro, che puntava a ottenere effetti comici e spettacolari, fu Aristofane, commediografo interessato all’osservazione di quanto accadeva nella vita pubblica di Atene. Autore di numerosi lavori teatrali, che riscuotevano grande successo, Aristofane descrisse con toni di bonaria canzonatura il popolo ateniese come affetto da mania giudiziaria: nel senso che si appassionava allo spettacolo del processo (coniò il vocabolo: “tribunalofilo”).
Nella commedia Le vespe uno dei protagonisti è Filocleone (cioè: amico di Cleone, uomo politico ateniese), un giudice (o giurato eletto dal popolo) che soffre di eccesso di zelo: la mattina è il primo ad arrivare in Tribunale ed è sempre in preda alla sua voglia di irrogare condanne, il che che gli piace enormemente. L’altro protagonista è il figlio Schifacleone (oppositore di Cleone), che è sempre in ansia proprio a causa della foga repressiva del padre. Questi crede di esercitare il potere e di essere indipendente, ma il figlio lo disillude: “Comandar tu credi a tutti, ed invece fai da servo! Dimmi infatti: tu che i frutti cogli, o babbo, dell’Ellenia ne ricavi alcun decoro?” Quello che Aristofane vuol fare intendere è che le persone come Filocleone (persone, per lo più di età avanzata, che per sete di potere e di guadagno si fanno nominare giudici), piuttosto che esercitare un vero potere, sono soltanto uno strumento nelle mani dell’effettivo potere, che è quello dell’uomo politico del momento[3].
2. In questa commedia, tanto solare e scanzonata quanto le Nuvole sono cupe e impegnate, Aristofane prende di mira la proliferazione dei processi che caratterizzava l’Atene del suo tempo. Gli Ateniesi ricorrevano spesso alla giustizia di Stato, e per di più, a causa della interminabile guerra del Peloponneso, le giurie popolari erano composte quasi esclusivamente da anziani, che si illudevano in questo modo di svolgere ancora una funzione sociale importante, ossia di essere in grado di pungere (di qui la metafora dei giudici popolari come Vespe). Purtroppo però la loro età avanzata e la loro scarsa istruzione li rendeva facili prede dei demagoghi, che in tal modo distoglievano la loro attenzione dai ben gravi problemi legati alla guerra contro Sparta, che al tempo della prima rappresentazione de Le vespe durava da nove anni e non accennava a finire.
Aristofane considera il processo così degenerato, oltre che un distrattore di massa, uno strumento di controllo politico e sociale nelle mani del potere, in particolare di Cleone, promotore di una misura tipicamente demagogica: egli aveva infatti portato il compenso per i giudici popolari da due a tre oboli (equivalenti a oltre la metà dello stipendio mensile di un operaio): proprio per questo il vecchio che vuole parteciparvi è chiamato Filocleone, mentre il figlio che cerca di impedirglielo si chiama Bdelicleone, cioè Schifacleone. Si nota in questa commedia, meglio che in altre, un tratto tipico di Aristofane: dal suo punto di vista la generazione più sprovveduta è quella degli anziani, non quella dei giovani, e la funzione educativa, paideutica, compete semmai a questi ultimi (fra cui ovviamente lui stesso) nei confronti della generazione dei padri.
3. Nella società ateniese dell’epoca (400 a. C.) non c’era il pubblico ministero e l’azione penale veniva esercitata direttamente dalla parte offesa; in caso di crimine pubblico l’iniziativa spettava a ogni cittadino. I magistrati avevano funzioni di raccolta delle prove e altre funzioni amministrative (ad es. fissare il calendario delle udienze), tranne che per particolari reati, per i quali erano loro stessi a decidere (per esempio, per i reati di competenza dell’Areopago). Per il resto a pronunciare il verdetto erano i giudici popolari, eletti tra coloro che si candidavano a svolgere tale funzione. L’udienza era presieduta dal magistrato, gli interventi di accusa e difesa erano di pari durata e regolati dalla clessidra, e l’intero processo doveva esaurirsi nell’arco di una giornata. Le giurie (o meglio, le assemblee giudicanti) erano composte da moltissimi giudici (si arrivava a 401) e la spesa pubblica per i compensi era esorbitante. Tanto che nei momenti di crisi finanziaria i procedimenti privati venivano sospesi.
Ne le Vespe Aristofane mette in scena una situazione potenzialmente esplosiva per la democrazia: da un lato le giurie, formate da vecchi inattivi e disoccupati, ordinariamente insignificanti per condizione sociale, attaccati alla vertiginosa gratificazione di un esercizio di potere inappellabile e protetto dall’anonimato, dall’altro le pressioni manipolatorie di capi popolari disinvolti e violenti come Cleone, che trovano legittimazione politica grazie all’erogazione di una modesta diaria ai giudici, da loro percepita come una sorta di reddito di cittadinanza. Di fronte a un pubblico composto in buona parte di cittadini che avevano esperienza diretta non solo come giudici ma anche come spettatori dei processi, Aristofane pone in questione non solo la capacità di autonomo giudizio delle giurie, bensì pure le suggestioni che spesso muovono il giudizio popolare, ondivago e irresponsabile.
Daniele Onori
[1] Cfr. Wallace 2005, 357. Allen 2005 (in particolare 375) pone bene in rilievo l’importanza che il dramma (nella fattispecie quello tragico) riveste nell’offrire informazioni sulle leggi ateniesi, e viceversa.
[2] Il teatro, uno dei luoghi di esercizio della παρρησία, riflette ovviamente temi che erano dibattuti in seno alla πόλις. Sull’argomento (limitatamente al teatro tragico e a quello aristofaneo di V secolo), cfr. Ehrenberg 1957; Di Benedetto 1971; Mastromarco 1974; Goldhill 1986, 57-78; De Romilly 1990, 116-124; Bowie 1993; MacDowell 1995; Thiercy – Menu 1997; Zimmermann 1998, 100-126; Cartledge 1999, 3-35; Di Benedetto – Medda 2002, 313-320, 327-342; Slater 2002; Sidwell 2009; Rodighiero2013, 135-150. Sulla παρρησία cfr. Radin 1927; Momigliano 1971; Foucault 1985; Spina 1986; Lotze 1997; Foucault 1999; Ammendola 2001; Scarpat 2001; Sluiter – Rosen 2004; Saxonhouse 2006; Camerotto 2012.
[3] Cfr. U.Apice, Diritto e processo in alcuni testi antichi (letterari e religiosi) in https://www.quotidianogiuridico.it/