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Medea è stata protagonista non soltanto della tragedia greca, bensì pure di quella latina. Seneca, filosofo ma pur sempre uomo romano, non poteva rappresentare asetticamente un mito inaccettabile per il mos maiorum: una donna capace di azione, e anche omicida! Attraverso il coro, l’Autore condanna Medea  senza appello: è una donna fuori controllo, un animo che ha ceduto alle passioni, al rancore e alla gelosia, abbandonando quell’atarassia che della filosofia stoica è il centro focale. Al di là delle interpretazioni degli autori greci e latini sul mito di Medea, agli occhi moderni l’attenzione dovrebbe essere posta su un altro aspetto: Medea, colpevole o giustificata? Perché ha agito in quel modo, che cosa abbia fatto scaturire tanto odio o passione o ira? Quali sono i retroscena?

1. Medea è il titolo di una tragedia di Seneca, che riprende l’impianto narrativo dell’omonima opera teatrale di Euripide[1], enfatizzando i lati drammatici, morali e vendicativi della protagonista invasa dal turbamento psicologico e dalla follia. In tal senso, l’opera di Seneca offre consistenti novità rispetto a quella di Euripide[2]. La diversità più evidente è il carattere ethocentrico della tragedia senecana, perché la struttura stessa dell’opera si basa sui valori etici che caratterizzano i personaggi. Mentre il teatro greco aveva una dimensione spazio-temporale ben definita, all’interno della quale si muovevano i personaggi, essa non è presente nella tragedia di Seneca (destinata alla lettura, probabilmente alle declamationes): ciò che preme a Seneca è mettere in risalto la polarità ratio/furor, lo scontro che lacera ogni personaggio delle tragedie dello scrittore spagnolo.

Con la mancanza della contestualizzazione perdono rilevanza soprattutto le caratteristiche antropologiche centrali nella Medea euripidea, nella quale essa è donna, maga, barbara, esplicitamente “inferiore“ a Giasone, maschio, greco e sul punto di salire al trono per sposare la figlia del re di Corinto, Creonte.

Questi pregiudizi propri della cultura greca vengono, narrativamente, condannati da Euripide mediante la creazione della figura di Giasone, cinico, egoista e calcolatore. Il messaggio che Euripide vuole chiaramente evidenziare è che nello scontro tra i due coniugi Medea è paradossalmente migliore di Giasone!

2. In Seneca questo messaggio non è presente; il suo interesse non è di mettere in luce la condizione sociale dei cosiddetti “esclusi“ (le donne, i bambini, gli stranieri), ma di evidenziare gli effetti distruttivi delle passioni più violente, nella specie l’ira. Medea dunque raffigura “l’anti–sapiens“, ove il furor prende il sopravvento sulla ratio, trascurando anche l’istinto materno.

La storia raccontata è tra le più drammatiche e violente messe in scena. Giasone, figlio del re di Iolco, dopo l’usurpazione del trono del padre da parte dello zio, parte alla ricerca del vello d’oro per conto di quest’ultimo, che ha promesso di riconsegnargli il regno una volta in possesso di tale oggetto. Giasone, organizzata la celebre spedizione degli Argonauti, inizia il suo viaggio con l’obiettivo di appropriarsi del vello d’oro, una pelle di montone custodita dal re della Colchide, Eete, e protetta da un terribile drago. L’eroe giunto sul luogo, supererà una serie di prove difficilissime grazie all’aiuto di Medea, la figlia del re Eete.

Conquistato il vello, Giasone decide quindi di scappare con lei, oramai perdutamente innamorata. Il padre e il fratello li inseguiranno ma, con l’uso della magia, Medea uccide suo fratello, rallentando la rincorsa degli inseguitori e rendendo più facile la loro fuga.

Medea e Giasone si sposano e hanno due figli maschi, ma giunti a Corinto egli si innamora di Creusa, la figlia del re Creonte. Medea, furiosa e impazzita, capisce che non cʼè possibilità per lei di riconquistare Giasone, e inizia a meditare la sua vendetta. Il re di Corinto temendo i poteri la terribile maga decide di esiliarla, per allontanarla e cercare di prevenire il rischio di qualsiasi gesto criminale.

Ma la furiosa donna con la giustificazione di non riuscire a trovare una sistemazione adeguata fuori Corinto posticipa di un giorno l’esilio, e proprio in questo breve arco temporale vendica l’affronto subito. Il suo disegno criminale inizia con l’uccisione di Creusa: fingendosi benevola le fa arrivare una collana e una veste in dono che, appena indossati, prendono fuoco.

Creonte, che vede la figlia ardere viva, nel tentativo di abbracciarla per spegnere le fiamme, perde la vita bruciando anche lui. La vendetta di Medea non si placa, e quindi uccide i suoi due figli, concepiti con Giasone.

La tragedia teatrale termina con lo struggente ed incalzante dialogo tra Giasone e Medea in cui si mette in evidenza la lucida follia di una rea, che apre il suo cuore – così come quello dello spettatore – con una confessione spassionata di moventi, cause e motivi dei suoi reati, colpevolizzando Giasone per i suoi gesti: egli è il vero responsabile dei fatti da lei solo materialmente compiuti guidata dal furor, che va a sostituirsi completamente alla ratio, demolendo ogni istinto razionale.

3. Potrebbe sembrare singolare cogliere profili processual-penalistici nelle parole di Medea, ma un attento lettore non può non rimanere impressionato dai versi di seguito riportati:

Medea:Debbo fuggire, Giasone, fuggire. Non è una novità, per me, cambiare paese, la novità è nella causa. Prima fuggivo per te. Vado, sparisco. Questa donna, che costringi a lasciare la tua casa, da chi la mandi? Al regno di mio padre? Ai campi bagnati dal sangue di mio fratello? Quali terre mi ordini di raggiungere? Quali mari mi suggerisci? Ogni strada che ho aperto a te, a me l’ho chiusa. Dove mi mandi, allora?

Tu costringi l’esule all’esilio, senza darle un luogo per l’esilio. Si parta, è il genero del re che lo ordina. Accetto tutto, io. Vuoi aggiungere qualche supplizio? Me lo sono meritato. L’ira del re calpesti con pene sanguinose questa donnaccia, le incateni i polsi, la seppellisca nella notte eterna di una rupe. Sarà sempre meno di ciò che merito. Essere ingrato, perché non lo ricordi, il toro dall’alito di fuoco? E i dardi del nemico che sorse d’un tratto dal suolo? Al mio cenno, i figli bellicosi della terra si diedero l’un l’altro la morte.

E il vello d’oro, che tanto bramavi, dell’ariete di Frisso? Mettilo sul conto. E con lui il drago sempre vigile, i cui occhi io costrinsi al sonno, che a lui era sconosciuto. E anche l’assassinio di mio fratello, e tutti i delitti racchiusi in un solo delitto, e la frode con cui indussi le figlie di Pelia a squartare il vecchio genitore nella speranza che tornasse a vivere. Per cercare regni altrui ho abbandonato il mio.

Per la speranza che nutri di avere altri figli, per il tuo focolare ormai sicuro, per tutti i mostri che ho vinto, per queste mani che per te non ho mai risparmiato, per tutti i pericoli che ho corso, per il cielo ed il mare che furono testimoni al nostro matrimonio, io ti prego di avere pietà. Rendi, tu che sei felice, ciò che devi a questa disperata. Fratello, padre, patria, anche il pudore: finito tutto! Con questa dote mi sono sposata. Rendimeli, i miei beni, ora che debbo fuggire.”

Giasone: “Creonte, che ti odia, voleva farti morire. L’esilio te l’ha concesso perché le mie lacrime l’hanno vinto.”

Medea: “L’esilio, credevo fosse una pena. No, è una grazia.”

Giasone: “Sinché sei in tempo, vattene di qui, mettiti in salvo. È dura, sempre, l’ira dei re.”

Medea: “Vuoi convincermi, ma lo fai per Creusa. Togli di mezzo una rivale odiosa.” Giasone: “Medea mi rinfaccia l’amore?”

Medea: “E il delitto, e l’inganno.”

Giasone: “Ma infine, quale delitto puoi rimproverarmi?

Medea:Tutti quelli che ho commesso io.”

Giasone:Non manca che questo, che ricada su di me anche la colpa dei tuoi delitti.”

Medea:Sono tuoi, quei delitti, tuoi. Colpevole è chi ne trae vantaggio. Dicano pure, tutti, che tua moglie è infame, tu devi difenderla, tu solo, e da solo gridare che è innocente. Per te è senza colpa colei che per te è caduta in colpa.”

4. Cui prodest scelus, is fecit questa è la locuzione latina tratta dalle parole di Medea e ancora oggi usata e tradotta in questi termini: colui al quale il crimine porta vantaggi (a chi giova), egli l’ha compiuto. All’atto terzo, versi 500-501, ella afferma: cui prodest scelus, is fecit, cioè “colui al quale il crimine porta vantaggi, egli l’ha compiuto“. Il concetto formulato da Medea è il punto di partenza di ogni ricerca investigativa: trovare un movente agevola la scoperta del colpevole, o comunque delimita il cerchio dei sospettati[3].

Questa tragedia non manca di aiutare anche il diritto nell’enunciazione dei suoi principi. Alla luce del sopra citato interrogativo, possiamo illuminare la condizione dell’imputata. Infatti, dicono di Medea che ha ucciso i suoi due figli: ma non è vero, glieli hanno uccisi quelli di Corinto. Dicono che era gelosa di Giasone, ma non è vero, amava ed era riamata. Dicono che ha ucciso la nuova sposa di lui, Glauce, ma non è vero, la ragazza si è gettata nel pozzo. Dicono che aveva ucciso il fratello, Absirto, ma non è vero, lo aveva ucciso il padre per impedirgli di succedergli. Dicono che è una maga, ma non è vero, aiuta i malati a guarire. Dicono che è libera, selvaggia, indomita, straniera. Soltanto questo è vero. Non vi è differenza tra l’aver ucciso e l’aver dato causa alla morte, attiene alla premeditazione. 

Il punto di partenza dell’indagine è stato il lemma interesse, perché il verbo interest traduce l’interesse verso una cosa, un affare o un campo d’azione, significa importa, interessa, sta a cuore. L’odierno sostantivo riproduce lessicalmente il verbo interesse (come sostantivi venivano utilizzati altri termini, soprattutto bonum o utilitas, causa). È il riferimento a quella che – oggi – diremmo una relazione di interesse (è interesse di …, importa a …). Vi è innanzitutto il soggetto rispetto al quale alcunché è di interesse o importa: nome concreto (Publii Clodii, debitoris, creditoris e così via); ovvero nome astratto (interest rei publicae). L’altro termine della relazione è costituito dalla situazione che interessa o importa al soggetto, l’id quod interest.

5. I giuristi hanno l’esigenza di differenziare il trattamento del mandante e del mandatario muovendo dalla regola generale, «mandans et mandatarius pari poena puniri»: nei primi casi al mandante deve comminarsi la pena ordinaria, nei secondi la extraordinaria, di misura inferiore.

Specularmente, communi sententia i giuristi avvertono che in qualche modo anche la sanzione del mandatario debba essere diversa nei casi in cui questi avrebbe comunque perpetrato il reato, indipendentemente dal mandante, rispetto ai casi in cui si sia determinato a commettere il reato solo a causa del mandante.

Proprio perché bisogna tenere conto della volontà, e dell’intreccio delle volontà, del mandatario e del mandante, i giuristi ritengono che al mandante che abbia conferito il mandatum a delinquere al mandatario che comunque si sarebbe determinato a compiere quel delitto anche indipendentemente dal mandatum — perché, per esempio, il mandatario, prima ancora di riceverne mandato dal mandante, aveva già deciso con animo fermo di compiere il delitto, e di compierlo in nome proprio e a proprio rischio e anche per ragioni rilevanti e importanti, perché per esempio egli stesso era stato fatto oggetto di un’iniuria proprio da colui contro il quale il mandante lo aveva incaricato di commettere il delitto — debba comminarsi solo una poena extraordinaria (più lieve, in questo caso, dell’ordinaria). In tali casi il mandante, confermando il mandatario nella sua intenzione a commettere il crimine, è solo causa concomitante del delitto che è stato perpetrato, non proprio causa principale e prima integra. In questi casi i giuristi utilizzano la categoria del persuadente opponendola a quella del mandante: questi è colui che manda a commettere il delitto per sé; il ‘persuadente’, invece, è colui che persuade qualcuno per ragioni che riguardano lo stesso persuaso; tuttavia il ‘persuadente’ è tenuto alla stessa pena se l’altro altrimenti non si sarebbe determinato a commettere il delitto.

Che cosa ci colpisce di un episodio di cronaca? Tutto può essere interessante, dalla specialità della sua vicenda all’anormalità dei comportamenti umani, ma in particolar modo la sua genesi, il carattere dei personaggi e il movente dell’azione. Cattura di più la storia di un caso piuttosto della fredda struttura o della concreta esecuzione. Ci si interroga sul perché si sia agito in quel modo, che cosa abbia fatto scaturire tanto odio o passione o ira, e quali siano i “veri” retroscena. Sono gli stessi interpreti del diritto, insieme a chi indaga sulla materialità dei fatti, a mettere in evidenza gli elementi importanti di un fatto, a scoprire il suo principio, a dare un senso al concatenamento degli eventi del caso in modo da ricostruirne la storia[4].

Daniele Onori


[1] Il mito di Medea appartiene ad un’epoca in cui non esisteva ancora la scrittura e i miti venivano trasmessi oralmente, fino a quando i Greci si impossessarono non solo delle terre, in cui prima vivevano le popolazioni originarie di quelle aree attorno al Mediterraneo, ma anche delle storie, delle saghe, dei miti di quei popoli. Da questo momento in avanti, i Greci potevano decidere se e come continuare a narrare quelle storie, riplasmarle, reinterpretarle, integrarle e conservarle nella storia di un patriarcato che iniziava a dominare sempre più incontrastato. Come per altre figure, anche il mito di Medea ha subito tale processo di scrittura in epoca patriarcale, per cui, da divinità potente e benefica, è divenuta simbolo di male e follia. La tragedia euripidea, che ha portato alla ribalta la figura femminile di Medea, si proponeva come rappresentazione dello scontro tra il mondo arcaico e istintuale della Colchide (Medea) e quello civile e raziocinante dei Greci. Euripide ne consacra l’atroce violenza perpetrata dalla barbara della Colchide sulla propria prole, segnando un punto di svolta nell’immagine di Medea: la Medea infanticida.

[2]  Sul tema delle riscritture della Medea si vedano B. Gentili, F. Perusino (a cura di), Medea nella letteratura e nell’arte, Venezia 2000; P. M. Filippi, Le riscritture infinite di un mito. La Medea di Franz Grillparzer e la Medea di Christa Wolf, in Atti dell’Accademia Roveretana degli Agiati, classe di scienze umane, classe di lettere ed arti, serie VIII 2 A, 252, 2002, 169 ss. (che non ho personalmente consultato); A. López, A. Pociña (edd.), Medeas. Versiones de un mito desde Grecia hasta hoy, 1-2, Grenada 2002; A. López, Una Medea en el tercero milenio: Medea en Corinto de Luz Pozo Garza, in: F. De Martino, C. Morenilla (edd.), El teatre clàssic al marc de la cultura grega ila seva pervivència dins la cultura occidental, Bari 2004, 347 ss.; D. Mimoso-Ruiz, Médée antique et moderne. Aspects rituels et sociopolitiques d’un mythe, Paris 1982; P. Radici Colace, A. Zumbo, La riscrittura e il teatro dall’antico al moderno e dai testi alla scena, Messina 2004.

[3] L’interrogativo “a chi giova?” (cui prodest) lo si fa risalire al giudice Cassio Longino Ravilla (II secolo a.C.), tribuno nel 137, promotore della lex Cassia tabellaria, che prevedeva l’espressione del giudizio in forma segreta, console nel 127. Sulla sua morte, Liv. Ep. 65. Fonti Cic., Brut., 25; Val. Max, 3.7

[4] C. Pennacchio, Tracce di diritto nel mito e nella letteratura. Un parametro per rintracciare le responsabilità. In Convegno su” I Diritti delle donne: dall’Atene classica al Diritto Penale Romano”, 12 marzo 2019

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