La complessità del rapporto tra individuo e legge è la problematica centrale nella riflessione di Porte aperte, film di Gianni Amelio, tratto dall’omonimo romanzo di Leonardo Sciascia del 1987. La vicenda prende le mosse da un fatto di cronaca nera: un triplice omicidio nella Palermo del 1937, durante il fascismo. L’assassino è un ex impiegato di una corporazione, ampiamente colluso con il potere e poi improvvisamente licenziato: il suo perverso disegno di vendetta colpisce la moglie, il collega che lo ha sostituito e l’avvocato Bruno, fascista ben noto in città e responsabile dell’ufficio in cui l’omicida aveva lavorato. “Porte aperte” guarda prevalentemente al processo che seguì i fatti; protagonista del film e del romanzo diviene così il “piccolo giudice”, chiamato in corte d’assise a far parte della giuria come togato, che, contro le pressanti aspettative del regime, dei suoi superiori e dell’opinione pubblica, riesce a evitare in primo grado la condanna a morte dell’imputato, anche grazie alla sensibilità e al coraggio di un giudice popolare, agricoltore autodidatta e illuminato, estraneo al minaccioso clima di propaganda che esige una sentenza esemplare.
1. In una tiepida mattina di marzo del 1937, a Palermo, Tommaso Scalia (nel film interpretato da Ennio Fantastichini) commette tre omicidi.
Con fredda determinazione uccide dapprima il superiore che lo aveva licenziato, poi l’uomo che aveva preso il suo posto alla Confederazione fascista professionisti e artisti, infine sua moglie. Torna a casa, prepara da mangiare al figlio e aspetta, sdraiato sul letto, che lo vengano ad arrestare. Il giudizio in Corte d’assise ha un esito in apparenza scontato: durante il fascismo per questi reati è prevista la pena di morte. Ma il giudice a latere, Vito di Francesco (Gian Maria Volontè), prima confusamente, poi scoprendosi sempre più, anche rispetto al presidente del tribunale, che non vede di buon occhio tanti dubbi e incertezze rispetto a una legge dello Stato – legge che permette alla gente di dormire tranquilla, “con le porte aperte” -, cerca una strada per salvare dalla fucilazione quell’assassino, che pure sembra non voler essere salvato.
Anche contro l’intento dell’imputato, rassegnato a un processo rapido e a una sentenza di morte, il giudice indaga, chiede, non si accontenta della realtà dei fatti. Il suo insistere va oltre il processo: Di Francesco agisce soprattutto perché considera la pena di morte un atto di inciviltà. Un processo difficile: pressioni sottili eppure penetranti, che lo spingono a uniformarsi alla volontà popolare, a svolgere semplicemente il suo dovere d’ufficio, arrivano a lui da ogni direzione, perfino dalla sua famiglia che, seppure per affetto, lo vuole uomo di potere e al sicuro. Ed è difficile, perché i tanti ingegnosi tentativi di trovare attenuanti per quei tre omicidi vengono vanificati e addirittura derisi dallo stesso imputato. Il giudice sta per arrendersi senonché a processo concluso, quando già tutto sembra deciso, egli scopre di non essere solo: gli si affianca uno dei componenti della giuria popolare, un agricoltore bibliofilo. Grazie al loro impegno, in primo grado l’imputato sarà condannato all’ergastolo; poi però in appello giungerà la sentenza capitale.
2. Cosa aggiunge il film di Amelio alla riflessione di Sciascia sul senso e sui limiti della legge? Non molto, in verità. Tradotta in azioni e dialoghi, fotografa la coraggiosa iniziativa intellettuale del giudice e dell’agricoltore, il loro fermo opporsi, in camera di consiglio, allo sbrigativo invito a passare ai voti, rivolto ai giurati dal presidente; l’agricoltore, infatti, è consapevole delle proprie responsabilità, vuole discutere, non gli basta la conoscenza della legge. Resta, ancora, nella sequenza finale del film, l’incontro tra il giudice e l’agricoltore, liberi dai doveri imposti loro dall’incarico di giurati: il loro ripercorrere il processo, la discorde valutazione del valore della sentenza, e, soprattutto, della sua capacità di costituire un precedente, fondato su principi più nobili di quelli che hanno ispirato la legge stessa.
Un’altra sequenza offre una riflessione più compiuta sul carattere e sui limiti della legge. Il presidente e il giudice stanno pranzando in un ristorante di Palermo con un influente procuratore. Il discorso scivola naturalmente sul caso di cui tutti parlano, e il presidente coglie l’occasione per far notare al procuratore la strategia del giudice: saldare i tre omicidi in un unico disegno delittuoso, determinato dalla passione, e dunque non punibile con la pena di morte. Sollecitato dal procuratore, il giudice non esita a denunciare il carattere strumentale del ripristino della pena capitale, che “non è materia di giurisprudenza ma di politica: serve a chi ci governa, non ai cittadini”.
Alla caustica reazione del presidente (“facciamo finta di non aver sentito…”), il procuratore fa seguire il breve racconto di un aneddoto, recuperando un passaggio di notevole rilievo del testo letterario. C’era un oggetto, nel romanzo di Sciascia, che allegoricamente rappresentava la condizione del giudice, uomo diviso tra pulsione e autocontrollo: un anello magico, da girarselo al dito: e quell’uomo [l’imputato] sarebbe svanito dalla gabbia […]. Quell’uomo gli dava terribile disagio: quasi che, sollecitandolo nell’istinto e a momenti insopportabilmente acuendoglielo, gli impedisse quel colloquio con la ragione cui era abituato. E l’istinto era quello di cancellarlo.[1]
Nella sequenza del ristorante, l’operazione compiuta dalla sceneggiatura è minima e nello stesso tempo enorme. L’anello si sposta dalle dita del giudice a quelle del procuratore, cui viene affidato il compito di esporre il punto di vista del regime sulla pena di morte, di cui l’anello diviene un’allegoria: uno strumento magico e perfetto per “cancellare dalla faccia della terra tutti i ladri, i violenti, i maniaci, gli spostati”.
3. L’indisponibilità di un simile oggetto rende indispensabile l’azione della legge, processo dopo processo, per “fare in modo che la gente perbene possa vivere tranquilla, possa andare la sera a dormire lasciando aperta la porta di casa”. Nelle intenzioni del procuratore, l’anello è solo uno strumento di forza, necessariamente sostituito dalla legge: allegoria dell’indiscutibile e aproblematico esercizio del potere, il suo miracoloso effetto sarebbe ora rivolto esclusivamente verso l’esterno, a tutela del quieto vivere dei cittadini comuni.
Scompare, nelle parole del procuratore, la dimensione della coscienza, la percezione della violenza e dell’arbitrio che l’uso dell’anello comporta, il senso di vergogna dovuto allo scoprirsi a pensarne gli effetti: il lavorio, tutto interno e intellettuale, proprio dell’uomo sensato. Nell’ottica del procuratore, invece, i dubbi non sono ammessi: l’apologia della pulizia, prodotta dalla legge, tradisce così una concezione unilaterale e autoritaria, in cui la parzialità del giudizio, su quali violenze punire e sul carattere della pena, viene spacciata per un dato universale, eticamente sostenuto, con evidente rimozione della portata storica e strumentale dell’atto legislativo in sé.
Come riconoscere allo Stato – ente artificiale creato dai singoli perché provveda alla loro difesa – il diritto di porre in essere la loro rovina? O, in un’ottica ancora più lata: a che titolo si possono arrogare i giudici un potere di vita e di morte che spetta solo a Dio? Nel ragionamento di Sciascia questo argomento si carica di altre imprevedibili valenze. Per riconoscersi – o non riconoscersi – il potere di comminare la pena capitale bisogna pur essere costituiti come giudici: ma chi può veramente riconoscersi e addossarsi questo ufficio?
4. In una delle pagine più sottili del libro, Sciascia scrive: Il giudice, l’uomo che sceglie il mestiere di giudicare i propri simili è per le popolazioni meridionali, di ogni meridione, figura comprensibile se corrotto; di inattingibili sentimenti e intendimenti, come disgiunto dall’umano e comune sentire, e insomma incomprensibile, se né dai beni né dall’amicizia né dalla compassione si lascia corrompere. Come dice don Chisciotte nel liberare i galeotti: che laggiù (o lassù) ciascuno se la veda col proprio peccato, ma non è bene che quaggiù (o quassù) degli uomini d’onore si facciano giudici di altri uomini dai quali non hanno avuto alcun danno; ma se poi ci sono uomini, possiamo aggiungere lasciando don Chisciotte, che al di là o al di sopra dell’onore, hanno scelto di giudicare altri uomini, laggiù o lassù se la vedano con questo loro peccato o merito: chi, senza aver scelto di giudicare e sprovveduto, si affida alla loro conoscenza e al loro ministero, non ha niente di cui rispondere laggiù o lassù.”[2]
Don Chisciotte è un autentico abolizionista, non solo della pena di morte, ma di ogni tipo di pena. Il meridionale, l’uomo «di ogni meridione» di cui Sciascia scetticamente ci parla, non si sottrae al giudizio, provando nei suoi confronti timore e tremore come verso una terribile attività che parifica indebitamente l’uomo a Dio. Più semplicemente se ne lascia coinvolgere, ritenendolo però incomprensibile, quando non sia per lui possibile fare altrimenti, e sempre mantenendo l’atteggiamento di chi di fatto è costretto a vivere una situazione esistenziale caratterizzata fa un non trascendibile artificio.
In questa prospettiva dire di no, così come dire di sì, alla pena capitale è questione determinata in ultima istanza dal caso; ed il caso è adeguatamente rappresentato dalle assicurazioni con cui i giudici togati confortano le giurie cercando di portarle sulle loro posizioni – a partire ovviamente dalla personale ideologia degli stessi giudici, più che dalla giustizia obiettiva della questione discussa.
Daniele Onori
[1] L. Sciascia, Porte aperte, p. 19, Adelphi, Milano 1987.
[2] L. Sciascia, Porte aperte, p. 36, Adelphi, Milano 1987.