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Perfino Esiodo ebbe a che fare con i giudici in una contesa col fratello, e non ne ebbe una buona opinione; l’episodio non è chiaro nei dettagli, ma il disappunto fu sia verso il fratello Perse, che lo aveva condotto in giudizio per l’acquisizione dei beni paterni, sia verso i giudici, che egli definiva senza giri di parole ‘mangiatori di doni’. Dall’esperienza personale Esiodo prese spunto per riflettere sulla giustizia in termini più generali, e costruisce versi in cui spiega il senso della vita, la legge di giustizia che ne sta a fondamento e perché questa legge va seguita.

1. Esiodo[1] è stato uno dei più grandi poeti dell’antichità. Vissuto in Grecia nel VII secolo a.C., autore della Teogonia e delle Opere e i Giorni, forse contemporaneo di Omero), nella produzione giunta fino a noi mostra in quel che scriveva un dente particolarmente avvelenato verso i giudici. Ce l’aveva, e non poco, con certa magistratura che, corrotta dal fratello Perse, in diversi giudizi lo aveva defraudato di molta parte dei beni dell’eredità paterna.

La parte “parenetica”, cioè “esortativa”, delle “Opere e Giorni” di Esiodo, quella che più chiaramente prospetta il messaggio etico-religioso del poeta, ha inizio con l’apologo (αἶνος) dello sparviero e dell’usignolo.

Eccone il testo: “Ora io narrerò un apologo ai giudici, sebbene essi siano saggi. Uno sparviero così parlò all’usignolo dal variopinto collo, mentre, avendolo ghermito con gli artigli, lo stava portando in alto, fra le nubi, e quello, trafitto dagli artigli ricurvi, pietosamente gemeva. A lui, dunque, lo sparviero superbamente parlò: ‘A che ti lamenti, o infelice? Ti tiene uno che è più forte; dove ti porto io, tu andrai, anche se sei canoro; ti divorerò oppure ti libererò a mio piacere. Stolto è chi vuole combattere contro i più forti: non riporterà alcuna vittoria e, oltre al danno, subirà pure la beffa’. Così parlò lo sparviero veloce, uccello dalle grandissime ali. O Perse, ascolta la giustizia e non alimentare la Prepotenza; la prepotenza è dannosa all’uomo debole; nemmeno il grande facilmente la può sopportare, anzi egli stesso rimane oppresso e va incontro a sventure. Migliore è l’altra strada, verso la giustizia: la giustizia al termine del suo corso vince la prepotenza, e solo soffrendo lo stolto impara[2].

2. Si tratta della prima favola della letteratura occidentale: in una civiltà di cultura orale, come era quella esiodea, l’apologo costituiva uno dei mezzi privilegiati per la trasmissione di un patrimonio di sapienza popolare (simile sarà la funzione delle parabole nel testo evangelico).

In questo breve testo l’usignolo, ghermito dallo sparviero, piange e invoca pietà; il rapace infatti gli evidenzia tutta l’inutilità della sua disperazione, imponendo senza mezzi termini la legge del più forte: “Stolto (φρων) è chi vuole combattere contro i più forti (πρς κρείσσονας)” (v. 210).

È facile capire che il poeta è l’usignolo e lo sparviero è il potente. Per parlare ai giudici Esiodo ha scelto una favola senza luogo e senza tempo, ma così il messaggio è più universale: così i potenti cui il poeta si rivolge possono essere tutti i potenti del mondo e gli usignoli tutti i poeti, meglio, tutti coloro che hanno voce forte e bella contro l’ingiustizia, come l’usignolo.

Esiodo riprende a esortare Perse alla giustizia e gli descrive le conseguenze del rispetto o della violazione della giustizia nella comunità, disegnando quello che è un vero affresco di buono e di cattivo governo, nel quale i giudici assumono tutto il loro peso. Il precedente letterario a noi noto sono le due città in guerra e in pace in Omero, rappresentate sullo scudo di Achille (Iliade 18.490-540), ma Esiodo ha reso centrale il tema della giustizia e ne ha fatto la ragione della felicità e dell’infelicità della polis. Chi rispetta e amministra la giustizia porta su di sé la responsabilità prima del benessere di tutti. Coloro invece che hanno a cuore prevaricazione e azioni cattive sono responsabili dell’infelicità di tutti, perché Zeus, che tutto vede, punisce gli uomini.

3. Alla fine arriva un ultimo lungo monito ai giudici mangiatori di doni, che esprime il senso della descrizione delle due città: sono loro i primi responsabili della felicità di tutti. Esiodo ricorda loro che Zeus per gli uomini ha messo sulla terra immortali invisibili guardiani che prendono nota delle azioni malvagie e che la vergine Giustizia, fanciulla figlia di Zeus, quando qualcuno la offende, va a sedersi accanto al padre e denuncia ad alta voce la mente malvagia degli uomini affinché “il popolo paghi le scelleratezze dei re, che hanno pensieri portatori di dolore e torcono i loro giudizi dal retto percorso con parole tortuose. Tenete presente questo, o re, e raddrizzate i vostri discorsi, voi mangiatori di doni! Mettete da parte una volta per tutte gli storti giudizi[3].

Destinatari del messaggio esiodeo sono, oltre al fratello Perse, i giudici corrotti, emblema di una società basata sull’ingiustizia e sulla sopraffazione; a costoro il poeta intende far capire che, mentre il mondo animale può essere soggetto alla legge della violenza, gli uomini devono conformarsi alla legge della giustizia (dìke, δίκη) e devono salvaguardare, semmai, le ragioni di chi è più debole. In altri termini, il mondo del nòmos (νόμος), cioè della legalità e della giustizia, deve contrapporsi al mondo della physis (φύσις), cioè alle leggi “naturali”. Da qui l’apostrofe rivolta a Perse (v. 213) affinché ascolti Dike (destinata prima o poi a vittoria sicura) e rifiuti la hybris.

A differenza di quanto riterranno alcuni autori del V sec. a.C., quali Antifonte o Tucidide, per Esiodo la legge del più forte, teorizzata dallo sparviero, non è legge di natura, bensì qualcosa di anomalo e ingiusto.

Nel mondo semplice di Esiodo perché la comunità sia felice bastano rette sentenze, rispetto dei genitori, onestà verso gli altri, duro lavoro nei campi e rischioso per mare.

Daniele Onori


[1] La biografia di Esiodo, conosciuta dagli antichi, era basata esclusivamente sui cenni autobiografici inseriti dal poeta nelle sue opere, cui si aggiunsero col passare del tempo altri elementi desunti da antiche tradizioni locali, come la cronologia indicata da Erodoto nelle Storie (II, 53): “Esiodo ed Omero infatti io penso che siano di quattrocento anni anteriori al mio tempo, e non di più”, la quale in sostanza concorda con gli altri elementi cronologici accennati nella Introduzione, o come la paternità del poeta “figlio di Dios”, che Ellanico ed altri trassero da una erronea lettura del verso 299 delle Opere: “Iavora, o Perse, figlio di Dios”, in cambio di “lavora, ο Perse, stirpe divina”. Il materiale leggendario si accrebbe notevolmente durante l’età classica, e fu raccolto diligentemente dal retore Alcidamante, discepolo di Gorgia, in uno dei primi capitoli della sua opera Museo; questo capitolo, intitolato Certame di Omero ed Esiodo, incontrò molta fortuna, fu spesso rimaneggiato e arricchito di nuovi particolari. A noi resta un breve frammento del Museo, contenente una piccola parte del Certame; la fine dell’opuscolo, con la sottoscrizione ᾽Αλκιδάμαντος Περὶ ‘Ὁμήρου; εἆ πα τε]αροτβΖίοηε del testo del Certame, fatta da un anonimo probabilmente all’epoca dell’imperatore Adriano, pervenutaci intera (un’edizione critica di questi testi si legge nella mia edizione delle Ofere del 1959, pp. 71- 92). Tutte le notizie, contenute nell’opera di Alcidamante e nelle altre Vite esiodee, che si leggono nelle enciclopedie tarde, come il Lessico, detto di Suida, non poggiano su alcuna base autorevole, e pertanto non recano alcuna utilità allo studio della biografia esiodea. Pure di nessun valore sono gli ampi prolegomeni al commento delle Opere, che il grammatico Giovanni Tzetzes scrisse verso la metà del XII secolo (pubblicati da me nel “Bollettino per la Edizione Naz. dei Classici greci e latini”, 1953, 34-39), nei quali si trova delineata una Vita di Esiodo — farraginosa raccolta di notizie ricavate dai grammatici antichi e dal commento di Proclo alle Opere —, che viene ancora posta in fronte a qualche edizione del poeta. I pochi dati sicuri, offerti da Esiodo, possono così collocarsi nel tempo: 750 a. C. circa. Il padre di Esiodo giunge da Cuma eolica ad Ascra, in Beozia, conducendo con sé i pochi averi e la famiglia; 720-700 a. C. circa. Il giovane Esiodo, avviato alla pastorizia, comincia a comporre la Teogonia; scrive il Catalogo delle donne; si reca a Calcide nell’Eubea, per partecipare alle gare funebri in onore di Anfidamante, e vince con un inno un tripode, che offre in voto alle Muse, dopo esser tornato ad Ascra. 710-700 a. C. circa. Alla morte del padre, Esiodo divide con il fratello suo Perse, l’esiguo patrimonio; Perse, amante dell’ozio più che delle opere agresti, cade in miseria; cerca di defraudare il fratello, che con il lavoro sapiente ed assiduo ha fatto ben fruttare il suo campo, ricorrendo ai signori della contrada, e corrompendoli con doni; Esiodo trae occasione da questa circostanza per scrivere le Opere e giorni.

[2] Opere e giorni, vv. 202-218, trad. Magugliani

[3] Esiodo, Le Opere e i Giorni 260-264

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