Per Spinoza la nozione di diritto è presentata come norma naturale originaria. Il diritto naturale esprime la condizione di vita di tutti: ogni individuo ha pieno diritto su ciò su cui si estende il suo potere, che si esplica secondo le modalità proprie della natura di ogni ente. L’omogeneità della natura annulla ogni diversità, in particolare nega qualsiasi differenza di valore (dal punto di vista della totalità) tra gli uomini e gli altri esseri. Tutti in natura partecipano dell’unico potere, in essi riflesso come diritto di esistere e operare per la propria preservazione.
1. Baruch de Spinoza nasce ad Amsterdam nel 1632 in una famiglia ebraica emigrata dal Portogallo. Baruch studia alla scuola della sua comunità religiosa nella città olandese, affiancando alla sua formazione lo studio del latino, grazie soprattutto al maestro gesuita Francisus van den Enden (1602-1674): si avvicina così ad autori quali Virgilio, Orazio, Cicerone, Seneca, Tacito, Sallustio, Petronio e Marziale. Tra i suoi interessi filosofici vi sono la filosofia scolastica e gli autori come Bacone e Cartesio, che per lui è punto di riferimento fondamentale.
Il 27 luglio del 1656 accade l’evento determinante della vita di Spinoza: la comunità ebraica di Amsterdam pronuncia solennemente contro il filosofo un atto di scomunica (in ebraico, cherem), probabilmente connesso all’eterodossia del suo pensiero spinoziano (riassunto nella sua formula Deus sive natura) e alla sua interpretazione filologica della Bibbia. Spinoza si ritira prima a Leida e poi nei dintorni de L’Aia, dove si guadagna da vivere come ottico e tornitore di lenti. Rifiutata una cattedra all’Università di Heidelberg – sia per ripudio della mondanità sia per mantenere la propria libertà intellettuale – Spinoza muore nel febbraio 1677.
La sola opera pubblicata da Spinoza in vita e a proprio nome sono i Principi della filosofia cartesiana del 1661, cui s’aggiungono i Pensieri metafisici, che approfondiscono i punti di vicinanza e di separazione col pensiero cartesiano. Opera giovanile è il Breve trattato su Dio, l’uomo e la felicità, prima perduto e poi ritrovato verso la metà del XIX secolo, in cui Spinoza anticipa alcune linee-guida dell’Ethica ordine geometrico demonstrata, nota anche come Etica. A partire dal 1660 Spinoza lavora congiuntamente all’Etica e al Trattato teologico-politico (in latino Tractatus theologico-politicus), che sarà pubblicato anonimo nel 1670 e che costituirà il suo “manifesto” sulla libertà religiosa e di pensiero. L’Etica, terminata nel 1674, ma circolata solo in forma manoscritta per evitare nuove condanne, viene pubblicata postuma nel 1677 ad opera dell’amico Jan Rieuswertsz.
2. In entrambi i suoi scritti politici, sia nel Trattato Teologico Politico, sia nel Trattato Politico, Spinoza afferma una tesi brutale: il diritto è uguale alla potenza[1]. Questa tesi racchiude in sé due tesi subordinate che si riferiscono rispettivamente all’ambito esterno e a quello interno. La prima tesi afferma: il diritto del singolo si estende sino a dove si estende la sua potenza: è il diritto su qualcosa, un diritto di disporre di ciò di cui il singolo si è appropriato grazie alla sua potenza. La seconda tesi afferma: ciò che un singolo fa ha diritto di farlo perché a legittimarlo è la potenza in base a cui lo fa: anche il diritto su qualcosa è relativo a ciò che l’uomo può effettivamente in base alla sua potenza. Questa pare essere una teoria del diritto naturalistica: connette infatti il diritto alla costituzione fattuale di un individuo che agisce in conformità alle sue capacità, e che non può agire altrimenti. Un diritto inteso in questo senso non soggiace ad alcuna norma: né si pone la questione di quale uso l’uomo debba fare della sua potenza, né il diritto legato alla potenza contiene proibizione alcuna[2].
Nel TP [2, 5] egli connette senza riserve potenza naturale e diritto: hominum naturalis potentia sive jus. In tal modo Spinoza intende fornire una spiegazione del concetto tradizionale di diritto naturale. Nel TTP aveva cominciato direttamente dal diritto naturale, connettendolo con l’ontologia (TTP 16, 2); nel TP sviluppa invece il diritto naturale a partire da questa ontologia con cui perciò incomincia la sua disamina. In TP 2, 2 troviamo una descrizione sintetica dello status di una cosa singolare in quanto modo della sostanza divina. L’esistenza di una tal cosa non deriva dalla sua essenza, bensì va intesa come una conseguenza dell’eterna potenza di Dio. In base al teorema della causalità immanente di Dio, qui presupposto anche se non ricordato da Spinoza, ciò significa che le cose naturali esistono, e di conseguenza agiscono in forza di una potenza modificata di Dio. Con ciò Spinoza vuol mostrare che le cose finite, che non esistono di per sé, non esistono mediante altre cose da cui sono causate, bensì a partire da Dio, anche se mediato da altre cose: sottolinea così che a ogni cosa spetta qualcosa che essa non ha solo da altre cose e mediante altre cose, ovvero il suo essere potenza.
3. Muovendo da tali premesse ontologiche secondo Spinoza diventa facilmente comprensibile – facile intellegimus – che cosa sia il diritto naturale. Ma a prima vista questo così agevole non è, e anzi è piuttosto sorprendente in quanto Spinoza attribuisce un diritto a Dio stesso, principio della potenza individuale[3]. Spinoza ripete ciò che ha già affermato nel cap. XVI del TTP: Deus jus ad omnia habet e tale diritto non è altro che la sua potenza (nihil aliud est quam ipsa Dei potentia). Da qui Spinoza deduce l’equiparazione di diritto e potenza, in Dio in forma assoluta (TP 2, 3), nelle cose particolari in forma limitata, fin dove si estende cioè la loro peculiare potenza (TP 2, 4).
Derivare l’equiparazione di potenza e diritto nelle cose particolari a partire dal concetto di Dio in quanto principio di tali cose a prima vista pare insostenibile. Certo si può dire: se a Dio spetta un diritto non può essere diverso dalla sua potenza, perché l’essenza di Dio è la sua potenza, e con ciò quanto può essergli attribuito è espressione di tale potenza. Ma perché a Dio dovrebbe spettare un diritto? In tutta l’Ethica non ne fa parola, in nessun passaggio afferma che Dio abbia un diritto. Dio non ha assolutamente nulla, né un intelletto, né una volontà e non ha neppure potenza, perché egli è potenza. Al contrario, attribuire a Dio un diritto è ‘antropomorfizzarlo’. (E II, 3, Sch. «Il volgo per potenza di Dio intende una volontà libera e un diritto su tutte le cose che sono, le quali sono perciò comunemente considerate contingenti. […] Inoltre molto spesso paragonano la potenza di Dio alla potenza dei re. […ma] quella potenza che il volgo ascrive a Dio non soltanto è umana (da cui si vede che Dio è concepito dal volgo come uomo o a foggia di uomo)”: ma implica pure impotenza; nessuno potrà cogliere bene ciò che voglio esprimere, se non porrà la massima cura nell’evitare di confondere la potenza di Dio con l’umana potenza o diritto dei re.
4. È il volgo ad attribuire a Dio un diritto, comparando la potenza divina con la potenza dei re, e a concepire la potentia di Dio come la potestas (il potere) di distruggere e annientare tutte le cose. Se con diritto si intende un diritto su qualcosa, un diritto a disporre di qualcosa, una simile concezione non è applicabile a Dio che non sta in un rapporto di distanza rispetto alle cose, per cui potrebbe fare con esse ciò che vorrebbe. Per questo Spinoza insiste sulla necessità di non confondere potenza divina e potenza o diritto dei re. Esistono dunque fondati motivi per il fatto che nell’Ethica il concetto di diritto non intervenga nel contesto della potenza divina.
Il fatto che Spinoza tuttavia nei suoi trattati politici connetta potenza divina e diritto si spiega per il fatto che in essi sviluppa una teoria politica che ha a che fare con il dato di fatto che gli Stati operano con un concetto di diritto che merita di essere analizzato criticamente. Gli uomini in circostanze storico-contingenti hanno dato vita a degli Stati per poter vivere pacificamente tra loro e per godere della loro vita liberi da poteri esterni. La comunità statale in cui gli uomini si trovano serve a rendere sicura la loro vita. Perché la loro unione sia efficace sono necessarie determinate regole su cui gli uomini debbono accordarsi esplicitamente. Un elemento essenziale di tali regole è il diritto, nel senso di dispositivi di legge che vengono istituiti e promulgati. Per Spinoza tali leggi costituiscono addirittura il cuore dello stato: anima imperii jura sunt (TP, 10, 9).
5. Questo diritto, che viene chiamato diritto positivo, perché istituito dagli uomini, può essere buono o cattivo. Per giudicarne la qualità occorre un criterio che non può essere dato dal diritto positivo stesso, bensì da qualcosa che ne sia distinto. La potenza che, diversamente dal diritto positivo, non viene fatta dagli uomini, ma precede ogni loro fare, Spinoza la identifica con il diritto sotto il punto di vista di un criterio che giudica il diritto positivo in funzione della legittimità delle pretese che questi avanza nei confronti di coloro che gli sono sottoposti. Presa in sé, la tesi secondo cui Dio ha un diritto su ogni cosa, dal momento che la sua potenza è illimitata, è effettivamente priva di senso. Solo in relazione a uno Stato che nelle sue leggi opera secondo diritto, la connessione di potenza e diritto acquista un suo senso, anche se non in relazione a Dio, bensì in relazione all’uomo come cittadino dello Stato. In quanto determina l’uomo a partire da Dio essenzialmente come potenza e identifica questa potenza con il diritto, Spinoza determina il diritto non solo in modo indipendente dal diritto positivo dello Stato, ma in modo tale che un tale diritto/potenza possa anche essere criticamente fatto valere nei confronti delle leggi positive.
6. Tradizionalmente un tale diritto è chiamato diritto naturale, un diritto posto nella natura dell’uomo e che non viene a nascere solo mediante istituzioni politiche. Hobbes aveva determinato come naturale l’esigenza dell’uomo all’autoconservazione, in quanto essa è dettata da una necessità di natura, che non è diversa dalla necessità con cui una pietra cade verso il basso. (De cive, 1, 7: «Ciascuno, infatti, è portato alla ricerca di quel che, per lui, è bene, e a fuggire quel che, per lui, è male, specialmente poi il massimo dei mali naturali, cioè la morte; il che accade secondo una ferrea legge di natura, non meno rigida di quella per cui una pietra cade verso il basso».)
Ma sarebbe fuorviante utilizzare questa analogia per il diritto. La pietra infatti non ha un diritto di cadere verso il basso, bensì cade verso il basso per una legge fisica che è assurdo designare come un diritto, a meno che qualcuno glielo vietasse, ma chi lo facesse rivelerebbe stupidità. Le cose stanno diversamente per l’autoconservazione umana. Anche l’uomo non ha un diritto a intraprendere qualcosa al fine di autoconservarsi, bensì lo fa perché questa è una legge di natura, e sarebbe egualmente assurdo designare ciò come un diritto, tranne che qualcuno glielo impedisca. Ora, diversamente che nel caso della pietra, nel caso degli uomini questa tesi è assai plausibile. Perciò la tesi che difende specificamente la potenza che determina necessariamente l’agire umano va avanzata contro i teorici che la rigettano. Dove non c’è attacco non c’è bisogno di difendersi. La potenza viene perciò determinata come diritto da Spinoza in rapporto a false concezioni dello Stato in cui interviene una errata comprensione del diritto in quanto i sostenitori di tali concezioni dello stato non considerano nel modo adeguato la potenza che contrassegna ogni individuo.
7. Poiché Spinoza determina la natura dell’uomo come potenza, e a questa connette il diritto naturale, intende il diritto naturale come qualcosa di cui gli uomini non possono spogliarsi e contro cui lo Stato con le sue leggi positive non può avere presa. Contro Hobbes, Spinoza formula questa tesi nel passo spesso citato della lettera 50: a differenza di Hobbes «io continuo a mantenere integro – scrive Spinoza – il diritto naturale e affermo che al sommo potere in qualunque città non compete sopra i sudditi un diritto maggiore dell’autorità che esso ha sui sudditi stessi, come sempre avviene nello stato naturale». Per Hobbes lo stato civile è separato dallo stato di natura. Lo Stato hobbesiano non nasce dagli impulsi naturali degli uomini nello stato di natura, bensì dalla rinuncia a tali impulsi che impone loro il calcolo della ragione, rinuncia che gli uomini confermano con un contratto.
Per Spinoza un simile Stato è un’astrazione: non esiste, né può esistere da nessuna parte. È la costruzione di uno Stato che domina sugli uomini e che presuppone qualcosa di impossibile, ossia che gli uomini rinuncino al loro diritto naturale, attribuendolo con un atto esplicito a un terzo che essi eleggono. Contro questa costruzione hobbesiana, Spinoza sostiene che l’istituzione dello Stato non può avvenire contro ciò che agli uomini spetta per natura. Contro un’astratta teoria della genesi dello Stato va ricordato inoltre che la natura dell’uomo si articola in uno sforzo d’autoconservazione che è fattualmente connesso a condizioni contingenti di natura storica e culturale, ma è connesso anche a specifiche attese di ciò che gli individui si ripromettono dallo stato, a seconda dei loro timori e delle loro speranze.
Vale a dire: dagli sforzi umani nasce solo un qualche Stato, non quello che Hobbes vorrebbe, ma neppure quello che ha in vista Spinoza, perché sotto queste condizioni non nasce uno stato che lasci effettivamente intatto il diritto naturale degli individui.
Daniele Onori
[1] TTP, XVI, § 2: «il diritto di ciascuno si estende fin dove si estende la sua determinata potenza»;TP 2, 3: «qualsiasi cosa naturale ha dalla natura tanto diritto quanta è la sua potenza di esistere e di operare»].
[2] TTP XVI § 4 «il diritto e istituto di natura, sotto il quale tutti nascono, e per la maggior parte vivono, non proibisce se non ciò che nessuno desidera e nessuno può; non avversa né le contese, né gli odi, né l’ira, né gli inganni, né in assoluto alcunché a cui induce l’appetito»; TP 2, 18 «…nello stato di natura non si dà trasgressione… nessuno è tenuto per diritto di natura, se non vuole, a conformarsi al modo di vivere altrui, né a considerare bene o male nulla se non quanto lui stesso abbia giudicato a modo suo essere bene o male; e in senso assoluto niente è vietato per diritto di natura se non ciò che a nessuno è possibile»
[3] In merito, da un altro punto di vista, cfr. R. Schnepf, «Hinc facile intellegimus, quid jus naturae sit. Zur Argumentationsweise Spinozas in TP 2/3», in: Studia Spinoziana, IX (1993), pp. 107-130.