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All’interno della tradizione liberale italiana la questione del diritto naturale occupa una posizione significativa, sebbene non abbia la centralità che ha conosciuto nel liberalismo anglosassone. A tale riguardo, va riconosciuta come rappresentativa la posizione di Alessandro Passerin. Per il filosofo del diritto, il liberalismo, nel suo definirsi quale teoria che si pone a difesa della società, dei singoli e delle loro articolazioni interpersonali, è stato spesso spinto a riconoscere l’esistenza di diritti prepolitici: antecedenti ad ogni istituzionalizzazione formale (ad ogni validità) e anche ad ogni pratica sociale (ad ogni effettività). La lotta del liberalismo classico per l’autonomia dal potere si è quindi tradotta a più riprese nella rivendicazione di prerogative autoevidenti, attribuite agli uomini da Dio o dalla natura. In questa prospettiva, il diritto naturale è essenzialmente il quadro entro cui si collocano i diritti naturali dei singoli.

Alessandro Passerin D’ Entrèves nacque a Torino il 26 aprile 1902 da Ettore Passerin d’Entrèves et Courmayeur, di antica e nobile famiglia valdostana, e da Maria Gamba.

Ottenuta la maturità classica al liceo Massimo d’Azeglio di Torino, si iscrisse nell’a.a. 1918-19 alla facoltà di giurisprudenza dell’Ateneo torinese. Fra i suoi maestri ebbe Francesco Ruffini, Gaetano Mosca, Gioele Solari e Luigi Einaudi. Nel 1922 si laureò con Solari discutendo una tesi in filosofia del diritto su «La filosofia giuridica di Hegel», poi pubblicata con il titolo Il fondamento della filosofia giuridica di G.G.F. Hegel (Torino 1924; nuova ed., con postfaz. di G.M. Bravo, Roma 2012). Strinse una forte amicizia con Piero Gobetti, e, fra il 1922 e il 1925, collaborò alle riviste da lui dirette – La Rivoluzione liberale e Il Baretti – scrivendo articoli sul marxismo e il materialismo storico. L’amico di un tempo fu sempre ricordato da Passerin d’Entrèves come una persona chiave per la sua formazione morale e spirituale.

Nel 1925 si recò in Germania per un breve periodo di studio, a seguito del quale pubblicò Il concetto di diritto naturale cristiano e la sua storia secondo E. Troeltsch (in Atti della R. Acc. delle scienze di Torino, LXI [1925-26], pp. 664-704), che inaugurò il filone di studi sul diritto naturale.

Grazie a Luigi Einaudi vinse una “borsa Rockefeller” che gli permise un lungo soggiorno a Oxford, presso il Balliol College, dal 1926 al ’28. Qui conobbe i celebri fratelli Carlyle, grazie ai quali approfondì gli studi sul pensiero politico medievale, con particolare riferimento a San Tommaso e al pensiero politico inglese. Nel 1928 si recò a Berlino dove ebbe modo di frequentare studiosi come Friedrich Meinecke e Carl Schmitt. In quello stesso anno trascorse alcuni mesi a Vienna dove frequentò le lezioni di Hans Kelsen.

L’8 aprile 1931 si unì in matrimonio con Giuseppina d’Orsara, dalla cui unione nacquero Maria Rosa e Teodoro.

Nel 1932 conseguì il dottorato in filosofia presso l’Università di Oxford con una monografia sul pensiero filosofico giuridico e politico di Richard Hooker, considerato da Passerin d’Entrèves un pensatore il cui sistema di filosofia del diritto è uno snodo fondamentale per intendere il preilluminismo in Inghilterra, con particolare riferimento al pensiero di John Locke, e ai problemi della giustizia e dello Stato. Sulla scorta di questi studi d’Entrèves sviluppò ulteriormente le ricerche sul diritto naturale, e mise a fuoco i temi cui dedicò gran parte delle sue ricerche: il problema dell’obbligo politico, della legittimità dello Stato e del governo, poi sistematizzate in The medieval contribution to political thought. Thomas Aquinas, Marsilius of Padua, Richard Hooker (Oxford 1940).

Nel 1928 ottenne la libera docenza in storia delle dottrine politiche, e l’anno successivo l’incarico per il corso di filosofia del diritto. Nel 1935 vinse il concorso di storia delle dottrine politiche a Messina e risultò terzo classificato nel concorso di filosofia del diritto a Ferrara. Nominato professore straordinario a Messina, l’anno seguente fu chiamato a Pavia. Nel 1938 fece ritorno all’Università di Torino come docente di diritto internazionale. I suoi corsi vertevano principalmente sulla storia della filosofia politica medievale, con particolare riferimento al problema dell’obbligazione politica, che rimase sempre uno fra i suoi temi prediletti di studio.

Richiamato alle armi, ufficiale con il grado di capitano, nel1942 fece parte della commissione d’armistizio italo-francese. Partecipò alla lotta antifascista in Valle d’Aosta: dopo la Liberazione fu nominato dal Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI) prefetto di Aosta e, insieme con Federico Chabod, si batté per l’autonomia della Valle d’Aosta contro l’annessione alla Francia.

Dal 1945 al 1956 tenne a Oxford la cattedra di studi italiani (Serena Professor of Italian).

Risalgono a questi anni gli studi su Dante, Machiavelli, Guicciardini, Alfieri e Manzoni. Sviluppò altresì una serie di ricerche di carattere più politologico sui temi del liberalismo, del conservatorismo e sul valore delle autonomie locali in contrapposizione al centralismo statualista. E continuò a coltivare gli studi sul diritto naturale, concepito all’intersezione tra diritto e morale, e contro il positivismo giuridico, che vennero poi sistematizzati in uno dei suoi libri più famosi: Natural Law. An introduction to legal philosophy (London-New York-Melbourne 1951; trad. it., La dottrina del diritto naturale, Milano 1954; 2ª ed. ampl., ibid. 1962; 3ª ed. ampl., ibid. 1980).

Nell’autunno del ’57, dopo aver tenuto un corso di storia delle dottrine politiche alla Harvard University, rientrò in Italia, chiamato dalla facoltà di giurisprudenza di Torino per insegnare dottrina dello Stato.

In questo periodo sviluppò una riflessione organica sul potere, la forza e l’autorità, compendiata in La dottrina dello Stato: elementi di analisi e di interpretazione (Torino 1962), considerata da molti la sintesi del suo pensiero storico filosofico e politico. Gli studi sull’obbligo politico vennero ulteriormente sviluppati in una serie di scritti con particolare riferimento alla società contemporanea, alla libertà politica, al rapporto tra legalità e legittimità, e al tema della disobbedienza civile, poi raccolti in Obbedienza e resistenza in una società democratica e altri saggi (Milano 1970).

Dal 1960 al ’64, fu chiamato dalla Yale University a tenere corsi semestrali di storia delle dottrine politiche e di filosofia del diritto. Negli anni Sessanta fu tra i protagonisti, insieme con Luigi Firpo e Norberto Bobbio, del dibattito per il riconoscimento di uno statuto autonomo alle facoltà di scienze politiche e, nello stesso tempo, si batté per l’inserimento nei piani di studi dell’Università italiana del corso di filosofia politica. Nel 1969 venne eletto preside della neo costituita facoltà di scienze politiche dell’Università di Torino, rimanendo in carica per un triennio, e ricoprendo la prima cattedra italiana di filosofia politica.

Abbandonato l’insegnamento accademico nel dicembre del 1972, iniziò una collaborazione con il quotidiano La Stampa. Gli articoli, variamente improntati su temi politici, morali e religiosi dell’Italia del tempo, vennero raccolti poi  nel volume Il palchetto assegnato agli statisti e altri scritti di varia politica (Milano 1979). Negli ultimi anni tornò a riflettere sulla sua “piccola patria”, la Valle d’Aosta, e sul valore dell’autonomismo, delle tradizioni e delle identità locali.

Fu socio di prestigiose istituzioni culturali nazionali e internazionali, fra cui: l’Accademia nazionale dei lincei, L’Accademia delle scienze di Torino (di cui fu anche presidente nel 1982), la Deputazione subalpina di storia patria, l’International law association, la Royal historical society, L’American Academy of art and sciences, l’Institut international de philosophie politique. Fu inoltre membro del comitato scientifico della Fondazione Luigi Einaudi di Torino. Venne insignito della medaglia d’oro dei benemeriti della Scuola, della cultura e dell’arte, e ricevette nel 1978 la laurea ad honorem dall’Università di Parigi «La Sorbona».

Passerin d’Entrèves trascorse gli ultimi anni della sua vita nella sua casa di Cavoretto, a Torino, dove morì il 15 dicembre 1985.[1]

Il pensiero di Alessandro Passerin d’Entrèves si presenta, omogeneo e coerente, tanto nell’impianto metodologico, quanto nei contenuti proposti e negli ideali che li orientano. Si sviluppa attraverso una profonda indagine che spazia tra la teoria e la storia del pensiero politico e giuridico. Prendendo le mosse dai temi classici della libertà e del vivere politico, la sua attenzione si articolerà in una teoria – o come meglio preferiva definirla, una dottrina – dello Stato liberal-democratico, attenta alle sfide del proprio tempo e sensibile alle speranze e aspirazioni delle generazioni a venire.

All’interno della tradizione liberale italiana la questione del diritto naturale occupa una posizione significativa, sebbene non abbia la centralità che ha conosciuto nel liberalismo anglosassone. Nel momento in cui si schiera a difesa della società e contro ogni pretesa egemonica del potere sovrano, il liberalismo si predispone naturalmente a sintonizzarsi con una concezione del diritto che sottrae quest’ultimo al controllo del ceto politico e che introduce una costante tensione tra legalità e legittimità: tra le norme vigenti e le esigenze della giustizia.

A dispetto del fatto che in talune occasioni il giusnaturalismo sia stato anche utilizzato per naturalizzare e proteggere il potere, al fondo di tale prospettiva teorica c’è l’idea di un’irriducibilità del diritto alla sua semplice dimensione positiva ed è questo che lo rende sempre scomodo agli occhi di quanti controllano le istituzioni pubbliche. La diffusa vocazione giusnaturalista degli orientamenti liberali proviene da qui

Un’attenta riflessione sul rapporto tra tradizione scolastica e liberalismo classico era anche all’origine degli studi giovanili condotti in Inghilterra da Alessandro Passerin d’Entrèves, per il quale esiste un’evidente continuità tra la teorizzazione del diritto di resistenza di fronte al potere e la filosofia politica della libertà. In uno scritto su Richard Hooker, teologo anglicano di formazione tomista e molto apprezzato da Locke, Passerin d’Entrèves rileva come «l’interesse della posizione dell’Hooker sta […] in questa difesa della ragione e della libertà umana […], e nel suo riallacciarsi da un lato alla speculazione medievale, dall’altro al razionalismo dell’età moderna» .[2]

A giudizio di Passerin d’Entrèves, l’idea di una potestas legibus soluta è allora inconciliabile con la «nozione del diritto come norma consuetudinaria che Graziano esprime in forma lapidaria: humanae leges moribus constant» e anche con quella «nozione “materiale” della giustizia che S. Tommaso esprimeva colle parole stesse di S. Agostino: non videtur esse lex quae justa non fuerit . Ma da tutto questo deriva che la netta «affermazione di Jefferson, che qualsiasi forma di governo che attenti all’esistenza degli “inalienabili diritti” dell’uomo dovrebbe essere modificata o abolita, si avvicina di più alle intransigenti dichiarazioni dei giureconsulti e dei filosofi medievali, che non all’astratta speculazione dei primi teorici del moderno diritto naturale»[3].

Il rapporto tra diritto naturale e modernità giuridica, tra diritti individuali e liberalismo classico, è allora questione assai articolata e controversa. Da un lato, infatti, è in parte più che legittimo rilevare che la teoria liberale è un frutto dell’età moderna e che solo in modo assai anacronistico sarebbe possibile ricercare tracce di una teoria politica della libertà individuale nel mondo greco, in quello romano o in quello medievale. Al tempo stesso, però, il liberalismo classico si definisce nel momento in cui lo Stato moderno avanza una pretesa inedita sulla società, esprimendo la volontà di esercitare un dominio tendenzialmente illimitato.

I protagonisti della cultura e della pratica liberali si oppongono a tutto questo (si pensi alla lotta all’assolutismo), ma in più occasioni non riescono egualmente a sfuggire alle nuove logiche e categorie che la modernità ha veicolato. Da qui tutta una serie di incoerenze e ambiguità. Nel corso degli ultimi decenni, l’attenzione della storiografia per i lavori della Seconda scolastica e dei monarcomachi (cattolici e protestanti) sta progressivamente aiutando a comprendere come non vi sia un abisso incolmabile tra il diritto naturale di tradizione tomista e le grandi figure del liberalismo classico, e come sia necessario riconoscere una netta tensione tra due differenti orientamenti moderni: uno, essenzialmente giuspositivista, volto a rafforzare il potere pubblico e a legittimare le pretese assolutiste degli Stati; e un altro, essenzialmente giusnaturalista, orientato a limitare l’ambizione dei sovrani e ad opporre resistenza dinanzi alle loro richieste. L’idea dei diritti naturali individuali non si svilupperebbe quindi in opposizione alla tradizione del diritto naturale classico, ma ne rappresenterebbe in larga misura uno sviluppo. Nel suo definirsi quale teoria che si pone a difesa della società, dei singoli e delle loro articolazioni interpersonali, il liberalismo è stato spesso spinto a riconoscere l’esistenza di diritti prepolitici: antecedenti ad ogni istituzionalizzazione formale (ad ogni validità) e anche ad ogni pratica sociale (ad ogni effettività).

La lotta del liberalismo classico per l’autonomia dal potere si è quindi tradotta a più riprese nella rivendicazione di prerogative autoevidenti, attribuite agli uomini da Dio o dalla natura. In questa prospettiva, il diritto naturale è essenzialmente il quadro entro cui si collocano i diritti naturali dei singoli. Appare allora urgente distinguere le differenti anime della modernità politica, poiché è evidente che se essa ha conosciuto una linea di autori orientati a edificare una sovranità statuale sempre più dispotica (ed è stata questa la tradizione vincente: da Machiavelli a Bodin, da Hobbes a Rousseau, da Hegel a Marx), pure vi sono altri studiosi che si sono mossi in direzione opposta e hanno cercato, tra difficoltà e contraddizioni, di impedire e limitare l’egemonia del potere sulla società. Vi è quindi una soggettività che è interamente funzionale al «progetto moderno» vincente e un’altra, invece, che ha fatto tutto il possibile per delineare una società diversa e un ordine giuridico alternativo, meno lontano dalla tradizione giusnaturalista classica e medievale.

Leggendo le sue pagine non è possibile non interrogarsi sull’attualità e le sfide a cui rispondano. Certamente tanto la sua riflessione quanto lo stile dei suoi testi sono legati a dibattiti in gran parte ormai lontani da quelli odierni – dalla querelle sulla natura del negozio giuridico alla storiografia politica sulla genesi e la giustificazione sacra dell’autorità politica, dal lungo e tormentato dibattito sul positivismo giuridico alla rivendicazione di attualità della funzione delle teorie giusnaturaliste.

Questi temi mantengono vitalità e continuano a fornire metodo e stimoli per le questioni del domani. La sua lezione di filosofo e di storico tiene una sobria distanza dalle mode culturali che si alternarono nel corso della sua vita. Già negli anni Venti, egli metteva in guardia dal bisogno di sentire attuale un autore per poterne affrontare il pensiero e apprezzare il lascito. D’altro canto, tra i fermenti, le turbolenze e i momenti bui degli anni Sessanta e Settanta, i nodi teorici su cui si era soffermato nel corso di tanti anni di studio e di insegnamento accettano la sfida del confronto con la vita reale e i problemi sociali del suo tempo.

Si pensi alla criticità di temi quali l’obbligazione politica, la libertà di coscienza e la disobbedienza civile. Ne discuteva senza esitazione nelle aule universitarie e nelle pagine dei giornali, senza cedere, tuttavia, alla frammentazione ideale e alla particolarizzazione del dibattito che gli accadimenti storici portano spesso con sé, e sempre tenendo a mente l’ambizione delle teorie a porsi quali chiavi di lettura, se non come soluzioni, di problemi e tensioni di lungo periodo.

Daniele Onori


[1] P. Silvestri – Dizionario Biografico degli Italiani ,Volume 81 (2015)

[2] Passerin d’Entrèves A., La dottrina del diritto naturale, Edizioni di comunità, p.270  Milano 1954

[3] Passerin d’Entrèves A., La dottrina del diritto naturale, cit. p. 75

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