La sentenza della Corte Suprema del Regno Unito del 20 aprile 2018 che ha respinto il ricorso presentato avverso la decisione della Corte d’Appello inglese in ordine al caso di Alfie Evans, merita di essere richiamata nei suoi passaggi fondamentali, non tanto o non solo per i (presunti) principi di diritto affermati, quanto per le modalità espressive utilizzate, le argomentazioni scarne e assertive, il “tono” rivelatore di un nemmeno malcelato fastidio per l’intralcio al percorso eutanasico avviato sotto copertura legale.
Non vuol essere questa un’analisi scientifica delle pronunce sulla vicenda e delle questioni di diritto sottese, né la sede per approfondimenti tecnici sulle condizioni mediche del piccolo: ciò che si vuol mettere in evidenza è il “rovescio del diritto” che avviene attraverso l’utilizzo della giurisdizione, in funzione non più servente al “diritto perenne” – secondo il celebre motto di Ermogeniano, «hominum causa omne ius constitutum est» – bensì al perseguimento e all’affermazione di postulati meramente ideologici.
Alfie ha quasi due anni ed è affetto da una grave patologia neurologica, priva di diagnosi, probabilmente ingravescente; per questo è aiutato a respirare, a bere, a mangiare. E dovrebbe esserlo sino al termine di questa vita, in quanto persona, con la sua dignità umana fondamentale, alla quale sono dovute non terapie futili e sproporzionate, ma cure proporzionate per la conservazione della vita. La somministrazione di cibo e acqua, anche per vie artificiali, è in linea di principio un mezzo ordinario e proporzionato di conservazione della vita. Essa è, quindi, non solo consentita ma obbligatoria nella misura in cui e fino a quando dimostra di raggiungere la sua finalità propria, che consiste nel procurare l’idratazione e il nutrimento al paziente (ed evitare le sofferenze e la morte per inanizione e disidratazione). Anche la ventilazione assistita è, in linea di principio, proporzionata al fine, giacché garantendo l’ossigenazione persegue il fine di mantenere in vita il piccolo paziente fino a quando esso non si spegnerà. Il primo, grande, fondamentale errore dell’Arder Hay Hospital e delle Corti inglesi che battezzano legittima la decisione di sospendere ogni cura, nonostante il volere contrario dei genitori e financo impedendo il trasferimento del piccolo in altre strutture, è di non considerare che quelle cure non servono a far guarire Alfie dalla condizione di grave disabilità e sofferenza in cui versa, dunque non possono essere valutate – come invece si fa – in base ai risultati in termini di autonomizzazione, presente o futura, del paziente, bensì in base al loro fine intrinseco, che è quello di proteggere il bene giuridico supremo, la vita, fino al suo spegnimento. Alla ventilazione assistita, alla idratazione e alimentazione artificiali non è chiesto di guarire o migliorare la condizione di Alfie. La circostanza che le sofferenze e il decesso di una persona siano inevitabili (ma non è questo il destino ultimo di ciascuno di noi?) non fa venir meno i doveri inderogabili di solidarietà, l’obbligo di “prendersi cura”, di accompagnare il consociato non-guaribile al suo momento ultimo; soprattutto non può condurre a decretare, imporre, l’anticipazione di quell’evento morte.
Con la pronuncia della Corte Suprema del 20 aprile, invece, l’ordinamento inglese dà copertura legale all’eutanasia attiva di un minore. Secondo la Corte, cui non è devoluto un riesame sul fatto bensì solo sui principi di diritto invocati nel caso di specie, l’attività istruttoria svolta nei precedenti gradi di giudizio avrebbe provato, con ragionevole certezza, che «il cervello di Alfie è in buona parte distrutto e in corso di ulteriore distruzione senza possibilità di inversione, con la conseguenza che non può respirare, mangiare o bere senza sofisticati trattamenti medici». Le pronunce rese nei precedenti gradi avevano affermato che non è nel «miglior interesse del minore» proseguire detti trattamenti né essere trasferito in altre strutture a tale scopo. Rispetto a queste pronunce, sia il ricorso alla Corte Suprema sia quello alla CEDU (per asserita violazione del paragrafo 8 della Convenzione ovvero al diritto al rispetto della vita privata e familiare) erano stati rigettati. In questo caso, però, i genitori di Alfie hanno invocato innanzi alla Corte Suprema il noto rescritto (writ) del diritto anglosassone in ordine al principio dell’inviolabilità personale ed alle sue guarentigie, l’habeas corpus, circostanze che ha permesso il riesame in diritto (se si può chiamare tale) della pronuncia d’appello.
Secondo la Corte Suprema, però, solo «un tempo» l’habeas corpus poteva essere invocato dai genitori per rivendicare “la custodia” del proprio figlio, non oggi, «nei tempi moderni», allorquando la posizione dei genitori «è circoscritta al solo perseguimento del benessere del figlio». Del resto, sostiene la Corte con argomento inconferente, ben oltre il paradosso, l’ordinamento prevede che quando i genitori abbiano abbandonato un figlio non possano più dire la loro sulla libertà personale dello stesso, il che significa che la situazione giuridica dei genitori non è assoluta. «Oggi» – impossibile non evidenziare nelle espressioni del collegio l’insistente e continuo richiamo diacronico, a significazione di una rottura tra “il diritto di ieri” e “il diritto di oggi” – «l’unico principio assoluto è il miglior interesse del minore secondo standard internazionali». Sul punto è interessante notare come l’espressione “secondo standard internazionali” resti assolutamente fumosa e apodittica, capace di ricomprendere qualunque cosa: gli standard internazionali, poi, sono quelli di Olanda e Bassi Passi o – a esempio – quelli, ben diversi, di Polonia, Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca?
Per queste ragioni, secondo la Corte, il richiamo all’habeas corpus non vale a fondare una scelta su un minore se questa non è «nel suo miglior interesse»; di conseguenza, sono legittime le decisioni di merito che hanno stabilito che i genitori di Alfie sono privi di qualunque legittimazione a incidere sui trattamenti da sottoporre al figlio, e perfino a trasportarlo in un’altra struttura «che comunque non farebbe il suo bene». Nel ricorso dei genitori alla Corte Suprema, la violazione del principio dell’habeas corpus era simmetricamente posta accanto a quella dell’art. 5 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, in modo da lasciar intravvedere anche i profili di un eventuale successivo ricorso alla CEDU nel caso di reiezione della domanda. L’art. 5 della Convenzione stabilisce che nessuno può essere privato della libertà, se non nei casi espressamente tipizzati e nei modi previsti dalla legge. Ebbene, anche questo motivo è stato respinto dalla Corte Suprema, se possibile con passaggi ancor più duri che, nella loro assertiva stringatezza, confermano, oltre alla mens eutanasica degli organi giurisdizionali inglesi, il disprezzo del diritto internazionale.
Secondo la Corte, una persona che non si può muovere a causa delle terapie di sostegno vitale cui è sottoposta non può essere privata della libertà, anzi, al contrario – scrivono i giudici – «bisognerebbe valutare se non si stia privando della libertà un bambino incapace di sopravvivere senza quelle terapie di supporto» (sic…). E, dunque, il lapidario “rovescio del diritto”: «non può dubitarsi della legittimità di disposizioni che possono solo essere imposte (su un bambino o un adulto incapace) quando sono nel miglior interesse: se anche quelle prese dalle Corti di merito fossero disposizioni “privative della libertà” ebbene esse non sono illegittime fino a quando sono nell’interesse di Alfie». Il “miglior interesse” di Alfie sarebbe, allora, secondo l’ordinamento inglese, non quello di essere aiutato ad alimentarsi, bere, respirare finché in vita, ma quello di morire (soffocato ancor prima che di sete e/o di fame). Sarebbe un interesse, quello a morire, così prevalente da non poter consentire neanche un volo per un altro ospedale, giacché – come ha scritto nel caso di specie una Corte d’Appello evidentemente priva di senso del ridicolo ancorché di logica – un volo è «troppo rischioso per il paziente»: meglio morire subito.
E chiude così la porta la Corte Suprema inglese: «Le corti di merito hanno stabilito che non è nel miglior interesse di Alfie continuare a essere sottoposto presso l’Arder Hay Hospital a quei trattamenti (di mero supporto vitale) né essere trasferito altrove a tal fine: è illegittimo continuare a mantenerlo in quello stato ed è, invece, legittimo impedire trattamenti che non sono nel suo migliore interesse». Il miglior interesse del minore – che non stabilisce degli per sé e nemmeno i suoi genitori, ma lo Stato – è che un essere umano (in questo caso un bambino) muoia. Rovescio del diritto. La Sentenza si chiude con un avvertimento: «Non c’è ragione di ulteriori rinvii o azioni giudiziarie: l’ospedale è libero di fare ciò che si è stabilito essere il miglior interesse di Alfie. Questo è il diritto di questo Paese. E nessun ricorso alla Corte Europa dei Diritti dell’Uomo potrà mai modificarlo».
Ora, se i precedenti non lo fossero, sarebbe questo il passaggio più grave di questa pronuncia. Il massimo organo giurisdizionale del Regno Unito, ovvero del Paese che ha contribuito alla stesura del testo della Convenzione EDU ed è stato il primo a ratificarla, incorporando nell’ordinamento interno diversi articoli della stessa nel 1998 con il c.d. Human Rights Act, mostra disprezzo per quella stessa Convenzione e per i suoi organi. Un avvertimento, questo, che vuole fungere da intimazione non solo ai genitori di Alfie, evidentemente rei di intralciare l’ordine di esecuzione finale con il loro quaerere iustitiam alle Corti competenti, ma anche alla stessa Corte Europea: il diritto (e le istituzioni) internazionali per il Regno Unito valgono a discrezione.
Semmai si faticasse ancora ad acquisire consapevolezza della inversione antiumana del diritto, e del suo privilegiato incedere attraverso la giurisdizione ancor prima che la legislazione, talvolta flebile epifania del senso comune che si manifesta nella volontà popolare, si prenda solo nota del fatto che, mentre in Inghilterra, si decretava il miglior interesse di Alfie a morire, oltre oceano, e segnatamente in Colombia, la Corte Suprema di Giustizia (Sent. 4360/2018) affermava il “diritto alla vita” degli alberi della foresta amazzonica… Rovescio del diritto.
Francesco Cavallo
Dottore di Ricerca, Avvocato in Lecce