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Il film tratto dall’omonimo romanzo A Clockwork Orange dello scrittore Anthony Burgess, prefigura una società votata ad un’esasperata violenza, giovanile, ma non solo, e ad un condizionamento del pensiero. La pellicola è prima di ogni altra cosa una spietata parabola sul libero arbitrio che vediamo qui manifestarsi in tutta la sua bruciante dicotomia: cattivi per libera scelta o buoni per imposizione? La posizione di Kubrik è sempre stata molto chiara: lo stato di natura è sacro! Un uomo deve poter scegliere anche di essere malvagio. 

Siamo in un futuro imprecisato Alex è il capo di un quartetto di giovani teppisti che trascorrono le loro giornate nell’esercizio di efferate violenze e stupri, dopo essersi drogati. A farne le spese sono un mendicante selvaggiamente picchiato, una banda rivale fatta a pezzi, una ragazza di strada violentata e infine uno scrittore, massacrato di botte fino a procurargli una paralisi agli arti, mentre sua moglie, di cui abusano, morirà qualche tempo dopo. Alex, inoltre, è appassionato per la musica di Beethoven, di cui si serve per immergersi in sogni innaturali. Scontenti per il suo dispotismo, i compagni, allorché uccide una ninfomane, lo colpiscono e lo lasciano nelle mani della polizia.

Eppure nemmeno la condanna e il carcere riescono a scalfire la sua indole così intimamente corrotta, ma al contrario ne accentuano la falsità e l’ipocrisia. Anche da dietro le sbarre Alex non cessa di farsi beffe della società che lo ha rinchiuso, simulando un pentimento ed un’umiltà con cui trae in inganno il cappellano della prigione. La sfrontatezza di Alex è pari al suo godimento nel constatare la plausibilità della sua nuova immagine di sé, e di tale immagine decide di servirsi come espediente più efficace per uscire di prigione.

Alex acconsente a fare da cavia umana per la cura Ludovico, trattamento con cui si induce il paziente – attraverso la visione di immagini e scene violente – a non ripetere più le azioni delittuose di cui si era già macchiato.

Rimesso in libertà, dopo essere diventato remissivo e pacifico, sono gli altri ora ad essere violenti con lui: la famiglia lo respinge, due suoi amici – divenuti poliziotti – lo seviziano, lo scrittore sua vittima cerca di farlo impazzire. Dopo un tentativo di suicidio, viene ricoverato a spese dello Stato in una clinica, dove gli verrà restituita la sua primitiva fisionomia.

Un giorno Alex riceve una visita del Segretario per gli affari interni. Il Segretario, con atteggiamento remissivo e conciliante, gli promette un lavoro e l’aiuto del governo in cambio della sua collaborazione, per mettere fine allo scandalo causato dalla vicenda e assicurare la vittoria del governo alle successive elezioni. Lo informa anche che lo scrittore Alexander è stato messo, insieme con i suoi colleghi cospiratori, in condizione di non nuocergli più. Alex accetta subito l’accordo.

La macchina della propaganda si mette immediatamente in moto e un grande numero di giornalisti e di fotografi entra nella stanza dove Alex e il Segretario, stringendosi con grande cordialità la mano, rassicurano l’opinione pubblica in merito alla loro nuova amicizia. Alex immagina la sua nuova vita, da trascorrere come prima tra sesso, musica e violenza, ma libera dalle angosce dovute alla legge, poiché ora è protetto da essa.

Sono passati più di 40 anni dalla proiezione di Arancia Meccanica, la pellicola con cui Kubrick ha dato corpo e voce all’Alex cartaceo di Anthony Burgess, così come agli altri tre drughi, obbedienti compari di distruzione sotto l’egida sfrenata di Alex, un personaggio estremo, che si muove con agghiacciante disinvoltura tra risse, furti e stupri, fino all’atto che rende Alex un omicida.

La sfrontatezza di Alex è pari al suo godimento nel constatare la plausibilità della sua nuova immagine di sé, e di tale immagine decide di servirsi come espediente più efficace per uscire di prigione. L’anticamera della libertà è rappresentata solo da un processo rieducativo allo stadio sperimentale, che promette l’assoluta riabilitazione del detenuto dopo poche settimane. E così, tra le perplessità generali.

Per quanto questa idea di “cura” sia in parte una polemica ad un sistema carcerario, essa affonda la sua intima e corrotta essenza in una delle più antiche e gloriose espressioni del pensiero occidentale, il teatro greco, e in particolare la tragedia.

La concezione del teatro dei greci era diversa da quella odierna. Il teatro greco era mimesi di una realtà che veniva imitata e problematizzata per catturare e ingannare lo spettatore con l’illusione scenica. Chi assisteva ad una tragedia a teatro era tutt’altro che un freddo contemplatore, anzi era pronto a ricevere un forte impatto emotivo, il pathos, che la tragedia produceva attraverso le vicende dei grandi eroi del mito, resi universali paradigmi della miseria umana.

A questo punto è forse più chiara la matrice della cura Ludovico. Come nella tragedia, il paziente che si sottopone a questa terapia all’avanguardia dovrebbe uscirne come un cittadino modello, pronto a vivere in pace nella società dopo aver abbandonato il suo passato criminale. Si tratta di un ideale potenzialmente buono, ma profondamente distorto da un terribile strumento per portarlo a compimento. L’idea su cui si fonda è quella della rieducazione del detenuto per reinserire al più presto un individuo violento nel tessuto sociale.

Il Leitmotiv che lega la tragedia alla cura di Alex è sempre il concetto di educare a superare la violenza con immagini di violenza, ma è proprio su questo piano che si evidenziano in tutta la loro crudezza le discrepanze tra un paradigma nobile e un derivato pessimo.

Se l’uomo greco assisteva ad una rappresentazione seduto a teatro con i suoi concittadini, rimanendo sempre libero di reagire in modo personale ed intimo alle scene che vedeva, per Alex non c’è modo di esercitare la propria volontà nel momento della cura. Legato in una camicia di forza e costretto a tenere gli occhi aperti, il paziente è obbligato ad assistere passivo suo malgrado, per quanto siano forti le sue urla e prepotente il suo malessere fisico.

In Arancia Meccanica si assiste grazie alla cura Ludovico ad un modello perverso di rieducazione, che diviene per chi delinque un’alternativa allo scontare una lunga pena proporzionata al suo crimine. Il risvolto contro cui si punta il dito è il carattere della rieducazione stessa, che in questo caso non è mai attiva, ma coatta.

L’obiettivo ora diventa “far diventare buoni i cattivi”, senza badare ai disastrosi esiti di una rieducazione forzata, che mina in modo indelebile anche la concezione ideologica della pena. Chi rieduca, quindi, commette una violenza pari se non superiore a quelle commesse da chi deve essere rieducato.

Alla base delle provocazioni lanciate da Burgess e Kubrick nelle loro opere possiamo riscontrare l’interesse per un argomento giuridico-filosofico di assoluta rilevanza, in particolar modo in un ordinamento costituzionale democratico come quello del nostro Paese, vale a dire quello della finalità della pena. Le funzioni di questa, come noto, possono essere molteplici, da quella più antica, la retribuzione, a quella auspicata dal Beccaria, la prevenzione, tuttavia, negli ordinamenti occidentali moderni, la pena ha assunto sempre più spesso una dimensione che mira alla rieducazione del reo.

Siamo, però, consapevoli dell’impossibilità di pervenire a una prospettiva onniesplicativa, pienamente soddisfacente sul piano teorico e risolutiva sul piano della prassi giudiziaria. Sia il modello retributivo sia quello rieducativo convergono nell’essere espressione di concezioni filosofiche generali, addirittura di visioni cosmologiche complessive, secondo le quali la giustizia come relazione fra gli uomini è un riflesso delle relazioni che governano il cosmo – la legge positiva è in una certa misura il riflesso di una legalità che appartiene al funzionamento dell’universo.

Per evitare le stesse aporie insormontabili a cui sono esposte le concezioni retributiva e rieducativa, la giustizia riparativa dovrebbe rinunciare alla pretesa di costituirsi come Weltanschauung, come concezione filosofica generale, rispetto alla quale meccanismi come quello della mediazione penale si pongono come mere «applicazioni».

Difatti, uno dei limiti della concezione della pena tradizionale è appunto la sua astrattezza, la sua pretesa di universalità, che confligge con l’esigenza di una giustizia che invece non può che essere caso per caso. La giustizia riparativa dovrebbe sostituire all’astratta universalità della norma penale una specificazione caso per caso. Ma allora tutto ciò non può essere tradotto in un modello, pena l’autocontraddizione.

Irrigidita in uno schema formalizzato, assunta come paradigma, la giustizia riparativa rischierebbe di condividere uno degli aspetti più negativi di ciò che vorrebbe combattere. Nella loro commistione, i tre simboli della spada, della benda e della bilancia configurano appunto una concezione organicistica di cui il diritto penale e la giurisdizione sono soltanto applicazioni concrete. Il passo successivo dovrebbe consistere nel rinunciare alla benda, simbolo tradizionale di una giustizia che «non guarda in faccia a nessuno». Comunque la si voglia intendere, questa immagine della giustizia bendata non può più oltre essere accettata. Se vuole davvero restare immune dalle aporie inseparabili dal paradigma retributivo e dal paradigma rieducativo, la giustizia riparativa, per agire nella sua peculiarità, deve vedere e distinguere, deve saper valutare caso per caso, situazione per situazione.[1]

Daniele Onori


[1] U. Curi, Il colore dell’Inferno, la pena tra vendetta e giustizia. Bollati Boringhieri, Torino 2019

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