Pubblichiamo un commento dell’avv. Daniela Bianchini, del Foro di Roma, in esclusiva per questo sito, sulla recente sentenza del Consiglio di Stato in tema di benedizioni pasquali nelle scuole pubbliche.
I locali delle scuole pubbliche, in orario extrascolastico e previa delibera dell’organo competente, possono ospitare riti religiosi, purché la partecipazione agli stessi sia libera volontaria e facoltativa. È questa la conclusione a cui è giunto il Consiglio di Stato con la sentenza del 27 marzo 2017 n. 1388, facendo così chiarezza su una questione che con forse troppa frettolosità era stata affrontata dal Tar Emilia Romagna, quando con sentenza n. 166/2016 aveva accolto il ricorso presentato da un esiguo gruppo di genitori ed insegnanti avverso una deliberazione del Consiglio di istituto con la quale era stata autorizzata l’apertura dei locali scolastici per le benedizioni pasquali, in orario extrascolastico e su base volontaria.
Alla natura religiosa di un’attività, quale ad esempio la benedizione pasquale, «per un elementare principio di non discriminazione non può attribuirsi una valenza negativa tale da renderla vietata o intollerabile unicamente perché espressione di una fede religiosa, mentre, se non avesse tale carattere, sarebbe ritenuta ammissibile e legittima». Il Consiglio di Stato ha parlato giustamente di un principio elementare, ossia di un principio su cui non si dovrebbe discutere e su cui dovremmo trovarci tutti d’accordo. Tuttavia, come dimostra quanto avvenuto nell’Istituto comprensivo 20 di Bologna, malgrado la chiarezza delle norme e dei principi, anche di rango costituzionale, non mancano coloro che, in nome di un principio di laicità male interpretato o comunque non riferibile alla nostra tradizione, tentano di confinare entro la sfera privata tutto ciò che appartiene al sacro. é quello che è successo nel caso in esame, laddove il Tar ha addirittura affermato che nella scuola «non v’è spazio per i riti religiosi riservati per loro natura alla sfera individuale dei consociati», aggiungendo che «le attività di culto religioso attengono alle pratiche di esercizio del credo confessionale di ciascun individuo e restano confinate nella sfera intima dei singoli, non lesiva della libertà religiosa e non incompatibile con il principio di laicità dello Stato». Una laicità, quella richiamata dal Tar, che non trova tuttavia rispondenze in quelle che sono le norme e i principi del nostro ordinamento e che peraltro mal si concilia con quelle che sono le funzioni della scuola pubblica italiana, da sempre interessata all’integrazione sociale e concepita come luogo di incontro e di inclusione, finalizzata alla formazione dei giovani e alla trasmissione dei valori su cui fondare la pacifica convivenza. Le istituzioni scolastiche, secondo la vigente normativa (cfr. DPR 275/1999), come ha puntualmente ricordato il Consiglio di Stato in risposta alla posizione del Tar, sono chiamate -nel rispetto della libertà di insegnamento, della libertà di scelta educativa delle famiglie e delle finalità generali del sistema- a promuovere la crescita educativa di tutti gli alunni, nel riconoscimento e valorizzazione delle diversità. La scuola deve dunque favorire, sempre nel rispetto delle libertà e dei diritti fondamentali, tutte quelle iniziative non riconducibili alla generalità della popolazione scolastica, bensì ad uno o più gruppi di essa e originate da specifici interessi: in questo consiste, appunto, la valorizzazione delle diversità e non nell’atteggiamento di chi, pur parlando di libertà, vorrebbe una scuola formata da studenti ed insegnanti totalmente omogenei sotto il profilo etico, religioso e culturale. Ma se la scuola pubblica italiana, per sua stessa vocazione, è un luogo di incontro per giovani appartenenti a diverse realtà sociali, religiose e culturali è evidente che non possa essere accolta nessuna istanza tesa a limitare le possibilità di dialogo e di confronto proprio fra quelle diversità che tanto si vorrebbero da molti tener fuori in nome di male interpretati principi di eguaglianza e di libertà.
Fra i banchi di scuola, gli studenti, fin dall’inizio del percorso scolastico, possono sperimentare le diversità, possono innanzitutto capire che se tutte le persone sono uguali in dignità, è pur vero però che ogni persona è “portatrice di diversità”, per carattere, appartenenza religiosa, cultura, idee sulla vita es sul bene comune che poi in età adulta si traducono in idee politiche ecc. Una scuola aperta al dialogo e al confronto sincero, non timorosa delle diversità che sono innegabilmente presenti nella compagine sociale è una scuola in grado di preparare efficacemente i cittadini più giovani al rispetto e alla realizzazione piena dei valori costitutivi del nostro ordinamento. Al contrario, una scuola “asettica” sotto il profilo etico e religioso altro non farebbe che ingannare i giovani, facendo loro credere che la società sia composta da una massa indistinta di persone aventi le stesse idee e le stesse convinzioni etiche.
Ciò detto, come giustamente ha osservato anche il Consiglio di Stato, ribaltando completamente la decisione del Tribunale amministrativo, non vi è dunque alcun ragionevole motivo per ritenere che le attività di culto, laddove sia garantito il rispetto del principio di eguaglianza e laddove sia prevista una partecipazione non obbligatoria e su base volontaria, non possano trovare ingresso nella scuola pubblica. Nel caso in esame, tra l’altro, sarebbe bastato anche solo il buon senso a dirimere la controversia, senza neppure invocare l’intervento del giudice, visto che si trattava di una celebrazione della durata di pochi minuti, in orario extrascolastico e facoltativa. Come si è già avuto modo di sottolineare nella precedente nota di commento alla sentenza del Tar, ciò che in tutta la vicenda suscita maggiori perplessità e preoccupazioni è l’animosità con cui i ricorrenti si sono scagliati contro il Consiglio di istituto, “reo” di aver autorizzato una celebrazione della durata di pochi minuti in orario extrascolastico, senza peraltro che vi fosse alcun obbligo di partecipazione e senza dunque che potesse essere in alcun modo lesa la libertà degli altri, non credenti o appartenenti ad altra confessione. È innegabile che la libertà religiosa vada rispettata anche quale libertà di non credere ma questo non deve tradursi nel pretendere che i credenti rinuncino a manifestare pubblicamente la propria fede, tanto più quando vengono poste in essere attività oggettivamente non lesive dell’altrui convinzione, come nel caso in esame. Pretendere che la scuola, in quanto edificio pubblico, sia “preservato” dalle manifestazioni religiose – neanche fossero malattie contagiose – non soltanto è errato sotto il profilo giuridico, ma è altresì contrario a quello spirito di reciproca comprensione, accettazione e rispetto che caratterizza la scuola pubblica, per la sua naturale vocazione all’integrazione di cui si è detto e come si ritrova anche nella sentenza del Consiglio di Stato, che ha ricordato come tutto ciò sia oggi tanto più decisivo «in relazione al fenomeno sempre più rilevante dell’immigrazione e della conseguente necessità di integrazione». Fa molto riflettere – e dispiace- che fra i ricorrenti, in prima fila, vi sia stata anche un’insegnate della scuola elementare, dalla quale ci si sarebbe aspettati ben altro atteggiamento. Quando si dice che la scuola pubblica è chiamata a favorire l’inclusione, non ci si riferisce alla scuola intesa come edificio, bensì all’insieme di tutte le persone che vi lavorano all’interno, primi fra tutti gli insegnanti, che svolgono un ruolo importantissimo, ossia quello di formare i più giovani trasmettendo loro i valori fondamentali dell’ordinamento.
Daniela Bianchini (Avvocato del foro di Roma e Dottore di ricerca in Diritto canonico ed ecclesiastico)