Nella giornata di ieri il prof Mauro Ronco e il cons Domenico Airoma, rispettivamente presidente e vice presidente del Centro studi Livatino, sono stati auditi in Commissione Giustizia del Senato sui recenti decreti legge in tema di carceri e rinvio della disciplina delle intercettazioni. Pubblichiamo il testo del cons Airoma.
Appunto relativo all’audizione resa innanzi alla Commissione Giustizia del Senato della Repubblica in data 19 maggio 2020 del dottor Domenico Airoma, procuratore della Repubblica Aggiunto presso il Tribunale di Napoli Nord.
Signor Presidente,
Signori Senatori,
limiterò le mie osservazioni ad alcune considerazioni relative alla disciplina in materia di intercettazioni ed alla normativa in tema di emergenza carceri.
Parte prima. Questione intercettazioni
E’ senza dubbio da salutare con favore la disposizione, contenuta nell’art. 1 del decreto legge n. 28 del 30 aprile 2020, con la quale si differisce l’entrata in vigore della legge 28.2.2020, n. 27. Tuttavia, restano forti perplessità sull’intero impianto normativo.
Le novità maggiori introdotte da tale intervento legislativo riguardano le operazioni di intercettazione effettuate mediante il ricorso al captatore informatico, con importanti modifiche attinenti sia ai presupposti che alle modalità di utilizzazione di tale strumentazione tecnica.
Appare opportuno premettere, in sintesi, l’evoluzione normativa e giurisprudenziale che ha interessato tale mezzo di ricerca della prova:
- con la sentenza della Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, n. 26889 del 28.4.2016 (Scurato), i giudici di legittimità hanno statuito che il captatore informatico potesse essere utilizzato per realizzare intercettazioni di comunicazioni tra presenti nei soli procedimenti per delitti di criminalità organizzata, per tali dovendosi intendere quelli elencati nell’art. 51, commi 3 bis e 3 quater, c.p.p., nonché quelli facenti comunque capo ad un’associazione per delinquere;
- l’art. 6 del d. lgs. n. 216 del 2017 (cosiddetta “riforma Orlando”) ha esteso, poi, la possibilità di fare ricorso al captatore informatico anche ai procedimenti per i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni di reclusione, con esclusione, tuttavia, per tali delitti, della ammissibilità di procedere alla captazione delle comunicazioni tra presenti avvenute all’interno di luoghi domiciliari, in mancanza del fondato motivo per ritenere che ivi sia in corso l’attività criminosa;
- l’art. 1 comma 3 della legge 9.1.2019, n. 3 (cosiddetta “Spazzacorrotti”), ha, quindi, esteso indiscriminatamente, anche per i delitti dei pubblici ufficiali, la possibilità dell’utilizzo del captatore per le comunicazioni tra presenti in luoghi di privata dimora, a prescindere dal motivo fondato per ritenere colà lo svolgimento dell’attività criminosa;
in tale assetto normativo, interviene la legge nr. 7 del 2020, prevedendo che:
- l’utilizzo del captatore informatico per realizzare intercettazioni tra presenti è sempre consentito, per tutti i delitti di cui all’art. 266 c.p.p.;
- per quanto riguarda, in particolare, le comunicazioni tra presenti nei luoghi di privata dimora:
- se si procede per delitti di criminalità organizzata, il ricorso al captatore è sempre consentito;
- se si procede per i delitti dei pubblici ufficiali o degli incaricati di pubblico servizio contro la pubblica amministrazione, l’utilizzo del captatore è consentito sempre che vi sia l’indicazione delle ragioni che ne giustificano l’utilizzo nei luoghi domiciliari (che è cosa, evidentemente, diversa dal fondato motivo di ritenere che presso tali luoghi sia in atto lo svolgimento dell’attività criminosa);
- se si procede per tutti gli altri delitti di cui all’art. 266 c.p.p., il ricorso a tale strumentazione è condizionata al fondato motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l’attività criminosa; inoltre, in tale ultimo caso, il decreto del G.i.p. deve indicare anche i luoghi ed il tempo in relazione ai quali è consentita l’attivazione del microfono.
Tale articolata evoluzione normativa, accompagnata da pronunce della giurisprudenza di legittimità che hanno cercato di operare un bilanciamento fra esigenze di accertamento dei fatti e tutela delle libertà fondamentali, si spiega con le peculiari caratteristiche tecniche dello strumento utilizzato.
Il trojan non è una periferica, bensì un programma che, una volta inoculato, si appropria del dispositivo, che essendo mobile, diventa un captatore permanente, accompagnando il target ovunque egli vada e chiunque incontri.
Diventa difficile, pertanto, prevedere i luoghi di privata dimora dove viene introdotto il dispositivo infettato e verificare il rispetto della condizione, prevista dalla legge, che ivi si stia svolgendo l’attività criminosa, anche al fine di stabilire i tempi ed i luoghi di attivazione del microfono.
Se, poi, combiniamo tale strutturale invasività del captatore con la disposizione contenuta nell’art. 270 comma 1 bis c.p.p. (relativa all’utilizzabilità delle risultanze acquisite anche per reati diversi), siamo dinanzi alla concreta possibilità di intercettare altri soggetti diversi dall’obiettivo e senza che vi sia un provvedimento del giudice.
Come si vede, diventa essenziale –oserei dire, cruciale ai fini del rispetto delle fondamentali garanzie di riservatezza dovute a tutti i consociati- il dominio del programma, di questo cavallo di troia, ed avere certezze in ordine alla possibilità di ottenere una precisa rendicontazione circa l’operato degli ausiliari tecnici della polizia giudiziaria.
La questione è che, appunto, si tratta di un cavallo che non è sempre semplice da domare. E forse le difficoltà del Ministero della Giustizia, che sono verosimilmente alla base del differimento dell’entrata in vigore, dimostrano che siamo dinanzi ad una difficoltà non transeunte, ma strutturale.
E di questo occorre avere consapevolezza; soprattutto nel momento in cui si è ritenuto di dover far pendere la bilancia a favore delle esigenze di accertamento della responsabilità penale.
Segnalo, peraltro, che c’è una disposizione contenuta nell’art. 89 delle disposizioni di attuazione del c.p.p., che recepisce tali preoccupazioni e che è rimasta, finora, in larghissima parte, inattuata.
«Art. 89. (Verbale e registrazioni delle intercettazioni).
1.Il verbale delle operazioni previsto dall’articolo 268 comma 1 del codice contiene l’indicazione degli estremi del decreto che ha disposto l’intercettazione, la descrizione delle modalità di registrazione, l’annotazione del giorno e dell’ora di inizio e di cessazione della intercettazione nonché i nominativi delle persone che hanno preso parte alle operazioni. Quando si procede ad intercettazione delle comunicazioni e conversazioni tra presenti mediante inserimento di captatore informatico su dispositivo elettronico portatile, il verbale indica il tipo di programma impiegato e, ove possibile, i luoghi in cui si svolgono le comunicazioni o conversazioni.
2. Ai fini dell’installazione e dell’intercettazione attraverso captatore informatico in dispositivi elettronici portatili, devono essere impiegatiprogrammi conformi ai requisiti tecnici stabiliti con decreto del Ministro della giustizia.
3. Nei casi previsti dal comma 2 le comunicazioni intercettate sono conferite, dopo l’acquisizione delle necessarie informazioni in merito alle condizioni tecniche di sicurezza e di affidabilità della rete di trasmissione, esclusivamente negli impianti della procura della Repubblica. Durante il trasferimento dei dati sono operati controlli costanti di integrità che assicurino l’integrale corrispondenza tra quanto intercettato, registrato e trasmesso.
4. Quando è impossibile il contestuale trasferimento dei dati intercettati, il verbale di cui all’articolo 268 del codice da’ atto delle ragioni impeditive e della successione cronologica degli accadimenti captati e delle conversazioni intercettate.
5. Al termine delle operazioni si provvede, anche mediante persone idonee di cui all’articolo 348 del codice, alla disattivazione del captatore con modalità tali da renderlo inidoneo a successivi impieghi. Dell’operazione si da’ atto nel verbale.»
Orbene, alcuni interrogativi si impongono:
quali sono i programmi che rispondono alle specifiche tecniche del Ministero?
in cosa consistano ed in che modo debbano esercitarsi “i controlli costanti di integrità che assicurino l’integrale corrispondenza tra quanto intercettato, registrato e trasmesso” che pure, a mente della menzionata disposizione, sembrano incidere sull’utilizzabilità degli esiti delle captazioni?
siamo certi dell’identità dei reali detentori dei software?
siamo in condizione di affermare che i dati vengono trasferiti immediatamente, cioè senza mediazioni, all’archivio della procura o vengono comunque trattati in tutto o in parte da altri soggetti?
per quali ragioni non si è ancora addivenuti alla formazione di un albo delle società accreditate presso il Ministero, anziché rimettere ogni iniziativa ai singoli uffici di Procura, con le conseguenze che talune indagini di recente hanno fatto emergere con riferimento proprio alla tutela della riservatezza dei dati acquisiti?
Se non c’è risposta soddisfacente a tutti questi interrogatici, non sarebbe preferibile in attesa di avere un quadro ben definito e disposizioni di sistema ben più rassicuranti limitare l’uso del captatore ai soli procedimenti di criminalità organizzata o ai più gravi delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione?
Parte seconda. Questione emergenza carceri. Partiamo dal sovraffollamento.
I dati forniti dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria riferiscono, al 23 marzo scorso, cioè nel periodo di esplosione della pandemia e subito dopo le rivolte, della presenza nelle carceri italiane di 59.388 detenuti; di questi, gli italiani erano 40.006 e gli stranieri 19.382.
Un primo elemento emerge evidente: il 32,6% della popolazione carceraria è composta da delinquenti che avrebbero potuto trovarsi altrove, scontando la pena presso i paesi di provenienza, se opportune intese con gli stessi fossero state concluse, o se quelle concluse avessero compiuta esecuzione. Con l’altrettanto solare conseguenza che, se appunto fossero stati rimpatriati, l’indice di sovraffollamento sarebbe stato tale da consentire ai reclusi condizioni di vita indubbiamente migliori (attualmente la capienza regolamentare è stimata a 50.894 unità).
Passiamo quindi alla denunciata supplenza della magistratura di sorveglianza.
Va detto chiaramente che se vi è stata, essa è stata ampiamente incoraggiata se non proprio sollecitata dal potere esecutivo: si pensi alla palese inadeguatezza delle prime norme in tema di permessi domiciliari con braccialetto ed alla circolare del DAP del marzo scorso, che invitava al censimento delle situazioni di potenziale esposizione a rischio contagio, circolare citata in alcuni provvedimenti della sorveglianza.
Non entro nel merito dei provvedimenti; rilevo solo che se c’è stata circolare del DAP che invitava a compiere un determinato monitoraggio, avrebbe dovuto esserci da parte dello stesso Dipartimento analoga attivazione per individuare i luoghi di cura dove eventualmente allocare i detenuti esposti a rischio. La vicenda, in definitiva, lascia emergere gravi criticità relative alla circolarità di informazioni ed alla collaborazione fra istituzioni.
Veniamo, infine, ai rimedi alle scarcerazioni contenuti nei decreti legge 30.4.2020, n. 29, e 10 maggio 2020, n. 29; in particolare, la disposizione di cui all’art. 2 del d.lg. 29/2020.
L’ambito di applicazione appare fortemente limitato. Si tratta, infatti, di disposizione che si applica solo ai soggetti condannati per taluni gravissimi reati e neppure a tutti quelli che hanno riportato condanne per delitti di cui all’art. 4 bis O.P. e 51 co. 3 bis c.p.p..
Tale disposizione pone, inoltre, un delicato problema interpretativo: essa si applica solo alla detenzione domiciliare speciale ex art. 47 ter co. 1 ter (il cui presupposto è l’art. 147 c.p.) o anche alla detenzione domiciliare ordinaria, che trova applicazione ex art. 47 ter co. 1 lett. c, anche dopo lo scioglimento del cumulo e la dichiarazione di espiazione completa della pena per il reato ostativo? Appare auspicabile una specificazione in tal senso, che non lasci spazio a divagazioni interpretative.
Per quanto attiene alla procedura, appare opportuno svolgere i seguenti rilievi.
Va premesso che, già adesso, ovvero nel sistema ordinario, a prescindere dalla emergenza sanitaria, il giudice, se applica la detenzione domiciliare per ragioni di salute, applica un termine. La novità sta, dunque, nell’aver fissato un confine temporale per la procedura di revisione. E, inoltre, nell’aver richiesto che il giudice acquisisca una serie di pareri. Va rilevato, tuttavia, al di là dell’utilità dei pareri stessi (che corrono il rischio di essere mere formulazioni di stile), per gli stessi non è previsto alcun termine.
Nell’ottica, infine, di favorire un’informativa sempre attuale ed esaustiva al giudice della sorveglianza, potrebbe essere opportuno, anche a prescindere dall’emergenza COVID prevedere un potere di iniziativa anche in capo al P.M. in tutti quei casi in cui sopravvengono elementi che inducono a ritenere aggravate le esigenze di difesa sociale; potere di iniziativa che attualmente viene previsto solo per le misure cautelari, cioè per i detenuti in attesa di giudizio definitivo.
Infine, una considerazione che esula dal d. lg. 28 e 29 e riguarda l’art. 123 del d. lg. 18/2020 convertito nella lg. 27/2020.
La norma prevede che «la pena detentiva è eseguita, su istanza, presso l’abitazione del condannato o in altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza, ove non sia superiore a diciotto mesi, anche se costituente parte residua di maggior pena, salvo che riguardi: a) soggetti condannati per taluno dei delitti indicati dall’articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni e dagli articoli 572 e 612-bis del codice penale; (…)».
A questo proposito, va segnalato che, nonostante il divieto posto dalla norma, vi è un orientamento della magistratura di sorveglianza che ritiene possibile, contrariamente a quanto statuito dalla Corte di Cassazione, l’applicazione di tale disposizione ai condannati per delitti di cui all’art. 4 bis O.P., dopo aver sciolto il cumulo, così come viene fatto per la misura della detenzione domiciliare ex art. 1 legge 199/2010.
Se è nelle intenzioni del legislatore evitare che la norma si applichi ai soggetti che stanno espiando una condanna “anche” per i rati di cui all’art. 4 bis OP, sarebbe opportuno enunciarlo con chiarezza o utilizzare una locuzione diversa, ricorrendo, ad esempio, alla diversa formulazione utilizzata dall’art. 94 DPR 309/90, che a proposito dell’affidamento c.d. terapeutico espressamente dice “se relativo a titolo esecutivo comprendente reato di cui all’art. 4 bis OP”; solo in tal modo si esclude espressamente la possibilità di sciogliere il cumulo.
Potrebbe, anzi, essere l’occasione per valutare una modifica in tal senso della legge 199/2010, che verrebbe in tal modo limitata ai soli detenuti cosiddetti comuni, che non hanno nel titolo esecutivo in esecuzione condanne per reati gravi.
Vi ringrazio per l’attenzione.