Pubblichiamo la richiesta di autorizzazione a procedere avanzata dal Tribunale dei Ministri nel caso AlMasri e le principali ragioni addotte dalla difesa dei rappresentanti del Governo italiano.

DOMANDA-DI-AUTORIZZAZIONE-A-PROCEDERE

Alla Giunta per le autorizzazioni
della Camera dei Deputati

I sottoscritti Alfredo Mantovano, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Matteo Piantedosi, Ministro delI’Interno, e Carlo Nordio, Ministro della Giustizia, in relazione alla domanda di autorizzazione a procedere in giudizio ai sensi dell’articolo 96 della Costituzione, del Tribunale ordinario di Roma, Collegio per i reati ministeriali, del 1º agosto 2025, espongono e chiedono quanto segue.

Preliminarmente si eccepisce la irricevibilità della domanda di autorizzazione a procedere in giudizio. La legge costituzionale n. 1/1989 disciplina il procedimento davanti al Tribunale dei ministri, tenendo conto della funzione che svolgono gli indagati: non immagina privilegi, ma neanche pregiudizi. Non prevede deroghe in favore, ma neanche eccezioni in danno degli indagati medesimi: nella domanda di autorizzazione, e nelI’iter che la ha preceduta, le violazioni di Iegge sono così gravi e numerose che, ai fini del rigetto o della inammissibilità della domanda medesima, potrebbero anche esimere daII’entrare nel merito.

1. Un “privilegio” potrebbe consistere nella definizione del procedimento nei novanta giorni previsti (art. 8 co. 1 I. cost. 1/89): un termine che, nella logica costituzionale della giusta durata del processo (art. 111 co. 2 Cost.), risponde all’esigenza, pubblica oltre che personale, di non lasciare neII’incertezza le sorti giudiziarie di chi ha la responsabilità di governo. Ma il Tribunale di Roma ha definito la questione dopo oltre sei mesi, senza curarsi di giustificare il ritardo, andando anche oltre i sessanta giorni di proroga nell’ipotesi di ulteriori indagini (art. 8 co. 3 1. cost. 1/89). La Giunta valuterà se e quale incidenza abbia l’inottemperanza del termine, anche di quello prorogato, che è scaduto il 30 giugno 2025.

Certamente non può venire meno il rispetto delle fondamentali garanzie difensive. Invece l’iter seguito dal Tribunale di Roma con la domanda di autorizzazione presenta anomalie che in un procedimento ordinario avrebbero condotto per un verso alla nullità del procedimento, per altro verso alla inutilizzabilità di più atti sui quali si fonda la domanda stessa.

Ecco le anomalie più rilevanti.

Il 22 maggio 2025 l’avv. Giulia Bongiorno, difensore di tutti gli indagati, dopo che il Tribunale dei ministri aveva chiesto di interrogare il ministro della Giustizia, aveva rappresentato al medesimo Tribunale la disponibilità del sottosegretario Mantovano a presentarsi e a fornire tutti i possibili elementi conoscitivi, essendo — così testualmente scriveva l’istanza — “l’esponente dell’Esecutivo che ha coordinato le varie fasi della vicenda oggetto di accertamento”.

Era un’offerta di chiarimento a tutto tondo, che il Tribunale ha ritenuto di non accogliere, con provvedimento del 28 maggio 2025 (all. 1: istanza e atto di diniego1). Intanto era un’offerta in linea con una collaborazione, non richiesta ma concretamente prestata, che consentisse il più puntuale accertamento dei fatti; quando per esempio, ignorando il meccanismo dei voli di Stato, il Tribunale aveva chiesto notizie sul loro funzionamento all’Aeronautica militare, l’ufficio del sottosegretario, pur non interpellato, ha ritenuto di fornire le informazioni al Tribunale medesimo.

L’art. 6 l. cost. n. 1/1989 prevede che i soggetti interessati “possano (…) chiedere di essere ascoltati”; ciò è in linea con le disposizioni del codice di procedura penale che riconoscono il diritto dell’indagato/imputato a rendere dichiarazioni in ogni stato e grado del procedimento, purché ovviamente inerenti alle imputazioni a lui contestate, ed è in coerenza con il diritto costituzionale alla difesa. Tale diritto è stato incomprensibilmente e completamente disatteso.

Non esistono precedenti. In qualsiasi giudizio, un indagato che mette per iscritto di aver coordinato ogni passaggio della vicenda oggetto di accertamento, si offre al giudice per esporre la propria difesa, e per contribuire alla ricostruzione e magari alla comprensione di essa, trattandosi di materia non facile, non riceve mai un rifiuto.

2. Anche la procedura davanti al Tribunale dei ministri deve adeguarsi, in forma a essa compatibile, al dettato costituzionale, modificato nel 1999, secondo cui “ogni processo si svolge nel contraddittorio fra le parti, davanti a giudice terzo e imparziale” (art. 111 co. 2 Cost.). Nel caso in esame, il contraddittorio è semplicemente mancato: mentre il Procuratore della Repubblica è stato chiamato dal Tribunale a esprimere il proprio parere almeno due volte, al difensore degli indagati è stato più volte negato l’accesso all’intero fascicolo, autorizzato solo in una fase finale del procedimento, a pochi giorni dall’emissione del provvedimento definitivo. Sicché, di fatto, la difesa non è stata posta nelle condizioni di presentare memorie che tenessero conto dell’intero compendio probatorio assunto.

All’assoluto difetto di contraddìttorio, e quindi al contrasto diretto con la norma costituzionale, si affiancano le inammissibili fughe di notizie, che il Tribunale stesso ha attestato essere avvenute per almeno due volte, seguite in entrambi i casi dalla relativa denuncia d’ufficio, il 12 febbraio e il 10 luglio 2025 : in tal modo, gli atti del procedimento la cui possibilità di esame è stata negata alla difesa sono poi stati pubblicati da alcune testate giornalistiche. Nella risposta alla nota del difensore avv. Bongiorno del 10 luglio, il collegio di Roma ha avuto cura di precisare di aver sempre custodito il fascicolo nella cassaforte della Cancelleria della Corte, “salvi i passaggi previsti dalla legge costituzionale”: cioè, salva la trasmissione per il parere al Procuratore della Repubblica. Costui quindi, nel mentre è stato l’interlocutore esclusivo del Tribunale, è stato pure dal medesimo indicato come il solo ad aver detenuto gli atti al di fuori della cassaforte in uso dal Tribunale. Non si ha però notizia di seguiti giudiziari alle denunce del collegio di Roma, sì che al momento appare certa l’impunità di quello che probabilmente è il solo reato che emerge in questa vicenda, cioè la violazione del segreto di indagine.

Non si colgono le ragioni di un simile atteggiamento. Ma è una delle tante anomalie che disseminano il percorso che ha condotto davanti a questa Giunta. (…)

4. Qualora la Giunta ritenga di superare tali eccezioni, l’esame del merito fa cogliere un filo conduttore dell’intera domanda: esso è il pre-giudizio, nel senso letterale del termine. Indici di pre-giudizio sono:

a. Io screditamento dei testimoni ritenuti non in linea con la tesi accusatoria. Si tratti del Capo della polizia, come del Direttore del Dipartimento informazioni e sicurezza, o del Consigliere diplomatico del ministro della Giustizia — figure autorevoli, servitori dello Stato da decenni —, sono tutti marchiati di inattendibilità. È uno screditamento grave in sé, e ancora di più nel momento in cui — come emerge dalla lettura della domanda — avviene con affermazioni apodittiche e non motivate;

b. la forzatura delle dichiarazioni dei testimoni che confermerebbero le imputazioni, in particolare quelle rese dai magistrati che all’epoca lavoravano per il DAG-dipartimento affari di giustizia. In realtà i medesimi magistrati, a cominciare dal cons. Luigi Birritteri, all’epoca capo del DAG, sono i primi ad aver riferito: a) che non avevano la delega del ministro a interessarsi delle questioni della CPI (fg. 14), e con ciò quindi era corretto che il caso fosse trattato dal Gabinetto, b) che nell’immediatezza avevano avuto anche loro dubbi sulla correttezza della procedura seguita per l’arresto, e che ritenevano che vi fosse stato un errore procedurale consistito nel mancato rispetto dell’iniziativa del Ministro sulI’arresto (fg. 15 e fg. 17, allorché si fa stato di una mail con cui lo stesso Birritteri alle 14.36 del 19 gennaio parla di irritualità della procedura e di questione politica di non trascurabile entità; cf. anche il direttore generale Guerra fg. 21), c) che sempre Birritteri aveva condiviso le perplessità sulla ritualità dell’arresto anche col Procuratore generale della corte di appello di Roma Amato (fg. 18 e fg. 24). Pur essendo ritenuti attendibili, il Tribunale non valorizza queste perplessità, che invece erano le medesime di Nordio e del Governo, oltre che del Capo della polizia (fg. 38), nonostante l’arresto fosse stato eseguito da personale della Polizia di Stato;

c. la qualifica in termini di mendacio di quanto hanno dichiarato il ministro Nordio e il suo capo di gabinetto Bartolozzi, senza però precisare in che cosa sarebbe falso quanto da loro dichiarato, e soprattutto in che cosa contrasterebbe con le affermazioni degli altri testimoni;

d. espressioni come “contrariamente alla prassi, il Capo di Gabinetto aveva ritenuto di gestire la procedura in autonomia (fg. 14)”. A parte la competenza del Gabinetto a trattare i casi della CPI, ci si trovava di fronte al primo caso di esecuzione in Italia di un mandato di arresto della stessa Corte: quale prassi si è formata?

e. la totale invenzione di elementi fattuali, e quindi lo stravolgimento della realtà. Quel che ha riferito il direttore di AISE viene ritenuto dal Tribunale (fg. 33) “poco verosimile, atteso che risulta il 7.2.22, in occasione di una cerimonie svoltosi proprio in Italia, a Roma, (che) l’Ufficio del Procuratore dello CPI si è unito formalmente alla Squadra Congiunta – Joint team — composta da autorità nazionali competenti in Italia, Paesi (??), Regno Unito (…) e Spagna, anche supportata da Europol, che indaga da tempo sui crimini commessi ai danni di migranti e rifugiati in Libia”. Nella nota 100, sempre a fg. 33, il Tribunale ricava questi elementi da una dichiarazione del Procuratore della CPI del 7.2.2022, pubblicata sul sito della Corte. È sufficiente leggere tale dichiarazione, per come è stata riportata, per constatare che quella del Procuratore era una mera illustrazione di intenti, priva di qualsiasi riferimento ad AIMasri o a provvedimenti restrittivi nei suoi confronti. È grave che il Tribunale retrodati di tre anni la predisposizione di un atto del genere, che invece si è materializzato solo nella serata di sabato 18 gennaio 2025; (…)

5. Alla fine la tesi del Tribunale è che il ministro Nordio ha commesso omissione in atti di ufficio e favoreggiamento, perché non ha promosso la sanatoria di un arresto realizzato in modo irrituale, per concorde attestazione della corte di appello di Roma, del procuratore generale della stessa corte di appello e dei magistrati del ministero della Giustizia; per la medesima ragione il ministro Piantedosi e il sottosegretario Mantovano concorrono nel favoreggiamento.

In ciò, unitamente al mancato rispetto delle garanzie e a una robusta dose di pre-giudizio, la decisione del Tribunale di Roma manifesta un’altra caratteristica: la scarsa dimestichezza con materie obiettivamente non facili, ad alta specializzazione, dal diritto penale internazionale all’ordinamento interno al ministero della Giustizia, fino alla valutazione delle segnalazioni dell’intelligence; questo spiega:

  1. l’impropria valorizzazione in chiave accusatoria della bozza di provvedimento di richiesta di arresto che il DAG aveva predisposto per il ministro, che costituirebbe la conferma che il ministro Nordio non aveva altre alternative alla richiesta di arresto. Tutti i testimoni che hanno parlato di questa bozza hanno confermato che si trattava di un mero esercizio tecnico, finalizzato a poter disporre subito dell’eventuale base di provvedimento, qualora il ministro avesse deciso diversamente. Il Tribunale ha confuso l’offerta di supporto tecnico da parte di Birritteri con una sorta di pre-provvedimento, che peraltro non rientrava nella competenza del DAG, privo della relativa delega. In questo, come su altro, le dichiarazioni di Bartolozzi non sono né false né inattendibili;
  2. la singolarità dell’arresto, e di quanto lo ha preceduto. È descritto perfino dal collegio giudicante come AlMasri ha iniziato il suo viaggio in Europa il 6 gennaio 2025, volando da Tripoli a Londra, facendo scalo all’aeroporto di Roma-Fiumicino; come si è trattenuto nella capitale britannica per 7 giorni, per trasferirsi il 13 gennaio da Londra a Bruxelles in treno. Da Bruxelles egli ha poi proseguito per Bonn, in Germania, viaggiando in macchina con un amico. Lì ha soggiornato per due giorni e ha assistito a una partita di calcio. Insieme ad alcuni amici il 16 gennaio 2025 ha quindi noleggiato una Mercedes, e si è diretto verso Monaco. Durante il tragitto, il gruppo di amici è stato fermato dalla polizia per un controllo di routine: gli agenti li hanno lasciati proseguire. Arrivati a Monaco, il 18 gennaio essi hanno cambiato la Mercedes con un’auto più spaziosa per viaggiare verso Torino. Una volta giunti in città, la polizia italiana ha effettuato un ulteriore controllo, senza riscontrare irregolarità e permettendo Ioro di proseguire: questo perché la red notice, cioè la comunicazione a Interpol dell’inserimento del provvedimento restrittivo della libertà, è stata inserita solo nella notte fra il 18 e il 19. Il motivo del viaggio a Torino era quello di assistere a una partita della Juventus. Soltanto sabato 18 gennaio, dodici giorni dopo l’inizio del giro di AlMasri per l’Europa, la CPI ha emesso il mandato di arresto. Da ciò si evince con certezza che > AlMasri fosse presente nei territori di altri Stati UE nelle settimane antecedenti il suo arrivo in Italia; > la CPI ha accelerato l’iter per giungere alla emissione del mandato di arresto nei suoi confronti soltanto quando è emerso che egli si stava recando in Italia; > il mandato di arresto sia stato completato nel pomeriggio di sabato 18 gennaio, poco dopo che AlMasri era arrivato in Italia. Queste circostanze hanno concorso alla valutazione cauta e prudente da parte Governo;
  3. la sottovalutazione delle imprecisioni contenute nella prima redazione del mandato di arresto della CPI, causa di ulteriore perplessità per il Governo, posto che — a parte l’assenza nel primo dei due provvedimenti della dissenting opinion di uno dei tre componenti della CPI (fg. 40) — vi era una differenza non marginale quanto alla data di consumazione dei reati contestati ad AlMasri, con una differenza di ben quattro anni, dal 2015 al 2011;
  4. la considerazione di non concomitanza della richiesta di estradizione di AlMasri formulata da parte della Libia. I dati obiettivi, riportati dallo stesso Tribunale, la danno per conosciuta certamente dalla tarda mattinata del 20 gennaio (fg. 23 e 34): il che non può far condividere che non vi fosse concomitanza, come correttamente ha sottolineato il capo di Gabinetto Bartolozzi, quando ha richiamato l’esigenza di operare un bilanciamento fra le due richieste (fg. 39). Il Tribunale la qualifica incompleta, ma nessuna richiesta di estradizione all’inizio è completa, e non lo era neanche la richiesta di arresto della CPI.

6. La verità è che per operare tutte queste valutazioni/comparazioni il Governo, e in particolare il ministro della Giustizia avrebbe avuto necessità di approfondimenti, e quindi di tempo. Invece l’arresto operato dalla polizia giudiziaria ha posto di fronte al fatto compiuto, con una esecuzione avvenuta prima che il ministro fosse a conoscenza del mandato, e quindi potesse esercitare i poteri che lo statuto della CPI gli conferisce.

Il Tribunale non ha minimamente considerato i tempi in cui si sono svolti gli eventi. Viene, infatti, erroneamente affermato che l’arresto sarebbe avvenuto nella giornata di sabato 18 gennaio così dilatando l’arco temporale a disposizione del ministro della Giustizia.

In realtà, l’arresto venne ritualmente eseguito la mattina di domenica 19 gennaio, ore 9:30 (cfr. verbale di arresto Questura di Torino).

Le risultanze investigative riscontrano la versione fornita dal ministro Nordio: le notizie apprese, tramite Interpol nel corso della giornata di domenica 19, erano informali e incomplete mentre gli atti, ufficiali, compresi quelli trasmessi dalla Corte penale internazionale, vennero resi disponibili soltanto la mattina di lunedì 20 gennaio.

L’incompletezza della documentazione acquisita domenica 19 gennaio risulta chiaramente dagli scambi di email avvenuti nel pomeriggio della stessa giornata. Ciò si ricava dalla comunicazione con cui il cons. Luigi Birritteri, nel rilevare l’irritualità dell’arresto, rinviò al giorno successivo ogni ulteriore valutazione in attesa che pervenisse la documentazione completa.

Il mandato di arresto con la documentazione giustificativa è stato inviato, infatti, da parte del dott. Alessandro Sutera Sardo, domenica 19 gennaio, alle ore 15:49, tramite piattaforma “Prisma” — su postazione “dedicata” e dunque non consultabile dall’esterno — in uso al solo ufficio del Consigliere diplomatico, dott. Augusto Massari.

Il dott. Augusto Sassari ha confermato di non aver potuto accedere alla postazione nella giornata di domenica — non trovandosi in ufficio — e di avervi provveduto soltanto la mattina di lunedì. La documentazione è stata stampata con l’apposizione di un “attergato” e messa all’attenzione del capo di gabinetto.

È questo il momento in cui si considera ricevuta la documentazione, secondo quella che è una prassi dell’ufficio confermata anche dal direttore generale dott.ssa Mariaemanuela Guerra e dal cons. Luigi Birritteri. Secondo quanto riferito da quest’ultimo, la prassi vuole che gli atti siano trasmessi dal MAECI, Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, tramite l’Ambasciata competente (in questo caso I’Ambasciata dell’Aja) sulla piattaforma riservata “Prisma” in uso al Consigliere diplomatico che provvede a stamparli e smistarli con un “attergato”.

Il Tribunale ha acquisito la stampa della documentazione inviata tramite piattaforma “Prisma” che riporta l’attergato della mattina del 20 gennaio.

Nessuna valenza può, invece, assumere la circostanza che il dott. Sutera Sardo, nel pomeriggio del 19 gennaio, avesse inviato alla dott.ssa Mariaemanuela Guerra la medesima documentazione già trasmessa sulla piattaforma “Prisma”: la dott.ssa Mariaemanuela Guerra, ritenuta dal Tribunale pienamente attendibile e totalmente estranea alle contestazioni, ha infatti ammesso di non aver mai letto gli allegati alla predetta mail né di averli immediatamente girati. Questa mail (acquisita agli atti) risulta inoltrata alla dott.ssa Cristina Lucchini soltanto il 30 gennaio, come dalla stessa confermato.

Pertanto, il Ministro ha avuto l’effettiva disponibilità della documentazione ufficiale relativa alla richiesta di cooperazione il 20 gennaio 2025, in un momento certamente successivo all’esecuzione dell’arresto.

AI fine di contestare questo dato obiettivo, il Tribunale (fg. 64) è costretto a contestare la posizione espressa in modo univoco, se pure con atti differenti, dalla corte di appello di Roma, dal Procuratore generale della corte di appello di Roma, e dal Ministero della Giustizia in tutte le sue articolazioni, secondo cui una delle differenze fondamentali fra mandato di arresto a fine di estradizione e mandato di arresto emesso dalla CPI, è che per il primo il codice di procedura penale prevede espressamente la facoltà di arresto provvisorio da parte della polizia giudiziaria, mentre per il secondo la legge del 2012 non menziona questa facoltà, e quindi la polizia giudiziaria non può procedere autonomamente, ma deve attendere l’iniziativa del ministro. È questa fondamentale differenza che il Collegio mostra di non considerare.

Nella specie è verosimile che la Polizia di Stato di Torino abbia eseguito l’arresto ritenendo applicabili le disposizioni del codice di rito: trattandosi del primo caso in Italia di arresto in esecuzione di un mandato della CPI, ha immaginato una sovrapposizione con la disciplina ordinaria del mandato a fini di estradizione. È un errore nel quale, in maniera meno comprensibile, avendo avuto a disposizione non poche ore, ma oltre sei mesi, il tribunale ha mostrato di cadere, se è vero che nella parte conclusiva della domanda di autorizzazione continua a richiamare i principi in materia di estradizione.

Vi è una evidente ragione della differente previsione: si immagini che un capo di Stato, destinatario di un mandato di arresto della CPI, accetti che l’ItaIia, o la Città del Vaticano, siano il luogo più adatto per trattare la fine di un conflitto bellico in corso. Secondo la “logica” seguita dal Tribunale di Roma, all’agente di polizia giudiziaria andrebbe lasciata l’iniziativa se arrestarlo, oppure no; quando invece va preso atto che la specialità della procedura di esecuzione dei mandati della CPI è funzionale proprio alla assunzione della responsabilità politica da parte del Governo, e nella specie del ministro della Giustizia, sentito il governo, come stabilisce la Iegge del 2012. È funzionale, cioè — e in questo ci si avvicina alla decisione di merito cui è chiamata questa Giunta — alla valutazione della preminenza dell’interesse pubblico rispetto alla esecuzione di un provvedimento della CPI.

Ma quand’anche non si volesse cogliere l’evidente ratio di prudenza della omessa previsione delI’autonoma iniziativa di arresto da parte della polizia giudiziaria, vi è un argomento insuperabile: in materia di privazione della libertà non vale l’analogia. Quello che è previsto per l’estradizione, se non espresso, non vale per la particolare procedura del mandato di arresto della CPI.

7. Il Tribunale dei ministri sostiene una tesi diversa. Per arrivare alla conclusione secondo cui il ministro Nordio non aveva altra scelta che chiedere la convalida dell’arresto di AlMasri, riporta una non meglio precisata “certa dottrina”, senza tuttavia indicare la fonte. Di regola nei provvedimenti giudiziari non si riporta la dottrina, o se ciò avviene non si attribuisce alla dottrina un peso prevalente. Il brano della “dottrina” qui ampiamente riportata inizia sostenendo che la normativa sull’esecuzione di un arresto disposto dalla CPI “è stato da sempre fetto nel senso che (…)”. (fg. 65) Ci si può fermare già qui per segnalare un ulteriore errore commesso dal Tribunale: non esistono precedenti di esecuzione in Italia di decisioni della CPI; a che cosa si riferisce il ‘sempre’, se questo per l’Italia è il primo caso? L’ampio ricorso a “dottrina” anonima – e non già, come dovrebbe accadere, a una giurisprudenza consolidata e non datata -, avviene anche oltre (fg. 75): su una citazione di essa — anche qui in forma anonima — viene alla fine del documento fondata la responsabilità del ministro della Giustizia e negata legittimità ai decreti di espulsione del ministro deIl’Interno. Una giustizia ordinaria, non dedicata a ministri ed esponenti del Governo, non arriva mai a tanto!

Il tribunale dei ministri va avanti a sostenere questa tesi, parlando dei rapporti fra CPI e Interpol, che non hanno alcun rilievo nella vicenda: ma rileva per rimarcare la confusione dello stesso tribunale nella identificazione delle differenze fra procedure oggettivamente diverse.

In linea con l’incoerenza che caratterizza l’intera domanda di autorizzazione a procedere appena poche pagine dopo (fg. 68 e 69, ma anche fg. 70 e 71) il tribunale riconosce come già dai Iavori preparatori della legge 237/2012 emerga con evidenza come la competenza esclusiva suII’arresto sia del ministro della Giustizia, mostra per questo di condividere la decisione della Corte di appello di Roma, ripudia l’interpretazione per analogia, perché — sottolinea — sarebbe in malam partem (e se in malam partem si porrebbe in contrasto col diritto internazionale e col diritto UE), esclude una interpretazione costituzionalmente orientata, e aggiunge che la specificità della procedura giustifica l’individuazione nella corte di appello di Roma della sola autorità giudiziaria chiamata a pronunciarsi (l’applicazione delle norme ordinarie sulla estradizione avrebbe invece comportato la competenza del luogo dell’arresto, nella specie la corte di appello di Torino).

Alla fine però il Tribunale conferma la propria linea di illogicità perché testualmente conclude: “la Iegge n. 237/2012, non disciplinando l’arresto della PG, lascia aperta e irrisolta la questione dell’individuazione delI’A.G. competente, che non potrebbe essere frutto di un’applicazione frazionata in parte della normativa codicistica, in parte di quella speciale”.

Ora, se valgono le considerazioni – che lo stesso tribunale riporta – sulla specificità della procedura in questione, sulla inappropriatezza dell’arresto operato dalla polizia giudiziaria a Torino, e sulla piena titolarità dell’avvio del procedimento in capo al ministro della Giustizia, anche con riferimento all’arresto, qual è l’appunto rivolto allo stesso ministro (e indirettamente al suo capo di gabinetto), e agli altri due componenti del Governo chiamati in causa? Che cosa si rimprovera loro, quando l’arresto è l’evidente frutto di una confusione fra procedure diverse?

Qui (fg. 73 ss) il tribunale si smarrisce, opera considerazioni de jure condendo, imputa al ministro Nordio di non essersi avvalso di una disciplina — la Convenzione sulla tortura — che non ha alcuna attinenza formale con la nostra vicenda, tanto che neanche la CPI l’ha mai evocata, e infine nega al governo la discrezionalità pur formalmente ed espressamente prevista dalla legge 237/2012.

Dunque, l’esistenza di un potere discrezionale in capo al Ministro della Giustizia — radicato dall’art. 1 della l. 237/2012 nella necessità che la cooperazione con la Corte penale internazionale “avvenga sempre e comunque nel rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano” — viene inspiegabilmente esclusa dal Tribunale.

Questa conclusione rappresenta il vizio genetico deIl’accusa in ordine all’ipotesi di omissione d’atti d’ufficio.

Il Tribunale, oltre a svalutare con motivazione del tutto anodina la valenza dell’art. 2 della I. 237/20 12 che sancisce, in materia di cooperazione con la Corte Penale Internazionale, le “attribuzioni del ministro della Giustizia”, richiama impropriamente il comma 4 dell’art. 90 dello Statuto per sostenere che il ministro non avesse alcuna discrezionalità nell’ipotesi di richieste concorrenti.

Ed invero, il Collegio non si avvede che la norma evocata è del tutto inconferente al caso che ci occupa: essa si applica soltanto alle ipotesi in cui la Corte abbia preliminarmente giudicato l’ammissibilità del caso, condizione assente in relazione alla vicenda di AlMasri, come emerge espressamente dalla lettura dei parr. 12 e 13 del mandato di arresto.

L’errore è determinante atteso che l’assenza di una decisione preliminare suIl’ammissibilità del caso da parte della Corte impone l’applicazione dei commi 5 e 6 dell’art. 90 in cui vengono enucleati i criteri che guidano l’esercizio del potere discrezionale del ministro nella scelta della richiesta cui dare precedenza. Al riguardo, è previsto che Io Stato richiesto debba tenere “conto di tutte le considerazioni rilevanti, in modo particolare: a) dell’ordine cronologico delle richieste; b) degli interessi dello Stato richiedente, in modo particolare, se del caso, del fatto che il reato è stato commesso sul suo territorio e della nazionalità delle vittime e della persona reclamata; c) della possibilità che lo Stato richiedente proceda in un secondo tempo a consegnare la persona alla Corte”.

8. Al di là delle incoerenze e delle contraddizioni, l’interrogativo a cui rispondere è il seguente: il tribunale impiega decine di pagine di argomentazioni, percorrendo l’impervia strada delI’anaIogia in materia penale, salvo poi a ripensarci, e poi ancora a riprenderla; e si vuol pretendere che nelle poche ore intercorse fra l’arresto di AlMasri e la sua scarcerazione da parte della corte di appello di Roma, gli esponenti del governo più direttamente interessati dovessero assecondare una prospettiva chiara e indiscutibile verso la convalida dell’arresto del soggetto? Ammesso che sia plausibile la confusa descrizione delle tesi a favore e di quelle contro la convalida esposte dal tribunale, essa indica al più una vicenda controversa e aperta. Agli indagati vengono contestati reati gravi, che esigono il dolo, cioè la chiara consapevolezza che la procedura della CPI dovesse avere, nonostante tutto, un seguito obbligato, e i ministri e il sottosegretario avrebbero volontariamente disatteso questa chiarezza di quadro. La lettura del provvedimento del tribunale dimostra esattamente il contrario!

È pieno di inesattezze anche il passaggio col quale il tribunale liquida la concomitante richiesta di estradizione proveniente dalla Libia. Il collegio sottolinea che l’istanza libica è stata protocollata il 22 gennaio, quando AlMasri era già stato espulso verso la Libia, e quindi era irrilevante: già questo non è condivisibile, perché — come Io stesso tribunale ha attestato — la notizia della estradizione domandata dalla Libia era pervenuta in tempo utile, il 20 precedente, e proprio per questo era stata considerata. Né rileva che non contenesse allegati, perché è raro che una estradizione si avvii con la documentazione già pronta e completa, potendo sempre essere integrata. E non rileva neanche che alla data del 31 marzo 2025 al direttore di AISE non risultassero iniziative giudiziarie in Libia contro AlMasri: il provvedimento del tribunale dei ministri è di inizio agosto, nessun ulteriore accertamento è stato svolto.

In realtà, anche ai fini della valutazione delle due richieste, quella della CPI e quella libica, il problema Io ha determinato l’avvenuto arresto di AlMasri, che ha fatto decorrere i termini stretti per la convalida. Se, invece di far pervenire in tutta fretta la notizia della presenza in Italia alla polizia giudiziaria nella notte fra sabato 18 e domenica 19 gennaio, a poche ore dal confezionamento del mandato di arresto, si fosse seguita la via maestra della comunicazione diretta al ministro della Giustizia, questi avrebbe avuto tutto il tempo per operare le necessarie verifiche, e comunque un tempo superiore alle 48 ore previste per la convalida dell’arresto.

9. Il massimo deIl’acume è espresso dal tribunale a proposito dei decreti di espulsione disposto dal ministro Piantedosi e del peculato posto in prima battuta a carico del sottosegretario Mantovano: contestazioni sulle quali il Procuratore della Repubblica di Roma aveva espresso parere per l’archiviazione. Sui decreti di espulsione, il collegio premette che il giudice non può sostituire la propria discrezionalità a quella del ministro dell’Interno in ordine al relativo esercizio nelle valutazioni di pericolosità di un soggetto. Ma poi fa esattamente quello che dice di non voler fare: nel senso che identifica i decreti di espulsione come il mezzo adoperato per commettere il favoreggiamento. Che è come dire: non esercito il sindacato giudiziario sui decreti, perché i decreti stessi costituiscono reato. E questo non è sindacato?

Ora, un decreto di espulsione si basa su una valutazione di pericolosità. AlMasri era o non era pericoloso all’atto della decisione del ministro dell’Interno? Il tribunale non risponde al quesito, non svolge alcun esame incidentale di illegittimità, non affronta il tema se Piantedosi ha ecceduto nell’esercizio del suo potere, o Io ha adoperato in modo sviato: in ossequio al pregiudizio che è l’elemento di continuità dell’intera motivazione, esso marchia di illiceità i decreti, perché in tal modo AlMasri viene allontanato daIl’ItaIia. È un processo alle intenzioni, che prescinde dall’esame dell’atto in sé.

Si parla di decreti, non di decreto, di espulsione, perché il tribunale adopera il plurale. Infatti, ad accrescere la confusione e l’incuria della domanda di autorizzazione, il collegio esamina lungamente pure le espulsioni degli altri tre cittadini libici, trovati insieme con AlMasri, per contestarne la fondatezza (fg. 34). È vero che ogni pagina di questo provvedimento costituisce una palese violazione delle garanzie difensive, ma la contestazione di favoreggiamento e di peculato attiene esclusivamente alla posizione di AlMasri: gli altri tre sono fuori imputazione. La procedura penale seguita dal tribunale dei ministri di Roma impone di difendersi anche da quanto non costituisce oggetto di accusa espressa?

Si parlava di acume, probabilmente esaltato dalla evidente mancanza di esperienza che il tribunale dei ministri ha mostrato di possedere in queste materie. Non ha necessità di commento il passaggio che motiva l’illegittimità del decreto di espulsione (fg. 79) col fatto che AlMasri si è reso pericoloso per fatti commessi fuori dal territorio italiano, sì che la sua presenza in Italia per questa ragione non comporterebbe un pericolo per la sicurezza e l’ordine pubblico. Col che si fissa il principio secondo cui nessun soggetto, neanche il peggiore terrorista, può essere espulso dalI’ItaIia se qui in Italia non ha commesso reati, o comunque non si è reso pericoloso. I magistrati di Roma scrivono esattamente questo!

In questa vicenda vi è una responsabilità collettiva, che ha risparmiato in modo esplicito la Presidente del Consiglio: il decreto di archiviazione recita che era stata sicuramente informata, ma aggiunge che non è ben chiaro quanto lo sia stata, ai fini delle sue valutazioni (è superfluo ogni commento). È altresì oscura la ragione per la quale, per quel che si evince dal provvedimento, la posizione del capo di gabinetto Bartolozzi non dovrebbe, pure, essere sottoposta alla valutazione della Giunta in quanto coimputato ‘laico’.

10. Vi è una parte che riguarda più direttamente il sottosegretario Mantovano, ed è quella del volo di Stato, nella specie un volo CAI, predisposto su sua indicazione per rendere effettiva e celere l’espulsione di AlMasri. Il tribunale dapprima esercita una sorte di sindacato sulla reperibilità alternativa di voli di linea, poi effettua una virata e riprende pari pari l’argomento adoperato per qualificare illecita l’espulsione disposta dal ministro dell’Interno.

Non è chiaro quanto il collegio abbia effettiva cognizione della disciplina dei voli di Stato: qualche dubbio è legittimo, poiché all’inizio esso ha chiesto notizie sul volo CAI alI’Aeronautica militare, che non c’entra nulla, e che tuttavia ha informato della richiesta la Presidenza del Consiglio. L’ufficio del sottosegretario ha subito inviato al tribunale una nota esplicativa.

Vanno evidenziati tre aspetti:

  1. con frequenza Mantovano autorizza voli di Stato, non soltanto CAI, per la consegna di detenuti stranieri nelle Nazioni di origine, e anche per garantire espulsioni di soggetti a elevato grado di pericolosità. Non è dato comprendere quanto il tribunale sappia che queste persone sono accompagnate da poliziotti armati (per essere pronti a contenere violenze o resistenze), che più d’una compagnia aerea non permette che uomini armati salgano a bordo dei propri aeromobili, che comunque il volo deve avvenire in condizioni di sicurezza, e tutto ciò sconsiglia la commistione coi passeggeri ordinari. AI di là della consapevolezza del tribunale, è da escludere che prima di autorizzare questa tipologia di voli di Stato il sottosegretario debba effettuare Io screening dei voli di linea sulla tratta interessata, allo scopo di usarli in alternativa. Se poi la Giunta ritenesse per assurdo che l’uso per questo fine del volo di Stato rappresenti peculato, l’effetto sarebbe la cessazione della cooperazione giudiziaria e di polizia, perché certi trasferimenti sui voli di linea sono oggettivamente impossibili;
  2. il tribunale ha identificato il peculato nell’uso del volo CAI per una finalità illecita, cioè per commettere il reato di favoreggiamento, perfezionando un disegno criminoso — così spiega il tribunale —, che è passato dalla omessa richiesta di arresto da parte del ministro della Giustizia e dalla espulsione disposta dal ministro deIl’Interno. La condotta propria del peculato è descritta dal codice penale come l’appropriazione da parte del pubblico ufficiale di denaro o di una cosa mobile altrui: di che cosa Mantovano si sarebbe appropriato? Il tribunale (fg. 85) parla dell’utilizzo di un bene pubblico ‘per finalità personali’: e quali sarebbero?
  3. l’eventuale autodenuncia, con conseguente estensione degli episodi di ipotetico peculato a carico di Mantovano non potrebbe non allargarsi anche ai provvedimenti di autorizzazione ai voli di Stato rilasciati da coloro che lo hanno preceduto nelI’incarico che egli svolge da ottobre 2022, perché andrebbe verificato ogni volo non giustificato da alcuna legge. La richiesta di archiviazione per l’imputazione di peculato da parte del Procuratore della Repubblica di Roma mostra gli evidenti rischi degli esiti cui condurrebbe la sequela della logica del Tribunale.

11. Resta nel dubbio se Mantovano, oltre ad autodenunciarsi per la periodica autorizzazione dei voli di Stato finalizzati alI’accompagnamento di detenuti e di espulsi, non debba passare daII’autodenuncia alla chiamata in correità del ministro della Giustizia, per la sequela di atti che ha portato alla liberazione della giornalista Cecilia Sala: anche in questo caso il ministro della Giustizia non ha esercitato il potere di arrestare un cittadino iraniano a seguito di un mandato internazionale, e anche in questo caso vi è stato un uso, addirittura in doppio, dei voli di Stato, per riportare la giornalista in Italia e per accompagnare il cittadino iraniano Abedini a Teheran, una volta rimesso in libertà dalla corte di appello di Milano dopo la decisione di Nordio. Nessun p.m. o tribunale dei ministri ne ha chiesto conto al Governo: perché questa disparità? Nell’iter logico seguito dal Tribunale di Roma sull’uso del volo di Stato, come il decreto di espulsione, anch’esso ruota attorno all’aver costituito il mezzo per sottrarre AlMasri alla giurisdizione della Corte di Giustizia; quindi vi è il peculato perché ci è stato il favoreggiamento. È allora necessario soffermarsi su questo punto, che diventa decisivo ai fini della decisione della Giunta. Il tribunale fa stato (fg. 86) che nella memoria difensiva del 25 febbraio 2025 gli indagati avevamo menzionato i rischi che fin da subito l’intelligence aveva rappresentato al Governo a proposito di ritorsioni verso cittadini e interessi italiani presenti in quel momento in Libia. Fa specie che il collegio precisi che tale menzione sia stata fatta per la prima volta in tale occasione: è appena un mese dopo l’iscrizione nel registro degli indagati! Fa specie che sottolinei che i ministri dell’Interno e della Giustizia non ne avessero parlato nell’informativa alle Camere del 5 febbraio: ancora una volta un atto parlamentare viene utilizzato contro chi lo ha reso. Il tema è stato ripreso con la memoria depositata il 30 luglio, che richiama l’art. 25 del Responsability of States for internationally Wrongful Acts del 2001 della International Law Commission delle Nazioni Unite, il cui art. 25 recita testualmente: “Lo stato di necessità non può essere invocato come causa di esclusione della illiceità di un atto non conforme a un obbligo internazionale di quello Stato, a meno che l’atto: a) è l’unico mezzo per lo Stato per salvaguardare un interesse essenziale a fronte di un pericolo grave e imminente (…)”.

La situazione di fatto in Libia e i rischi per i nostri connazionali lì presenti è stata rappresentata al tribunale dal direttore di AISE, il gen. Caravelli, il quale ha riferito — si riporta dal provvedimento dello stesso tribunale (fg. 32 s.) — “di aver ricevuto tra il 19 e il 20 gennaio 2025 informazioni da sue fonti a Tripoli e da contatti istituzionali (…) in merito a una certa agitazione che stava montando a seguito del fermo” di AlMasri. Continua la sintesi del tribunale “spiegava, quindi, di aver riferito, nel corso della riunione del giorno 19 (gennaio), che il generale AlMasri era un elemento di vertice della forza di deterrenza speciale denominata Rada Force, che (…) operava in quartieri nevralgici della capitale, compreso quello dove erano dislocate lo nostro Ambasciate e la residenze dell’Ambasciatore; inoltre aveva la responsabilità dell’aeroporto di Mitiga in Tripoli e gestiva il carcere speciale di detenzione sito nei pressi del predetto aeroporto. (…) non (aveva) ricevuto notizia di specifiche minacce di attentati o atti di rappresaglia nei confronti di cittadini italiani in Libia ma c’era molta agitazione ed indicatori di possibili manifestazioni o possibili ritorsioni nei confronti dei circa cinquecento cittadini italiani che in qualche maniera vivono a Tripoli o arrivano a Tripoli o in Libia, nonché nei confronti degli interessi italiani. (…) Quando alla natura delle ritorsioni — ricordando il precedente di Cecilia Sala arrestata in Iran — ipotizzava che la Rada Force, gestendo l’attività di polizia giudiziaria, avrebbe potuto effettuare dei “fermi” di nostri cittadini all’ingresso nel paese e sul territorio libico o perquisizioni negli uffici dell”ENI”.

Questa prospettazione, proveniente dal direttore delI’Agenzia esterna, la più qualificata a fornire informazioni aggiornate e a descrivere i rischi del trattenimento in Italia di AlMasri, ha orientato la scelta politica del governo, unitamente — e non in contraddizione — con le perplessità e le riserve sul mandato di arresto della CPI, condivise anche dai magistrati della corte di appello di Roma e a tutti i tecnici del ministero della Giustizia. (…)

13. Il tribunale dei Ministri ha intanto sovrapposta la propria valutazione politica a quella del governo. La sovrapposizione ha riguardato anzitutto il menzionato art. 25 dell’atto del 200 1 delle Nazioni Unite con l’art. 54 del codice penale italiano, che disciplina Io stato di necessità, come se si trattasse della medesima disposizione: una trasposizione inammissibile, perché la norma internazionale si riferisce alle scelte politiche degli Stati, la norma interna alle condotte di singole persone. Il risultato è la forzatura in una logica penalistica, e quindi soggettiva, di opzioni che, in quanto attengono, come è accaduto nella specie, alla sicurezza nazionale, non tollerano l’incasellamento codicistico.

Questa sovrapposizione di norme e di ambiti differenti spinge il tribunale a evocare e ad applicare nel caso di specie la giurisprudenza sullo stato di necessità: che tuttavia riguarda la relazione fra due (o più) persone, non la compromissione di interessi nazionali! Stretta la vicenda nelle maglie del codice penale, il collegio fa due affermazioni:

  1. sostiene che il timore evocato era generico e che non vi fosse alcun pericolo concreto e attuale. Nega pertanto valore al parallelismo col caso di Cecilia Sala, “già arrestata e posta in carcere in Iran (…) come ritorsione, questa sì concreta e attuale, all’arresto del cittadino iraniano operato in Italia, su mandato di arresto degli Stati Uniti” (fg. 87);
  2. aggiunge che “non è stata in alcun modo vagliata la possibilità di trovare soluzioni alternative, che, come dimostrato dai fatti successivi, quantomeno limitatamente ai paventati pericoli per le persone, erano in realtà percorribili, anche in tempi strettissimi” (fg. 87).

L’analisi della concretezza e della attualità del pericolo è stata fatta a poche ore dall’arresto di AlMasri, in riunioni cui hanno preso parte i vertici della sicurezza nazionale, e ha trovato conferma nelle settimane successive, alla stregua delle notizie fornite dall’agenzia di intelligence che lavora all’estero, e che in Libia ha canali informativi diretti e qualificati.

Ma il tribunale di Roma ritiene di saperne di più, e nega l’analogia col caso di Cecilia Sala, perché — dice — lì il pericolo c’era. È un singolare iter logico, che in taluni procedimenti viene seguito non soltanto a proposito dello stato di necessità, ma pure per l’adempimento del dovere, per la legittima difesa, per l’uso legittimo delle armi: per essere sicuri che sussistano gli estremi attuali e concreti di queste esimenti non è sufficiente che il poliziotto che svolge un servizio antirapina rischi di essere colpito dal rapinatore, che costui abbia un’arma carica e che lo stia puntando. È necessario che lo colpisca. Solo così è possibile ipotizzare la causa di giustificazione, senza tuttavia negare al poliziotto l’iscrizione nel registro degli indagati! Il collegio dei ministri pretende che il Governo ragionasse allo stesso modo.

Quanto alle soluzioni alternative, il tribunale non ha spiegato come sarebbe stato possibile, per evitare ritorsioni sui cinquecento italiani presenti in Libia nelle ore dell’arresto di AlMasri, farli rientrare tutti in Italia nel giro di mezza giornata: trovando all’istante i mezzi per farli convergere tutti all’aeroporto di Mitiga, controllato dalla Rada Force di cui il generale libico era al vertice, e confidando che sarebbe stato agevole organizzare, sempre in poche ore, un ponte aereo per il Ioro ritorno in Italia? Vi è difficoltà a leggere questo passaggio della domanda di autorizzazione, perché è veramente il più apodittico e irrazionale, soprattutto alla stregua di quanto accaduto il 15 maggio 2025, per consentire l’allontanamento dalla Tripolitania di 100 italiani; AISE (all…..) annota che “nel pieno della crisi e degli scontri armati, l’operazione è stata resa possibile soprattutto grazie al coordinamento e alfa protezione diretta assicurata dalla RADA”.

L’irrazionalità è figlia del pregiudizio e si accompagna con la pretesa di dettare legge in territori non propri, nella specie adoperando strumenti e categorie giudiziarie per sindacare atti di discrezionalità politica: che in quanto tali sono soggetti a confronto e a critica politica, come è sacrosanto che avvenga in democrazia, ma che non tollerano di essere qualificati, per non dire demonizzati, quale “disegno criminoso”.

Di questo evidente straripamento il tribunale alla fine è ben conscio, perché — altrettanto apoditticamente — per negare natura di atto politico alla scelta del Governo suIl’arresto di AlMasri non svolge alcuna propria considerazione, ma riporta un lungo brano di una sentenza della Cassazione — Sez. Unite civili del 2023. Ma il passaggio più significativo della sentenza citata lega il concetto di atto politico alla presenza di “due requisiti: – sotto il profilo soggettivo, l’atto deve provenire da un organo preposto all’indirizzo e alla direzione della cosa pubblica al massimo livello; – sotto il profilo oggettivo, l’atto deve essere libero nel fine perché riconducibile a scelte supreme dettate da criteri politici, deve concernere cioè, la costituzione, la salvaguardia e il funzionamento dei pubblici poteri nella loro organica struttura e nella loro coordinata applicazione”.

È proprio quello che è accaduto nelle giornate fra il 19 e il 21 gennaio 2025: l’atto (primo requisito) è stato concordato fra tutte le autorità politiche con competenza in materia al massimo livello, col coordinamento e con il vaglio — unica bussola, in un quadro giuridico incerto —, del perseguimento in modo coordinato della sicurezza di centinaia di nostri connazionali in Libia.

Ciò, ai sensi dell’art. 9 co. 3 l. cost. n. 1/1989, rende evidenti le ragioni di tutela di beni costituzionalmente rilevanti e al tempo stesso di preminente interesse pubblico avuti di mira. In particolare, la condotta seguita dal ministro Nordio — lungi daIl’integrare le fattispecie di omissione in atti di ufficio e di favoreggiamento – è stata motivata dal preminente interesse pubblico di garantire la corretta attuazione delle disposizioni della legge n. 237/2012 in quello che è stato il primo caso di concreta applicazione in Italia, in coerenza coi principi indicati all’art. 13 Cost. La condotta del ministro Piantedosi e del sottosegretario Mantovano — lungi dalI’integrare le fattispecie di favoreggiamento e di peculato — è stata motivata dal preminente interesse pubblico di salvaguardare la sicurezza nazionale, unitamente alla incolumità e alla libertà personale delle centinaia di cittadini italiani presenti in Tripolitania all’epoca dei fatti.

14. L’articolo 9, comma 3, della Legge Costituzionale n. 1/1989 richiede alla Camera competente di valutare se gli incolpati abbiano agito per “la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo”, congiuntamente al preliminare accertamento circa la natura ministeriale dell’ipotesi di reato contestata.

Nel caso di specie, al netto dei numerosissimi errori in fatto e in diritto contenuti nella relazione del Tribunale dei ministri, risulta evidente che i ministri e il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri abbiano agito non per finalità privatistiche, ma per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente   rilevante   (ossia   a   tutela della   libertà personale e delI’incoIumità dei cittadini italiani in Libia, artt. 13 e 32 Cost., nonché della sicurezza nazionale, art. 117, comma 2, Cost. lett. d) e comunque per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo (cioè per disinnescare seri e concreti rischi per le attività economiche strategiche di aziende italiane in Libia).

La rilevanza pubblica della questione apparve evidente già dopo l’arresto, come risulta dalle prime comunicazioni effettuate dal cons. Luigi Birritteri (“la questione manifesta inoltre una possibile valenza politica di non trascurabile entità trattandosi di questione inerente Io scenario Nord Africano”).

Quanto, poi, al decreto di espulsione e al conseguente utilizzo del volo di Stato, giova rammentare le circostanze che hanno indotto il ministro delI’Interno e il sottosegretario di Stato a procedere al rimpatrio immediato di AlMasri, dopo la sua liberazione.

A questo proposito si richiama il documento della intelligence nazionale (senza poter estrarre copia, essendo classificato ai sensi della Legge 3 agosto 2007, n. 124), da cui risulta che in merito all’evento era stato “attivato l’intero dispositivo informativo in Libia e, al riguardo, già emerge che la possibile permanenza sul territorio nazionale di Osama Njeem potrebbe generare gravi criticità per l’Italia, sia sul piano diplomatico e commerciale che in termini di sicurezza per i cittadini e le istituzioni italiane presenti in Libia”.

Nel documento in questione si precisa, inoltre, che “gli elementi raccolti nel corso di mirate interlocuzioni con le principali formazioni armate hanno evidenziato un concreto rischio di rappresaglie nei confronti della rappresentanza diplomatica italiana, del personale italiano presente a Tripoli e dei connazionali in transito presso l’aeroporto di Mitiga, dove la RADA Force mantiene una forte influenza in varie aree della capitale e delle zone limitrofe. In particolare, la RADA ha il controllo completo dell’aeroporto internazionale Tripoli-Mitiga, del carcere di Mitiga e dei principali siti sensibili della Capitale, nonché gestisce le attività doganali e navali del porto commerciale. lnoltre, controlla in modo capillare importanti e popolosi quartieri della città, tra cui anche quello dove insiste la CanceIleria della Rappresentanza italiana a Tripoli. Ha altresì contatti e aIleanze molto strette con altri organismi e/o formazioni armate responsabili della sicurezza di diverse aree costiere ad est di Tripoli (Sabratha e Zawyia) che hanno un ruolo fondamentale nel contrasto ai flussi migratori in partenza dalla Libia, e ove peraltro insiste l’importante sito Mellitah Oil & Gas da dove si sviluppa il gasdotto per l’Italia”.

Il prefetto Giovanni Caravelli, Direttore deII’AISE, sentito a sommarie informazioni dal Tribunale dei ministri il 31 marzo 2025, ha specificato, ancor più in dettaglio, le possibili ripercussioni in termini di sicurezza delle persone e di interessi politico economici derivanti daII’arresto di Njeem:

“[…j ricevevamo indicazioni che poteva configurarsi un pericolo per cittadini italiani (circa 500) presenti su tutto il territorio libico ed in particolare nella capitale (…)”

Il Direttore dell’AISE è stato ancora più esplicito allorquando il Tribunale dei ministri gli ha chiesto se a fronte della prospettazione di questi pericoli è stata vagliata la possibilità di adottare una condotta diversa :

“[…] bisognava tener conto di rimpatriare circa 500 cittadini italiani, il che avrebbe richiesto dei tempi funghi, eccedenti le 24 ore, inoltre le eventuali ritorsioni nella zona degli stabilimenti petroliferi nei pressi del confine con la Tunisia, avrebbero determinato un danno incontenibile

[…]

c’erano  informazioni  che qualora  AlMasri sarebbe stato arrestato e non sarebbe rientrato in Libia si sarebbero verificate delle ritorsioni nei confronti di siti e persone italiane” (si confrontino s.i.t. Prefetto Giovanni Caravelli, 31 marzo 2025).

Il prefetto Caravelli ha dunque confermato l’esistenza di indicatori di una minaccia “cogente” che fossero commessi atti contro cittadini italiani (non solo nei confronti del personale presente in Ambasciata) e contro interessi economici italiani strategici. È sufficiente considerare che la Rada esercita la propria influenza anche nell’area in cui insiste lo stabilimento di Mellitah, ove viene estratto il 9% del fabbisogno annuale di gas del nostro paese.

Si riteneva infatti che la Rada avrebbe potuto mettere in atto azioni ritorsive, operando fermi di polizia giudiziaria del tutto ingiustificati contro i cittadini italiani ovvero conducendo delle operazioni di ispezione o sequestro presso gli uffici dell’Eni a Tripoli.

Risultava impossibile ogni altra soluzione che potesse garantire, rapidamente, la sicurezza di tutti i cittadini italiani presenti nell’area in cui opera la Rada. Infatti, la tempistica necessaria ad individuarli e prelevarli dal territorio libico sarebbe stata del tutto incompatibile con la cogenza del pericolo, esponendoli a minacce o ritorsioni da parte della Forza Speciale di Deterrenza.

Si trattava dunque di intervenire preventivamente per impedire il ripetersi di situazioni analoghe a quelle che avevano condotto all’arresto della giornalista italiana Cecilia Sala da parte delle autorità iraniane.

D’altronde, la stessa relazione del Tribunale dei ministri nella parte in cui affronta il tema dello stato di necessità riconosce, comunque, che gli interessati hanno agito a tutela di interessi nazionali pur reputando ciò non sufficiente a configurare le scriminanti previste dal codice penale, in particolare quella prevista dall’art. 54 c. p. : ”la scriminonte di cui all’art. 54 c.p. presuppone il pericolo attuale di una danno grave alla persona e non è prospettabile a tutela di interessi economici per quanto asseritamente strategici, a differenza dell”art 25 che richiama un interesse essenziale dello Stato di più ampio spettro.”

È evidente dunque come i ministri e il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Nlinistri nel caso in esame abbiano agito non per finalità proprie, ma per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo, rilevante ai fini dell’applicazione dell’art. 9 l. Cost. n. 1/1989.

AI riguardo giova richiamare la giurisprudenza parlamentare secondo cui “l’art. 9, configura una esimente di natura particolare, che ha molti punti di contatto con quella prevista dall’art. 51 del codice penale, ma che da questa si differenzia per l’inclusione di una «discrezionalità politica», diversa dall”«esercizio di un diritto» o dalI’«adempimento di un dovere»: di modo che il suo riconoscimento è affidato appunto alla Camera politica, e la sua sussistenza deve essere affermata quando, e solamente quando, ha i connotati descritti daIl”art. 92.

L’obiettivo dell’azione, rivolto, da un lato, alla tutela della libertà personale e dell’incoIumità dei cittadini italiani all’estero e di quelli presenti nelle sedi delle ambasciate, dall’altro, alla salvaguardia di interessi strategici nazionali quali quello deIl’approvvigionamento energetico, dimostra la diretta configurabilità della fattispecie di cui all’art. 9, comma 3, l. Cost. n. 1/1989. (…)

  1. Le pagine della domanda di autorizzazione, senza ulteriore precisazione, seguono la numerazione deII’AC doc. IV bis n. 1. ↩︎
  2. Relazione della Giunta delle Elezioni e delle Immunità Parlamentari del Senato della Repubblica (XIII Legislatura) sulla domanda di autorizzazione a procedere in giudizio ai sensi dell’art. 96 della Costituzione nei confronti del dott. Paolo Cirino Pomicino, nella sua qualità di Ministro del Bilancio e della Programmazione Economica pro tempore, nonché del sig. Francesco Vittorio Ambrosio. ↩︎
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