Alla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che ha condannato l’Italia per aver tolto bambino a una coppia che lo aveva avuto da madre surrogata in Russia, facciamo seguire oggi – in esclusiva per Sì Jus – il commento della dott.ssa Marianna Orlandi, dell’Università di Padova.
“Compravendita” di figli all’estero? Per Strasburgo è “famiglia” e gli acquirenti vanno risarciti.
Con sentenza del 27 gennaio 2015 (ricorso n. 25358/12), la Corte di Strasburgo ha inferto l’ennesimo violento colpo alla famiglia. Se il Governo italiano non chiedesse il riesame della decisione alla Grande Camera e se quest’ultima non dovesse esprimersi in modo difforme, è probabile che anche il divieto nazionale di maternità surrogata sia presto destinato, se non a scomparire del tutto, a divenire lettera morta. Il mercato dei bambini, e delle gestanti pronte a partorirli, conoscerebbe forse ancora dei limiti, ma soltanto geografici e di agevolissimo superamento. La pronuncia in commento, invero, non soltanto rimarca, ancora una volta, la “fluidità” di quel concetto di “famiglia” che l’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo tutelerebbe. Essa fa altresì dipendere, e di qui la sua intrinseca e potente gravità, il risarcimento che l’Italia dovrà versare ai coniugi, ricorsi all’estero alla pratica vietata, da un preteso “miglior interesse del bambino”. Un interesse dietro al quale, invero, non si riesce a scorgere che lo strapotere del dio denaro, capace di rendere legittima ogni cosa.
In sintesi estrema, questo lo svolgersi dei fatti. Due coniugi molisani, DP e GC, che in Italia già erano ricorsi, senza successo, alla fecondazione artificiale, decisero, forse già nel 2008, di “ottenere” il loro bebè in Russia, dove le norme nazionali ammettono la pratica dell’utero in affitto. Si rivolsero, quindi, alla società Rosjurconsulting che, dietro lauto compenso, istruì la pratica. Il 27 febbraio 2011 il bambino venne alla luce dalla donna che lo aveva portato in grembo e che alla sua nascita sottoscrisse una dichiarazione in cui affermava di volerlo lasciare alla coppia. Conformemente al diritto russo, i due venivano registrati come genitori del neonato. Il certificato di nascita non menzionava le circostanze del parto e la ricorrente ottenne agilmente dal Consolato italiano a Mosca i documenti che le consentirono di riportare il bimbo in Italia. Al suo rientro, tuttavia, il comune di Colletorto, ove i due risiedono, rifiutò di riconoscere validità all’atto straniero. Non tanto, o non solo, perché la pratica della “gestation pour autrui” fosse vietata in Italia (e lo sia ancora); quanto perché, al contempo, era sopraggiunta una nota dello stesso Consolato, indicante la falsità del contenuto dell’atto di cui si chiedeva la registrazione.
A Mosca, la Sig.ra GC aveva presentato documenti in cui, diversamente da quanto affermato dalla madre russa partoriente, il bambino era detto essere “geneticamente” figlio della coppia; aggettivo che, invece, non ricorreva nella versione originale della dichiarazione. Chiamata a deporre avanti al Tribunale dei minori, la “madre” rivelava le circostanze di quel parto. Il figlio, a suo dire, era nato da embrioni donati da altra donna e impiantati, poi, nella madre “surrogata”, ma pur sempre fecondati dal marito. Così, mentre il Tribunale sospendeva, con effetto immediato ex art. 10, co. 3, l. 184/1983, l’autorità parentale dei coniugi, in ciò conformandosi anche a un ordine del Ministero dell’Interno, il test del DNA ordinato dalla stessa Autorità rivelava che nemmeno il Sig. DP era padre genetico del bambino. Pertanto, nonostante i due avessero dichiarato, al riguardo, la loro buona fede, restava il dato oggettivo dell’assenza di un qualsivoglia legame con il nuovo nato e dunque l’insussistenza, secondo la corte italiana, di un interesse del piccolo a restare con loro. L’asserita buonafede, del resto, non poté nemmeno impedire l’accusa d’aver reso false dichiarazioni ad un pubblico ufficiale, nonché di aver violato le procedure previste per l’adozione internazionale. La coppia, infatti, era “in attesa” di adozione sin dal 2006, ma, per la penuria di bambini in stato di adottabilità, nessun bambino era stato loro affidato.
Il Tribunale di Campobasso, pertanto, dopo aver dichiarato lo “stato di abbandono” del bambino, lo affidava prima a una casa famiglia e poi, finalmente, nel 2013, a una coppia di genitori adottivi, con i quali il piccolo vive a tutt’oggi. Perché non ai coniugi PC, che ne avevano chiesto l’adozione? In sintesi estrema: perché le uniche certezze di cui disponeva la corte nazionale erano, da un lato, l’identità della “madre affittata”, non biologica, che aveva rinunciato al figlio; dall’altro, che i parenti genetici del piccolo restavano ignoti. Non si poteva nemmeno parlare, dunque, di maternità surrogata. Il Sig. e la Sig.ra PC avevano agito illegalmente, aggirando il divieto nazionale di surrogazione e pagando una consistente somma di denaro (49.000 Euro) per “ottenere” (comprare?) un figlio all’estero. Avevano tentato di far credere alle autorità nazionali che il figlio fosse loro, mentendo e astrattamente violando anche l’art. 72 l. 184/1983, che prevede la reclusione sino a un anno per chiunque non rispetti le procedure sull’adozione internazionale. Affidare loro il bambino sarebbe equivalso, in sostanza, a consacrare la legittimità di un agire palesemente illecito.
I coniugi ricorsero allora alla Corte europea dei diritti dell’uomo, nell’aprile 2012, lamentando la violazione, da parte dei giudici italiani, dell’art. 8 della Convenzione, tutelante il diritto al rispetto della vita privata e familiare. Con il giudizio in commento, quest’ultima ha accolto la loro doglianza, sia pur parzialmente, condannando l’Italia a un risarcimento di 30.000 euro complessivi a favore dei PC, a ristoro del danno morale da questi patito e derivante da un’ingiusta rottura dei rapporti di “famiglia di fatto” che ormai s’erano creati tra loro e il bambino. In altre parole, i giudici italiani, applicando norme nazionali pienamente costituzionali e conformi a Convenzione, avrebbero violato, secondo Strasburgo, dei “diritti umani fondamentali”. “Quali?”- ci si chiede. Quello di delinquere impunemente?
E’ evidente come l’opinione maggioritaria della Corte europea non contenga una siffatta, esplicita affermazione. Essa perviene, tuttavia, al medesimo risultato. Citando i suoi stessi precedenti, che in tema di famiglia sono sempre più numerosi (e in ciò proseguendo una dinamica di “auto-legittimazione giurisprudenziale” che ormai da tempo spaventa i giuristi più accorti), la Corte ribadisce, in particolare, come meri rapporti di fatto bastino ad integrare quella “famiglia” contemplata dall’art. 8; e ritiene inevitabile, altresì, che la “convenzionale” definizione di famiglia s’attagli anche al caso in esame. A “creare” il vincolo meritevole di tutela sarebbero stati sufficienti, in definitiva, i sei mesi che i PC già avevano trascorso, sia pur illecitamente, con il bambino. Letteralmente: “À cet égard, elle relève que les requérants ont passé avec l’enfant les premières étapes importantes de sa jeune vie : six mois en Italie, à partir du troisième mois de vie de l’enfant. Avant cette période, la requérante avait déjà passé quelques semaines avec lui en Russie. Même si la période en tant que telle est relativement courte, la Cour estime que les requérants se sont comportés à l’égard de l’enfant comme des parents et conclut à l’existence d’une vie familiale de facto entre les requérants et l’enfant. Il s’ensuit que l’article 8 de la Convention s’applique en l’espèce.” Il bambino, pertanto, doveva restare nelle loro mani.
Ebbene, a prescindere dalla rilevanza, indubitabile, e qui fuori discussione, dei rapporti “di fatto”, quel che non può non sconvolgere è che, in base al citato ragionamento, anche un bambino che fosse stato “rapito” all’estero, o tenuto in ostaggio per sei mesi, potrebbe o dovrebbe definirsi “figlio” dei suoi stessi aguzzini. Anche a fronte di una tale situazione, infatti, il Tribunale dei minori non potrebbe, secondo la Corte, strappare il piccolo a chi su di esso esercitasse, senza troppi giri di parole, un potere di fatto.
Ad aggiungersi all’assurdo giuridico – e all’agghiacciante prospettiva che l’accoglimento di un simile principio inaugurerebbe – vi è l’atteggiamento poco logico serbato dalla Corte. All’Italia non si nega, infatti, il caro vecchio “margine d’apprezzamento”: il divieto di utero in affitto può permanere, così come quello di compravendita di embrioni o di adozione “a pagamento”. Il bambino non dovrà essere “restituito” ai Sigg. PC. “A cose fatte”, però, non c’è etica né ordinamento che tengano: i soldi spesi all’estero da chi voglia un figlio prevalgono su tutto, anche sulla legalità. In particolare, il sindacato dei giudizi nazionali sul merito dell’atto formato all’estero, benché ammesso e consentito per ragioni di ordine pubblico, nonché giustificato dal ricordato illecito penale in tema di adozione, avrebbe violato, secondo la Corte europea, il prevalente “migliore interesse del bambino”. Nonostante la falsità degli atti, l’esistenza del rapporto familiare, unitamente a tale ultimo interesse del minore, rendevano illegittima la decisione del Tribunale di dichiararlo in stato di abbandono, per poi avviare il regolare procedimento adottivo.
I fatti qui descritti, tuttavia, parrebbero dimostrare l’esatto contrario. La coppia molisana, infatti, ricorrendo a pratiche illegali, e per esse pagando una cifra rilevante, aveva appalesato il narcisismo implicito al proprio desiderio d’un figlio e, con esso, la radicale inidoneità ad essere famiglia adottiva. Soltanto il Tribunale di Campobasso, pertanto, aveva posto a fondamento della propria decisione una piena ed effettiva tutela del bambino e dei suoi diritti. Anch’esso si era preoccupato, espressamente, del tempo che il bimbo già aveva trascorso con la madre, ma, vista la sua brevità, e la tenerissima età dell’allora neonato, non lo aveva ritenuto atto a “controbilanciare” la gravità della condotta dei pretesi genitori. Del resto, anche il successivo ricorso alla Corte europea – e la delusione manifestata dai coniugi per una decisione che non ha loro restituito il “prodotto dell’affare”, ma soltanto concesso del denaro -, dice molto sulla natura del sentimento nutrito verso il bambino. Pretendere di strappare un minore straniero alla famiglia con cui vive ormai da due anni; un bimbo i cui genitori genetici sono, e resteranno forse per sempre, ignoti; e la cui madre “gestante”, dopo nove mesi trascorsi con lui, lo ha venduto ad altri, manifesta quel che al re Salomone s’era reso evidente anche senza ricorso alla prova del DNA.
I precedenti giurisprudenziali che l’ufficio stampa della Corte si è premurato di menzionare nel comunicato immediatamente successivo alla decisione, in cui il “migliore interesse del bambino” aveva ugualmente giustificato il riconoscimento, nonostante il divieto nazionale di surrogazione, del rapporto di filiazione, riguardano la Francia (Menesson/Labassee). Essi, tuttavia, si differenziano dal caso in esame e non per ragioni dettaglio: in entrambi, il padre era anche geneticamente legato al bambino. Nemmeno quest’aspetto, peraltro, sarebbe dirimente. Non v’è motivo, infatti, per ritenere che chi abbia pagato altri per partorire il proprio “figlio genetico” debba anche ed automaticamente essere ritenuto genitore capace di assumersi, con l’amore necessario, le responsabilità che da tale ruolo discendono.
Come emerge dall’opinione dissenziente dei giudici Raimondi e Spano, diversi sono i motivi per cui, dal punto di vista giuridico, la sentenza in esame non convince. Essi meriteranno, nei prossimi mesi, di essere studiati ed approfonditi con i dovuti tempo ed attenzione. Sin da subito, tuttavia, può rilevarsi quel che segue.
Non si comprende, innanzitutto, in che modo possa dirsi rispettata la sovranità di una nazione quando, ad aggirare l’ostacolo legale, sia sufficiente l’esborso di una somma di denaro. In secondo luogo, e ancor più gravemente, non si comprende come possa, la medesima Europa, da un lato, lottare alacremente contro l’orrendo fenomeno della tratta degli esseri umani e contro ogni forma di loro sfruttamento; e, dall’altro, riconoscere un danno morale a chi si sia immesso in un vero e proprio mercato di esseri umani. Un mercato che dal primo differisce solamente per il ceto sociale, o per le lauree, dei suoi carnefici.
In conclusione, ci si consenta di affermare quel che dovrebbe essere ovvio: non può essere una Corte nata per tutelare la dignità di ogni essere umano a legittimarne la più palese e disumana reificazione.
Marianna Orlandi
dottoranda in Diritto penale alla Facoltà di Giurisprudenza – Università di Padova e di Innsbruck