Ecco i perché della risposta negativa.
1. In una intervista comparsa il 1 luglio scorso sul quotidiano “La Repubblica” il prof. Giuliano Amato, già presidente della Corte costituzionale, ha sostenuto che, fatta eccezione per il caso di nascita derivante da “maternità surrogata” (il ricorso alla quale, com’è noto, in Italia ed in numerosi altri paesi è previsto come reato), nulla impedirebbe, a livello costituzionale, che venisse riconosciuta, per legge, la piena genitorialità di entrambi i componenti di una coppia “omoaffettiva” i quali abbiano fatto ricorso, per ottenere la nascita di un figlio, alla fecondazione eterologa, ora consentita, in Italia, soltanto a coppie formate da soggetti di sesso diverso. In sostanza, si tratterebbe di far comparire, nell’atto di nascita, come genitori, accanto a quello che ha fornito il “materiale biologico” utilizzato per la fecondazione eterologa, anche quello c.d. “intenzionale”, che si è limitato ad esprimere il proprio consenso all’utilizzazione di quel materiale, nella prospettiva, però, di considerare e trattare come figlio anche proprio quello che, a seguito della fecondazione eterologa, sarebbe poi nato. A sostegno di tale posizione si richiama il noto ed indiscusso principio secondo cui, in materia familiare, la “stella polare” (per così dire) alla quale deve farsi riferimento tanto nella legislazione quanto nella prassi applicativa, è quella costituita dal “miglior interesse” di chi, in un modo o nell’altro, viene messo al mondo. Principio, questo, che, in effetti, risulta solennemente affermato in numerose Convenzioni internazionali, tra le quali, in particolare, la Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989, resa esecutiva in Italia con legge n. 176/1991 (all’art.3) e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, o “Carta di Nizza” (all’art. 24). E, nella visione del prof. Amato e di quanti condividono la sua posizione, il “miglior interesse” del figlio nato da fecondazione eterologa decisa nell’ambito di una coppia “omoaffettiva” sarebbe indubbiamente quello di vedersi riconosciuta la piena genitorialità di entrambi i componenti di detta coppia. Ciò nel chiaro – ancorchè inespresso – presupposto che avere due genitori, anche se dello stesso sesso, sia sempre e comunque meglio che averne uno solo.
2. Ma è proprio a partire da tale presupposto che l’intera costruzione logico-giuridica finora sommariamente illustrata inizia a mostrare le sue crepe. Non sempre, infatti, il risultare ufficialmente figlio di entrambi i genitori, anche nell’ambito della genitorialità eterosessuale, è da ritenersi per ciò solo rispondente all’interesse del minore. Basti ricordare, al riguardo, che proprio la Corte costituzionale, con la sentenza n. 341 del 1990, ebbe a dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 274 cod. civ., nella parte in cui non prevedeva che l’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità promossa dal genitore esercente la potestà su di un minore degli anni 16 nei confronti dell’altro (presunto) genitore fosse ammessa solo se “ritenuta dal giudice rispondente all’interesse del figlio”; interesse che, quindi, non poteva darsi per automaticamente scontato. E anche nel caso di un minore degli anni 14 (originariamente degli anni 16) già riconosciuto da uno solo dei genitori, il riconoscimento da parte dell’altro genitore può avvenire, in base all’art. 250 cod. civ., soltanto se, a fronte dell’eventuale opposizione da parte del primo, il giudice lo trovi effettivamente rispondente all’interesse del minore. Se, dunque, anche nel caso di genitorialità eterosessuale, non è sempre detto che il riconoscimento da parte di entrambi i genitori sia nel “miglior interesse” del minore, a maggior ragione deve ritenersi che ciò valga anche nel caso in cui trattisi di genitorialità da attribuirsi a quello, fra i due “partners” di una coppia omosessuale, che, a differenza dell’altro, non ha neppure un rapporto biologico con il preteso figlio; rapporto che, invece, si presume esistente per entrambi i genitori in una coppia eterosessuale.
D’altra parte, è stata ancora la Corte costituzionale ad affermare (si vedano, in particolare, le sentenze nn. 221/2019 e 230/2020), che non può considerarsi, di per sé, “arbitraria ed irrazionale” l’idea che «una famiglia ad instar naturae – due genitori, di sesso diverso, entrambi viventi e in età potenzialmente fertile – rappresenti, in linea di principio, il “luogo” più idoneo per accogliere e crescere il nuovo nato». Il che significa, in buona sostanza, che, anche nella visione della Corte, è quanto meno ammissibile ritenere che il “miglior interesse” del minore sia quello di avere, appunto, una famiglia rispondente al modello di società naturale scolpito in Costituzione; modello al quale non può in alcun modo ritenersi che sia “sic et simpliciter”, assimilabile quello costituito dalla “famiglia” omogenitoriale. Anzi, dal momento che tale modello si discosta dall’altro non su aspetti marginali, ma su un punto essenziale, che è quello della diversità di sesso dei genitori, appare logico desumerne che esso sia da considerare come radicalmente contrario a quell’interesse. Del resto, se così non fosse, la Corte costituzionale, nel dichiarare, con le sentenze nn. 162/2014 e 96/2015, la parziale incostituzionalità degli artt. 4,9 e 12 della legge n. 40/2004 sulla procreazione assistita, nella parte in cui vietavano in assoluto il ricorso alla fecondazione eterologa, senza escludere dal divieto, in presenza di determinate condizioni, le coppie eterosessuali, non avrebbe avuto ragione di limitare solo a queste ultime l’operatività dell’esclusione e, quindi, la possibilità di ricorrere alla suddetta pratica; possibilità che, non a caso, è stata subordinata alla riscontrata esistenza di “una patologia che sia causa di sterilità o infertilità assolute ed irreversibili” ovvero alla circostanza che si tratti di “coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili, rispondenti ai criteri di gravità di cui all’art. 6, comma 1, lettera b), della legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza), accertate da apposite strutture pubbliche”. Anche dalla puntuale e precisa specificazione di tali condizioni si comprende, quindi, come la Corte abbia volutamente inteso escludere ogni rilevanza costituzionale alle eventuali aspettative di genitorialità congiunta da parte di coppie omosessuali che, pure, volendo, nulla le avrebbe impedito di prendere in considerazione, per giungere quindi ad una diversa e più ampia declaratoria di illegittimità costituzionale delle norme in questione.
Di qui una prima conclusione, e cioè che una legge in base alla quale dovesse riconoscersi la genitorialità congiunta dei componenti di una coppia omosessuale rispetto al figlio concepito mediante ricorso alle tecniche della fecondazione eterologa, non sarebbe certo in sintonia con le richiamate pronunce della Corte costituzionale ma si porrebbe, piuttosto, con esse in stridente contrasto.
3. Una legge del tipo anzidetto, stando a quanto si desume dalle parole di Giuliano Amato, dovrebbe peraltro applicarsi soltanto al caso della coppia omosessuale che abbia fatto ricorso alla fecondazione eterologa, rimanendo invece escluso quello in cui abba fatto ricorso alla c.d. “maternità surrogata”. Ciò in adesione, tra l’altro, a quanto ritenuto dalla Corte costituzionale che, con la sentenza n. 33/2021, ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 6, della legge n. 40/2004 (che prevede come reato la suddetta pratica) e di altre norme ad esso collegate, «nella parte in cui non consentono, secondo l’interpretazione attuale del diritto vivente, che possa essere riconosciuto e dichiarato esecutivo, per contrasto con l’ordine pubblico, il provvedimento giudiziario straniero relativo all’inserimento nell’atto di stato civile di un minore procreato con le modalità della gestione per altri (altrimenti detta “maternità surrogata”) del c.d. genitore d’intenzione non biologico» (questi i termini in cui la questione era stata sollevata dalla prima sezione civile della Corte di cassazione). A sostegno di tale decisione la Corte, in sintesi, ha osservato che, da una parte, deve ritenersi meritevole di tutela “l’interesse del minore al riconoscimento giuridico del suo rapporto con entrambi i componenti della coppia che non solo ne abbiano voluto la nascita in un Paese estero in conformità alla lex loci, ma che lo abbiano poi accudito esercitando di fatto la responsabilità genitoriale”; dall’altra, che una tale tutela, nel caso di nascita da “maternità surrogata”, dovrà “essere assicurata attraverso un procedimento di adozione effettivo e celere, che riconosca la pienezza del legame di filiazione tra adottante e adottato, allorché ne sia stata accertata in concreto la corrispondenza agli interessi del bambino”; procedimento che può anche essere quello della c.d. “adozione in casi particolari”, previsto dall’art. 44, comma 1, lett. d), della legge n. 184/1983, da disciplinarsi, però – dice ancora la Corte – in modo da renderlo “più aderente alle peculiarità della situazione in esame”. Ciò in quanto (sempre secondo la pronuncia in discorso) la non riconoscibilità dell’atto straniero nel quale figurino, come genitori del bambino, entrambi i componenti della coppia omosessuale che abbia fatto ricorso alla pratica della “maternità surrogata”, trova una sua giustificazione in quella che viene definita la “legittima finalità di disincentivare il ricorso a questa pratica”. E analogo concetto risulta espresso nella sentenza n. 38162/2022 pronunciata dalle sezioni unite civili della Corte di cassazione, secondo cui la non riconoscibilità risponde soltanto all’intento, ritenuto legittimo, di “scoraggiare i cittadini dal ricorso all’estero ad un metodo di procreazione che l’Italia vieta nel suo territorio perché ritenuto lesivo di valori primari”.
A ben vedere, però, tutto il ragionamento si basa sul presupposto, chiaramente enunciato nella sentenza della Corte costituzionale e presente anche in quella delle sezioni unite della Cassazione, che anche il genitore c.d. “d’intenzione” si sia preso cura, unitamente a quello “biologico” del bambino, tanto da rendere configurabile l’interesse di quest’ultimo a vedersi riconosciuta, se non la genitorialità, quanto meno una forma di legame giuridicamente rilevante quale, appunto, quella derivante dall’adozione “in casi particolari”. Ma un tale presupposto sarebbe, all’evidenza, del tutto assente qualora, per legge, il rapporto di genitorialità “intenzionale” dovesse essere riconosciuto fin dal momento della nascita. E, d’altra parte, l’esistenza di un rapporto di genitorialità, quale che esso sia, non può che essere affermata con riferimento alla situazione esistente all’atto del concepimento (anche se, in ipotesi, riconosciuta ex post), e non mai con riferimento ad una situazione che si sia maturata in un tempo successivo. E’ quindi giocoforza ammettere che un’ipotetica legge che prevedesse l’automatica attribuzione della genitorialità anche al genitore “d’intenzione” non potrebbe farlo se non basandosi, appunto, su quanto già verificatosi all’atto del concepimento, e cioè soltanto sull’avvenuta prestazione del consenso all’utilizzazione del materiale biologico del “partner”, magari con l’aggiunta (per quanto possa valere) dell’impegno ad adempiere, di fatto, una volta avvenuta la nascita, ai doveri derivanti dalla genitorialità. Ciò comporterebbe, però, il dare per scontato che il “miglior interesse” del minore sarebbe appunto, in ogni caso, quello di vedersi riconoscere, come genitori, tanto quello “biologico” quanto quello “intenzionale”. Il che, oltre a non avere riscontro nella realtà (per le ragioni già illustrate in precedenza), renderebbe difficilmente giustificabile la mantenuta soccombenza di detto interesse rispetto a quello – quando la nascita sia avvenuta mediante ricorso alla vietata pratica della “maternità surrogata” – di “disincentivare” o “scoraggiare” (come si è visto) quanti vi ricorrono recandosi a tal fine nel territorio di Stati nei quali nei quali essa è consentita. Se è vero, infatti, che – come affermato dalla Corte costituzionale, sia pure ad altri fini, nella sentenza n. 272/2017 e ripreso, poi, in altre pronunce della stessa Corte e della Corte di cassazione, tra cui la già citata sentenza delle sezioni unite n. 38162/2022 – il divieto della suddetta pratica trova giustificazione nel fatto che essa “offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane”, è altrettanto vero che la produzione di tali effetti, quando il divieto venga violato, non è certo addebitabile al soggetto che, a seguito di detta violazione, sia stato messo al mondo. Una qualsiasi limitazione dei suoi diritti rispetto a quelli riconosciuti alla generalità dei nati a seguito di concepimento realizzato in tutti gli altri possibili modi equivarrebbe quindi ad attribuirgli le stigmate di quelli che una volta, ai tempi della deprecata “morale borghese”, si chiamavano “i figli della colpa”. Il che, per quanti si ritengono e vogliono accreditarsi come animati da spirito “progressista” dovrebbe costituire causa di un qualche imbarazzo.
Pietro Dubolino