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Con un’articolata pronuncia che il Centro Studi Livatino pone a disposizione dei propri lettori, ieri il 9° circuito della Corte d’Appello Federale ha rigettato il reclamo proposto dal Dipartimento di Giustizia contro la sospensiva concessa in primo grado sul provvedimento del Presidente USA che inibisce per 90 giorni l’accesso nel Paese alle persone provenienti da 7 Paesi. Quella che segue è una prima lettura ragionata per provvedimento.

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La pronuncia della Corte d’Appello federale sul reclamo proposto dall’amministrazione degli Stati Uniti viene dipinta (dai media anzitutto, prevalentemente critici nei confronti di Trump) come una vittoria a tutto campo del fronte – giudiziario e politico – che avversa il Presidente e/o il suo provvedimento, sebbene in realtà si tratti di una decisione solo in ordine alla sua efficacia esecutiva e non ai profili di merito. Tuttavia, considerato che l’ordine esecutivo del Presidente degli Stati Uniti d’America ha un’efficacia limitata a 90 giorni, è verosimile che i giudicati cautelari assorbiranno la questione senza che alcun Tribunale entri mai pienamente nel merito della questione.

La pronuncia, come detto emessa all’esito di uno scrutinio sommario del merito, contiene passaggi interessanti che, tuttavia, in questa sede è solo possibile sintetizzare.

Il collegio della Corte d’Appello, all’unanimità, ha ritenuto non sufficientemente dedotto né provato il fumus boni iuris (le probabilità di successo nella futura decisione sul merito) dell’amministrazione reclamante, la quale chiedeva una “sospensiva della sospensiva” e sulla quale dunque gravava l’onere della prova della sussistenza dei requisiti necessari per l’emissione di un provvedimento cautelare (di segno contrario al precedente di 1° grado).

Secondo la Corte, l’ordine esecutivo presidenziale non è sufficientemente motivato in ordine alla necessità delle misure ivi previste al fine di evitare un danno grave e irreparabile né fornisce prova che da alcuno di questi 7 Paesi sia provenuto o possa provenire un attacco terroristico.

Nel provvedimento, la Corte d’Appello tratta le questioni poste dalle parti, richiama i principi regolatori in materia di ingresso negli Stati Uniti e soprattutto le questioni in ordine alla “giustiziabilità” degli ordini esecutivi presidenziali, ovvero al loro controllo giudiziale di legittimità costituzionale (judicial review).

«Sebbene il potere giudiziario sia tenuto a rispettare (deference) e non travalicare i poteri presidenziali, vieppiù in tema di immigrazione e sicurezza nazionale, non è revocabile in dubbio che l’ordinamento giudiziario federale abbia l’autorità di vagliare la costituzionalità degli atti dell’esecutivo».

Il Dipartimento di Giustizia, infatti, aveva sostenuto il contrario, deducendo la ampia discrezionalità del potere presidenziale di disciplinare l’ingresso di alcune classi di stranieri. Il collegio sul punto, pur rilevando la assoluta novità della questione specifica, ha però affermato come nessuna pronuncia abbia mai messo in discussione la competenza del potere giudiziario a sindacare la legittimità costituzionale di un ordine esecutivo in tema di immigrazione o sicurezza nazionale: «Sovente le Corti federali hanno scrutinato la costituzionalità – ed eventualmente invalidato – provvedimenti dell’esecutivo finalizzati alla tutela della sicurezza nazionale, anche in tempi di guerra».

Relativamente alla invocata (dagli Stati ricorrenti) violazione della due process clause (cardine dell’architettura costituzionale americana, in quanto guardiana della giustizia formale ma anche dei diritti sostanziali di libertà e proprietà), la Corte ha ritenuto che l’esecutivo non abbia provato la sussistenza dei requisiti necessari per la sospensione, in grado di appello, della efficacia esecutiva di un provvedimento (sempre cautelare) di primo grado.

Gli Stati ricorrenti avevano anche dedotto la violazione della establishment e della equal protection clause poichè, a loro dire, l’ordine esecutivo discriminerebbe le persone di fede musulmana. A tanto, però, essi dichiaravano di pervenire sulla base di affermazioni pubbliche del Presidente Trump (a mezzo twitter comprese), come rilevato dal Dipartimento di Giustizia che, dal canto suo, ha evidenziato come l’ordine esecutivo sia del tutto indifferente al fattore religioso. Sul punto il collegio della Corte d’Appello ha affermato che le eccezioni attengono al merito della controversia e in quella sede potranno essere valutate.

I giudici hanno poi assegnato alle parti un termine di due settimane per l’eventuale deposito di istanze di revisione.

Per il Procuratore Generale dello Stato di Washington (primo ricorrente) si è trattato di una vittoria piena: «E’ in gioco il futuro della costituzione. Nel momento in cui temo che i diritti delle persone nello stato di Washington siano messi in pericolo da atti di un altro potere (in questo caso quello presidenziale), è mio dovere impugnarli».

A questo punto è probabile che la questione finisca dinanzi alla Corte Suprema, sebbene, lo si ripete, per il momento solo per quanto attiene alla sospensione della efficacia esecutiva dell’ordine presidenziale, dunque con uno scrutinio sommario delle questioni di merito. Corte Suprema in questo momento priva di un giudice (e composta da 4 membri liberal, 3 conservatori e 1 incerto) in attesa della ratifica della nomina del conservatore Gorsuch fatta  da Trump.

Avv. Francesco Cavallo, PhD Università del Salento e Visiting Research Fellow Fordham University School of Law NY

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