Che fine ha fatto l’articolo 12 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, secondo cui “l’uomo e la donna hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia secondo le leggi nazionali che regolano l’esercizio di tale diritto”?
La domanda sorge spontanea, una volta al cospetto dell’orientamento assunto dalla Corte Europea per i diritti dell’uomo in tema di unioni civili fra persone dello stesso sesso e matrimonio.
Il chiodo –l’art. 12- è sempre lì; nessun lo ha abrogato. E’ il quadro, cioè la disciplina del matrimonio e della famiglia, che è stato portato via: miracoli dell’interpretazione creativa della Corte di Strasburgo, che ha stabilito che il diritto di sposarsi non va necessariamente limitato al matrimonio tra un uomo e una donna, bensì che ogni uomo ed ogni donna hanno il diritto di contrarre matrimonio, punto; senza, cioè, vincoli o limiti quanto al soggetto su cui ricada la scelta. E, quindi, crearsi una famiglia.
Non solo.
Nella sentenza Schalk and Kopf vs Austria, del 2010, la “Corte considera artificioso mantenere l’opinione secondo cui, a differenza della coppia eterosessuale, una coppia di partner dello stesso sesso non potrebbe godere di un diritto alla ‘vita familiare’ ai sensi dell’art. 8” della Convenzione.
Il rovesciamento dei piani è cosa fatta.
Non si tratta soltanto di considerare irrilevante il dato naturale; esso è addirittura un artificio, dal momento che la sola realtà che conta è il desiderio individuale, la mera affettività, condizione necessaria e sufficiente per attribuire il carattere di famiglia a qualsivoglia unione, a prescindere dagli orientamenti sessuali dei componenti (sentenza Gas and Dubois, 15 marzo 2012).
Non è un caso, dunque, se il nuovo chiodo cui viene appeso il quadro delle norme fondamentali in tema di matrimonio e famiglia sia stato individuato nell’articolo 8 della Convenzione, che sancisce il diritto alla privacy, al rispetto della vita privata e familiare, che, essendo disancorata dal fondamento naturale, non conosce confini.
La “nozione di ‘vita privata’ –avverte, infatti, la Corte- è un concetto elastico che comprende il diritto di autodeterminarsi ed elementi come i nomi, l’identità sessuale, l’orientamento sessuale e la vita sessuale, nonché il diritto al rispetto della decisione sia di avere che di non avere un figlio” (CEDU, sentenza S.H. e altri v. Austria, 1.4.2010).
Vi è da chiedersi se i giudici di Strasburgo hanno scatenato un processo oramai irreversibile e cogente per i legislatori degli Stati aderenti alla Convenzione.
In primo luogo, è bene chiarire che le pronunzie della Corte dei diritti umani non sono parificabili alle sentenze della Corte Costituzionale; esse non comportano l’immediato venir meno del diritto interno oggetto di censura né legittimano i giudici nazionali –checché possa sembrare da alcune recenti pronunzie in tema di trascrivibilità del matrimonio fra persone dello stesso sesso celebrato all’estero- a disapplicare le norme del proprio ordinamento.
Quanto alla posizione degli Stati con riferimento alla disciplina del matrimonio e della famiglia, va precisato che la stessa Corte di Strasburgo, dopo aver demolito il fondamento naturale della famiglia, si arresta dinanzi alla discrezionalità del legislatore nazionale, che non è affatto obbligato –sono parole dei giudici di Strasburgo- a riconoscere alle coppie omosessuali il diritto al matrimonio, trattandosi di situazioni giuridiche non equiparabili. La sentenza in questione risale al 2012 (Gas e Dubois vs Francia) e interveniva sull’assetto vigente in Francia, prima della legge Taubira. In sede di stesura del dispositivo, il membro francese della Corte, Jean Paul Costa, ritenne doveroso aggiungere una propria opinione concorrente, formulata nei termini di una vera e propria esortazione al legislatore del proprio paese a rivedere la struttura del matrimonio. E non si può dire che non sia stato accontentato con sollecitudine.
Nulla di irreversibile, dunque.
Quando, allora, il legislatore nazionale incappa nella tagliola del divieto di discriminazione sancito dai giudici di Strasburgo?
Ciò accade quando il legislatore nazionale decide di attribuire una qualsivoglia forma di riconoscimento alle unioni di fatto, attribuendo alle stesse, nella sostanza, lo stesso status del matrimonio fra un uomo e una donna. In tal caso, a situazioni analoghe deve corrispondere la stessa disciplina; pertanto, vanno riconosciuti ai conviventi gli stessi diritti dei coniugi; né può essere impedito alle persone dello stesso sesso di accedere alle unioni civili, con tutto ciò che ne consegue, anche in tema di affidamento dei minori (come statuito da ultimo, con la sentenza Vallianatos e altri v/s Grecia, del 7.11.2013).
In definitiva, l’introduzione delle unioni civili è il vero e proprio grimaldello per aprire le porte a Strasburgo, modificando radicalmente il quadro della disciplina nazionale in tema di famiglia.
E così, decretando per l’art. 29 della Costituzione la stessa fine dell’art. 12 della Convenzione dei diritti dell’uomo.