Prefazione al libro di Livio Podrecca, Cristianesimo e Costituzione, Cantagalli, 2025.
In un periodo storico che vede il mondo dilaniato da conflitti bellici, economici, culturali, politici e sociali, si avverte come non mai il bisogno di ripartire dalla stella polare della “dignità”, consacrata nell’art. 3 della Costituzione.
Nel disegnare l’architettura della Carta fondamentale, l’idea dei Costituenti era stata quella di muovere dalla posizione del singolo, inteso non in maniera individualistica ma, secondo la concezione cristiana, come persona umana che, progressivamente, viene in contatto con altri soggetti, con i quali costituire “formazioni sociali” fondate su valori condivisi. La più importante di queste comunità è la famiglia, correttamente definita “l’unità primaria”, il “codice sorgente della società” e “il luogo privilegiato, il cuore da cui ed in cui la persona nasce e si forma”.
Attraverso un costante parallelismo tra i valori assunti dalla Costituzione a contrassegno della forma di Stato e le tavole di Mosè, il testo di Livio Podrecca indaga il complesso tema del diritto naturale. L’obiettivo è quello di dimostrare che le posizioni giuridiche soggettive e i valori di libertà si sottraggono all’imperante relativismo etico e ai mutevoli orientamenti – come direbbe Zygmunt Bauman – di una “modernità liquida”, dominata dalla crisi del concetto di comunità e dallo sfrenato individualismo, che conduce – secondo un’arguta affermazione dell’Autore – “alla società dei desideri, al supermarket dei diritti”.
Quando si discute di diritto naturale, si fa riferimento a quel sistema di regole che ha per suo fondamento o per sua fonte la natura. Esso va inteso in un senso sia soggettivo, come nel caso del diritto alla vita, sia oggettivo, percorrendo – secondo una logica maritainiana – le inclinazioni ad agire per fare il bene ed evitare il male, verso le quali gli esseri umani naturalmente tendono. Ma poiché l’uomo, in virtù della sua libertà, potrebbe disattendere le proprie inclinazioni naturali, allora intervengono i principi del diritto naturale, in modo da rendere doverosi determinati comportamenti. Con ciò non si vuole ovviamente sostenere che il diritto naturale abbia uno spirito legalistico. Al contrario, parafrasando San Tommaso, il diritto naturale necessita di essere concretizzato in un’attività di positivizzazione che determini gli scopi lontani della convivenza sociale, sebbene, come affermava Aristotele, dappertutto esso possieda uguale forza, “indipendentemente dal fatto di essere riconosciuto o no”.
L’art. 2 della Carta fondamentale contiene un rinvio implicito al diritto naturale, nella parte in cui, prima di affermare il principio personalista e quello pluralista, proclama i diritti inviolabili dell’uomo come discendenti da un “riconoscimento” da parte della Repubblica. Quest’ultima, pertanto, si limita soltanto alla loro dichiarazione, considerandoli “patrimonio irretrattabile della personalità umana” (Corte cost., n. 252/1983) e, dunque, preesistenti rispetto alla Costituzione e allo stesso Stato. Con una formula riassuntiva, si può affermare che la tavola di valori di tale concezione contempla non già l’uomo in funzione dello Stato, ma lo Stato in funzione dell’uomo: uno Stato il cui potere deve arrestarsi di fronte al nucleo essenziale dei diritti naturali, così intangibili e non negoziabili da essere in grado di resistere a qualunque tentativo di revisione costituzionale. È vero, allora, che la Costituzione contiene “un richiamo giusnaturalistico potentissimo”; esso, infatti, rinviene la propria validità nella dignità della persona umana, nonché nel riconoscimento dei doveri inderogabili di solidarietà, che da un lato riconducono l’uomo alla sua condizione di precarietà e di bisogno, dall’altro pongono in evidenza le dimensioni della carità e della fraternità. In tal senso, come ha ricordato San Giovanni Paolo II in occasione della XXXII Giornata mondiale della pace, “la dignità della persona umana è un valore trascendente” e “la promozione del bene dell’individuo si coniuga così con il servizio al bene comune, là dove i diritti e i doveri si corrispondono e si rafforzano a vicenda”.
In conclusione, tornare alla natura significa ricercare un criterio oggettivo di giustizia e invocare la supremazia del diritto naturale sul diritto positivo, sì che, in caso di contrasto, il primo prevalga sul secondo: esemplificando, si pensi all’obiezione di coscienza, alla surrogazione di maternità, o all’eutanasia.
La legge naturale può tuttavia essere compresa pienamente solo in una dimensione di fede, ribaltando la prospettiva individualistica, anche grazie al decisivo contributo del credente: non è l’uomo che dà la scalata al cielo conquistando Dio e l’alleanza, ma è il Signore che solleva l’uomo e lo fa salire fino a sé; prendendo a prestito le parole dell’Autore, “la prima norma di diritto naturale è riconoscere Dio”.
Alessandro Candido