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di Alfredo Mantovano – pubblicato su Tempi Magazine, agosto 2020


Nell’autunno 2013 la proposta di legge contro l’omofobia, che portava come prima firma quella dell’on Scalfarotto, fu approvata alla Camera con larghissima maggioranza, ma poi si perse per strada e non venne più esaminata dal Senato.

Certamente grazie alle proteste che si sollevarono nelle piazze italiane, ma anche perché il fronte ampio dei suoi promotori preferì, dopo quel tentativo a inizio legislatura, optare per qualcosa di più sostanzioso: la legge sulle unioni civili, cui è stato conferito un regime simile nella sostanza al matrimonio same sex; la stepchild adoption, non introdotta in modo esplicito per via di norme, ma costruita dalla giurisprudenza, e neanche tanto implicitamente avallata dal Parlamento; la tolleranza dell’utero in affitto, senza alcun significativo contrasto ai viaggi negli Stati che lo permettono, e anzi con la pressione – non solo mediatica – per il riconoscimento in Italia come propri dei bambini nati dal ricorso a tale pratica; l’inserimento tra i farmaci distribuiti dal Servizio sanitario nazionale della c.d. triptorelina, la molecola che, assunta da un adolescente, blocca lo sviluppo ormonale, nella prospettiva del mutamento di genere; la frequente trattazione a scuola di tematiche sessuali secondo l’impostazione ideologica del gender.

Quel che è accaduto negli ultimi 5- 6 anni ha segnato, sul piano legislativo e sul terreno della comune percezione, passi significativi verso quella liquefazione di istituti fondati del nostro vivere quotidiano quali la naturalità del legame familiare e la distinzione fra i sessi. I sopravvissuti della rivoluzione sessuale che ha caratterizzato il periodo che ruota attorno al 1968 dovrebbero cantare vittoria: il percorso dissolutorio che in precedenza aveva scardinato le difese esterne all’uomo – religiose, sociali, nel mondo del lavoro e dell’economia – ha conosciuto il completamento dentro l’uomo stesso, grazie alla relativizzazione di dati la cui oggettività non era mai stata contestata in modo così diretto, diffuso e radicale.

Il cerchio si chiude

Al di là degli articoli e dei commi – la cui lettera fa inorridire il buon senso, prima della civiltà giuridica -, il testo unificato Zan sul contrasto alla omo/transfobia avrebbe, se approvato, un significato politico e culturale diverso rispetto alla proposta Scalfarotto: chiuderebbe il cerchio, mettendo “in sicurezza” i risultati ottenuti sul fronte dei c.d. nuovi diritti. La piena espansione del relativismo pone in discussione la fondamentale relazione uomo-donna fin dall’adolescenza: regala gli strumenti chimici, tecnici e giuridici per superarla, e fa sì che la ri-creazione del mondo attraverso la realizzazione di un indistinto magmatico non sia più il desiderio di qualche filosofo gnostico, né l’ansia elitaria di “illuminati” tanto potenti quanto sconosciuti ai più; sta diventando persuasione di massa, mediaticamente egemone: nessuna fiction va in prima serata su una tv di Stato se non racconta una storia omosessuale e se non fa l’apologia della canna.

Il solo ostacolo a tutto ciò è la ragionata riproposizione del vero sulla persona, sulla sua natura, e sulle sue relazioni, anzitutto fra i sessi. Per gli ideologi del gender il modo per superare l’ostacolo non è il confronto, magari aspro: è piuttosto la sanzione penale. Sarà quindi qualificato discriminatorio, e punito col carcere, chi rifiuta la badante che cerca per il caro anziano, se si propone un trans; o chi affitta un proprio appartamento solo a studentesse; o chi impartisce insegnamenti scientifici basati sulla realtà e non sull’identità di genere; o chi spiega i termini dell’amore fra un uomo e una donna ai frequentatori di un corso di preparazione al matrimonio, o ai bambini del catechismo…

Una dittatura senza autoblindo

Il paradosso è che il nulla del relativismo ha bisogno per imporsi dell’armatura istituzionale costituita dalla sentenza di condanna. La liquidità derivante dalla distruzione degli argini stronca grazie al rigore del codice penale i tentativi di reazione fondati sul rilancio dell’essenza strutturale dell’uomo.

Dubito che qualche reduce del 68 ancora in vita riesca a gioirne: i suoi dogmi ideologici sembrano trionfanti, ma al prezzo di sottostare al presidio del processo e dell’esecuzione penali. I “figli dei fiori” proclamavano di combattere padroni e istituzioni, ma adesso la tutela delle loro conquiste è affidata a quelle toghe che mezzo secolo fa odiavano, osteggiavano e nella degenerazione terroristica perfino colpivano. Predicavano e tentavano di praticare l’anarchia e oggi si ritrovano, una volta realizzate le loro parole d’ordine, in un regime: quello della dittatura del relativismo.

Quando questa espressione fu adoperata per la prima volta pochi ne colsero il senso, e più d’uno la ritenne una provocazione. Vedere un Parlamento che si affanna per approvare le norme del t.u. Zan dà l’idea che il totalitarismo non esiga l’autoblindo. È sufficiente la Gazzetta ufficiale.

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