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Pubblichiamo una riflessione del dott. Daniele Onori, del Centro studi Livatino, a margine del dibattito in corso sul fine vita.

Con il termine globalizzazione si indica il profondo cambiamento intervenuto nella  famiglia umana che a partire dagli anni ’80, soprattutto sull’onda dell’innovazione tecnologica, ha creato un unico sistema economico privo di barriere. Ma la globalizzazione non è solo questo. Alla base della globalizzazione economica vi è una globalizzazione dell’ethos, in cui l’interesse particolare dell’individuo è innalzato a misura e fine dell’agire umano. Questa concezione antropologica si accompagna alla proliferazione dei diritti, a richieste sempre nuove che investono la libertà sessuale, la libertà di abortire, di matrimonio per tutti, di divorzio, di scegliere l’eutanasia o il suicidio assistito come se esistesse un elenco infinito cui attingere con l’assenza totale di limitazioni.

I nuovi diritti hanno invaso tutte le altre libertà classiche sino  ad andare ad inficiare in modo molto sottile  il  fenomeno obiettorio, elevando a valori giuridici scelte di natura soggettiva, annientando il diritto al dissenso e ad esprimere opinioni di segno  contrario.

Prendendo spunto dall’ultima proposta di legge sul fine vita possiamo dire di essere di fronte, senza aver paura di essere smentiti, ad una eutanasia mascherata che segna l’inizio di un climax senza fine che potrebbe fare da apripista all’estensione dell’eutanasia ai malati terminali, poi ai minori malati, ai malati mentali, fino ad introdurre il c.d. suicidio assistito.

Sembra ormai essere stato scritto sull’acqua il Giuramento di Ippocrate: “Giammai, mosso dalle premurose insistenze di alcuno, propinerò medicamenti letali né commetterò mai cose di questo genere“.

Il medico può solo preservare e proteggere la vita, mai metterla in pericolo o addirittura porla a termine.

Il desiderio di morte  può avere diversi motivi: via d’uscita dall’insopportabile, momento di disperazione e annebbiamento dell’anima, odio verso se stessi, uscita da una situazione di gravissima sofferenza, sino al suicidio pensato come l’unico mezzo a disposizione dell’uomo per farsi Dio, ossia il suicidio come autoaffermazione della libertà umana contro quella divina.

E’ il suicidio di Kirillov, descritto con una ineguagliabile profondità in I demoni, che per raggiungere l’intento della suprema Autonomia deve, dopo aver negato Dio, sopprimere se stesso come supremo atto di autoaffermazione.

Riecheggia in questo nuovo millennio il pensiero negativo di J. P. Sartre che sosteneva: “Per la realtà umana essere vuol dire scegliersi: niente viene dal di fuori, né tanto meno dal di dentro, che essa possa ricevere o accettare. La realtà umana non può ricevere i suoi fini né dal di fuori né da pretesa natura interna. Essa li sceglie e basta; e con questa conferisce loro un’esistenza trascendente” (L’essere e il nulla, Il Saggiatore 1975, 535).

Per questo filosofo la libertà si concretizza nell’atto che la persona compie, privo di qualunque retroterra metafisico. Esaltava, dunque, una libertà individuale da stimare come valore “unico” e “assoluto”, svincolata dalla legge naturale e dalle normative etico-morale ritenute oppressive e repressive. Ma la decantazione della libertà individuale, a volte accompagnata dal relativismo culturale e separata dal fondamento metafisico, o si autodistrugge o si trasforma in strumento di lotta in cui prevale “la legge del più forte” come insegnava anche F. Nietzsche,  che riteneva l’io soggettivo unicamente “una favola, una finzione, un gioco di parole” (Crepuscolo degli idoli, Mondadori, Mi 1975, pg. 72).

Queste ricusabili e insoddisfacenti visioni applicate alla bioetica di fronte ad una vita fragile o bisognevole di cura legittimano la soppressione come “una scelta di libertà”.

In realtà l’invocazione dell’autonomia del morente è guidata dalla volontà di promuovere una morale orientata ad un certo funzionalismo, secondo la quale la vita di un individuo, che dipende dalla cura di altri, diviene non dignitosa. Affinché la scelta sia autonoma nel senso liberale, una scelta che esprima veramente la capacità deliberativa della persona, è necessario che questa sia fatta senza l’oppressione di una società che è condizionata dalla presenza del morente, sia perchè questi può essere sentito come un peso emotivo o finanziario, sia perché può intralciare una concezione morale efficientistica.

Oggi al medico viene richiesto di svolgere, oltre ad una funzione di diagnosi e cura a favore del paziente, anche di amministrare il budget che gli viene assegnato.

È un manager che  nel suo agire professionale, può essere sollecitato non dal perseguire il bene del paziente ma da motivazioni di ordine economicistico.

Quando sono queste ultime a prevalere il medico si sottrae alla sua doverosa responsabilità di fornire le cure necessarie ed opera risparmi sul budget assegnato negando, a questa persona, gli stessi diritti previsti per gli altri cittadini malati.

In questo quadro desolante risulta essere fondamentale ricollocare il paziente in una rete di relazioni, di opporsi all’abbandono e alla solitudine. Questo lo si può fare rivalutando il significato della dimensione relazionale dell’uomo. Comprendiamo chi è l’uomo solo se lo consideriamo nelle sue relazioni autentiche e profonde col mondo, con gli altri e con Dio.

Filosofi come Buber, Scheler e Mounier  hanno difeso l’idea della natura essenzialmente sociale dell’uomo, ci hanno insegnato che è vietato parlare di etica senza affrontare la questione della corresponsabilità morale tra tutti gli uomini.

L’affermazione dell’importanza delle relazioni per la persona è fondamentale  per affrontare il problema etico del fine vita.

Infatti, che la persona realizzi se stessa attraverso le relazioni con l’altra persona ha come conseguenza che la relazione è più feconda per chi dà che per chi riceve, più per chi cura che per chi è curato, più per chi accudisce che per chi è accudito. Questo ribalta la questione della “vita degna di essere vissuta” e del malato o anziano come “peso per la società”. Degna è la vita di chi cura il debole, più di quella di chi gira la testa dall’altra parte o chiede di eliminare il debole. E chi mi dà la possibilità di mettere in gioco le mie migliori risorse perché ha bisogno di tutto, non è un peso, ma una risorsa preziosa che mi richiama a ciò che più vale. Nelle relazioni di cura dei più deboli riaffermiamo nel modo più pieno il principio di Kant, per cui l’uomo è quell’essere che ha una dignità, cioè un valore, ma non un prezzo, e questa dignità esige un rispetto assoluto.

Nel momento in cui il paziente è una caso disperato, al medico resta il compito di essere testimone di questo rispetto assoluto.

Occorre pretendere che ai malati, compresi quelli colpiti da malattie inguaribili e da non autosufficienza e a coloro che sono nella fase terminale della vita, siano assicurate tutte le necessarie cure mediche ed infermieristiche e tutte le prestazioni socio-relazionali: sia nei casi di ricovero in strutture sanitarie, sia quando il malato vive a casa sua presso i suoi congiunti. È inoltre doveroso, sia dal punto di vista etico che giuridico, che vengano fornite alle persone ammalate tutte le prestazioni occorrenti per eliminare il dolore o per ridurlo in tutta la misura possibile, così da non far nascere  strumentalmente il desiderio di morte nell’assistito.

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