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Michel è un intellettuale squattrinato, che vive in una stamberga, sporca e squallida, con una branda, dei libri polverosi; passa le giornate a rubare orologi e portafogli – alle corse dei cavalli, nelle stazioni, in metropolitana – per sentirsi qualcuno. Michel si crede una sorta di super-uomo, quasi per dare un senso alla vita squallida e infelice che conduce, un’esistenza fatta di nulla, di gesti immorali, e priva di fede – Michel dice di aver creduto in Dio, solo per qualche istante. Il suo dramma esistenziale raggiungerà il culmine quando finirà in prigione. Lì inizierà la sua redenzione e si lascerà guarire dall’amore di una donna: Jeanne.   

Nella folla di Longchamp, un giovane di nome Michel infila una mano esitante nella borsetta di una donna, e si allontana con un bel bottino e un gran batticuore. La polizia lo acciuffa, poi lo rilascia per mancanza di prove e cioè per l’impossibilità di provare che quei soldi non fossero i suoi. Li consegna a una ragazza, Jeanne, perché li dia alla propria madre, che non ha il coraggio di salire a visitare. Quest’essere solitario, convinto della propria superiorità intellettuale e morale, vivrà ormai solo per soddisfare la malsana passione del furto.

Michel annota sul diario le sue riflessioni relative alla scelta di borseggiare il prossimo; frequenta un bar dove incontra l’amico Jacques al quale illustra, in presenza dello stesso commissario di polizia che ha tentato di arrestarlo, la propria teoria sull’esistenza di uomini superiori autorizzati alla trasgressione senza punibilità.

Mentre ha lasciato cadere le possibilità di lavorare propostagli dall’amico Jacques, si concentra nel sistematizzare la pratica del borseggio.

Studia sul metrò un professionista al lavoro, si allena in camera sua e riesce a imitarlo con successo. Solo una volta fallisce, e umiliato dalla mancata vittima, si rinchiude nella sua stamberga. Trascura l’informazione di Jeanne sull’aggravarsi della salute materna ed entra in contatto con uno sperimentato “collega” che gli tiene una sorta di corso presso il bar abituale.

La madre muore. Michel partecipa alle esequie con Jeanne e Jacques. Torna al “lavoro”, stavolta con il suo istruttore e un altro complice. Viene a conoscenza del libro del grande borsaiolo inglese Barrington, del quale si infervora al punto da proporne la lettura al commissario. Questi lo convoca per effettuare nel frattempo una perquisizione del suo domicilio, che peraltro non lascia nell’immediato tracce e resta senza conseguenze.

Non presta più attenzione né a Jeanne né a Jacques. Adesso è come ipnotizzato dagli orologi: sottrarne uno approfittando del momentaneo allontanarsi dei due amici, mentre è in loro compagnia, gli frutta una rovinosa caduta durante la fuga, ma non attenua il senso di euforia per il colpo andato a segno.

La sua sempre più superba tecnica si esplica ora alla Gare de Lyon. Ha l’impressione di conoscere già un uomo lì presente, ma non riesce a identificarlo. Si tratta di un funzionario di polizia che arresta entrambi i suoi colleghi. Apprende da Jacques di una convocazione di Jeanne alla polizia, in conseguenza di un altro suo furto già distante nel tempo, che l’aveva indirettamente danneggiata.

Fugge salendo su di un treno internazionale, e lo perdiamo di vista per un biennio di attività consumata nelle metropoli europee, senza peraltro migliorare la propria posizione economica. Rivede Jeanne, che nel frattempo ha avuto una figlia da Jacques prima di essere da lui lasciata. La cosa gli causa un trasporto emotivo momentaneo: trova un lavoro precario per sostenere finanziariamente la donna.

Ma la spinta è più forte di lui. Riprende l’attività a Longchamps, senza avvedersi che la polizia l’ha attirato in una sorta di trappola. Colto in flagrante e incarcerato, esaspera Jeanne venuta a colloquio. La successiva sparizione della ragazza lo getta nella disperazione: ma dopo qualche settimana ella si ripresenta, chiarendo che la causa dell’assenza era stata solo una malattia della bambina. Il cuore arido di Michel si apre all’amore di Jeanne e spezza la corazza del suo egoismo. Attraverso le sbarre del parlatorio, egli la bacia, il volto bagnato di lacrime.

Nel modello preso a prestito da Bresson le analogie con il Raskolnikov di Delitto e castigo sono palesi, addirittura palmari. I due personaggi hanno in comune la povertà, una filosofia superomistica, la dedizione all’atto gratuito, la sfida lanciata al consorzio sociale, tratti questi acuiti da non poche consonanze ricorrenti nel testo filmico, la cameretta in cui alloggia Michel somiglia all’angusta stanza dell’eroe dostoevskiano, così come richiamano alla mente le pagine del grande scrittore russo i colloqui tra il boscaiolo e il commissario e l’improvviso emergere del sentimento amoroso nel fuorilegge, sula via della redenzione.

E tuttavia dentro questa circolarità insignificante, s’insinua la speranza di una Grazia, che però — quasi come una beffa — può presentarsi, come sa Dostoevskij, nel momento stesso della condanna. Ma allora qual è la conclusione di questa filosofia del pessimismo bressoniano? L’attesa della rivelazione, quella che il regista segnala con l’insorgenza, anch’essa improvvisa, del momento musicale, l’unico, come diceva Nietzsche, in grado di “ingabbiare” la volontà: in quella estemporanea epifania, miserevolmente, l’esistenza brilla (“C’era qualcosa che illuminava il suo viso”).

Jeanne allora è l’essenza a lungo negata, che si offre bruciante a un’umanità inquieta e devota. Michel, dietro le sbarre, bacia castamente Jeanne sulla fronte, che, a sua volta, poggia le labbra sulla sua mano. Ma cos’è quel bagliore innaturale che si intravede sul suo viso? quel “lirismo” potente e misterioso? Dio? la Grazia? il Perdono? o forse solo lo squillo che sancisce il passaggio tra la condanna della vita e la condanna della morte? Non lo sappiamo, il finale è aperto, ma — dice Michel estraniato e commosso — “che strana strada ho dovuto percorrere per arrivare fino a te”.

Daniele Onori

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